L’illecito aquiliano e le sue funzioni

L’illecito aquiliano e le sue funzioni

Sommario: 1. La ratio e gli elementi strutturali dell’illecito aquiliano – 2. L’ingiustizia del danno e la sua influenza sulla conformazione delle funzioni dell’art. 2043 c.c. – 3. Le funzioni dell’illecito aquiliano – 4. Il recupero della funzione sanzionatoria –  4.1. L’astreinte – 4.2. I danni punitivi – 5. Conclusioni

 

1. La ratio e gli elementi strutturali dell’illecito aquiliano

La responsabilità extracontrattuale (o aquiliana) risponde all’esigenza di apprestare idonea tutela agli interessi giuridicamente rilevanti che subiscano un danno al di fuori di uno specifico rapporto contrattuale tra danneggiante e danneggiato, che entrano in contatto soltanto a seguito del fatto produttivo del danno.

La responsabilità civile, dunque, viene in rilievo qualora si verifichi un’interferenza tra due sfere giuridico-patrimoniali che, contrariamente a quanto avviene nel caso della responsabilità contrattuale, non sono legate da un preesistente rapporto obbligatorio.

La ratio dell’istituto, invero, si fonda sul principio del c.d. neminem laedere, in base al quale tutti sono tenuti al dovere generico di non ledere l’altrui sfera giuridica.

In particolare, ai sensi dell’art. 2043 c.c., che costituisce la norma cardine della responsabilità c.d. aquiliana, la relativa obbligazione risarcitoria sorge ogni qual volta un soggetto, compiendo un fatto doloso o colposo, arrechi ad altri un danno ingiusto.

Da tenore testuale della norma, dunque, è possibile enucleare i seguenti presupposti strutturali:

Il fatto, che di norma consiste non già in un mero accadimento naturale, bensì in un comportamento umano (“atto”), attivo od omissivo[1].

L’evento produttivo del danno può anche coincidere con un mero fatto materiale, di cui l’individuo risponde in virtù della particolare relazione intercorrente con la res che ha determinato il verificarsi dell’evento oppure del dovere di sorveglianza e controllo delle fonti di pericolo che la legge impone in talune circostanze per la tutela della posizione giuridica altrui[2].

Altro elemento è l’imputabilità dell’agente al momento del fatto, ai sensi dell’art. 2046 c.c. Ciò significa che colui che lo ha commesso doveva avere la capacità di intendere o di volere al momento della commissione dello stesso.

Se il soggetto, infatti, non è in grado di comprendere il disvalore sociale della propria condotta e di autodeterminarsi di conseguenza, non può essergli mosso alcun rimprovero[3].

È necessaria, poi, l’assenza di cause di giustificazione[4], ossia di quelle circostanze in al cui ricorrere un’azione, normalmente considerata illecita, diviene lecita in ragione di una norma che la facoltizza o la impone. Esse, pertanto, escludono la responsabilità dell’autore del fatto dannoso, che non risponde del fatto commesso ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Deve ricorrere, inoltre, la colpevolezza dell’agente, la quale può declinarsi nella colpa o nel dolo[5] e che rappresenta il criterio generale di imputazione soggettiva dell’illecito.

Tale elemento, in particolare, qualifica la condotta del danneggiante quale illecita e, dunque, deve essere valutato in relazione al fatto e non già al danno, di cui non concorre a determinare l’ingiustizia[6].

Occorre precisare, tuttavia, che il modello di responsabilità soggettiva su cui si fonda l’art. 2043 c.c. subisce talune eccezioni, essendo affiancato da altri criteri di imputazione, specificamente individuati dalla legge, imperniati sulla responsabilità oggettiva[7].

Altro elemento fondamentale è il danno, che la norma individua in una doppia accezione.

Laddove menziona il danno ingiusto, infatti, essa introduce la nozione di danno-evento, ossia la lesione non iure e contra ius di un interesse giuridicamente rilevante.

Il riferimento all’obbligo di risarcimento che ne deriva, invece, deve essere inteso quale danno-conseguenza, ovvero come il pregiudizio concretamente sofferto dalla vittima e conseguente alla lesione.

Il primo, dunque, costituendo un connotato dell’illiceità del fatto, non è risarcibile di per sé, essendo necessaria la modificazione peggiorativa della sfera economica o morale del danneggiato[8].

Se, dunque, la lesione non ha prodotto nella sfera giuridica del soggetto alcuna alterazione negativa, non si configura alcun danno-conseguenza e, dunque, non sorge in capo all’agente alcun obbligo risarcitorio. È risarcibile, tuttavia, solo il danno che sia conseguenza “immediata e diretta” del fatto dannoso, ai sensi dell’art. 1223 c.c., applicabile in quanto richiamato dall’art. 2056 c.c.

Secondo il c.d. sistema bipolare[9], il danno si distingue in danno patrimoniale, per tale intendendosi quello che si concretizza nella lesione di interessi economici del danneggiato, e danno non patrimoniale, dato dalla lesione di interessi della persona che non siano connotati da rilevanza economica[10].

Occorre, infine, determinare la sussistenza del nesso di causalità tra fatto e danno.

Per il sorgere della responsabilità ex art. 2043 c.c. in capo ad un determinato soggetto, infatti, è necessario che il danno sia la diretta conseguenza della sua condotta.

Al fine dell’accertamento di tale rapporto di causalità, è necessario effettuare un ragionamento logico-giuridico di natura bifasica.

In primo luogo, invero, occorre ricostruire il fatto dannoso e, cioè, verificare la sussistenza di un collegamento materiale tra la condotta e l’evento dannoso (c.d. causalità materiale o di fatto). Sotto il profilo naturalistico, dunque, la condotta può considerarsi causa o concausa di un determinato evento qualora, senza di essa, quest’ultimo non si sarebbe verificato[11].

In secondo luogo, occorre determinare quale, tra gli antecedenti logico-giuridici materialmente ricollegati all’evento, sia la causa rilevante sul piano giuridico (c.d. causalità giuridica).

A tal fine, il criterio di riferimento è stato individuato per via giurisprudenziale ed è ravvisabile nella c.d. “causalità adeguata”, secondo cui una condotta è causa giuridica dell’evento qualora quest’ultimo è normalmente, sulla base di un giudizio ex ante fondato sull’applicazione di comuni regole di esperienza, conseguenza di quel dato comportamento[12].

2. L’ingiustizia del danno e la sua influenza sulla conformazione delle funzioni dell’art. 2043 c.c.

L’elemento che maggiormente condiziona le funzioni attribuite alla responsabilità extracontrattuale è senza dubbio il danno o, più precisamente, l’ingiustizia che lo qualifica.

La riferibilità di tale caratteristica al danno e, dunque, l’odierno atteggiarsi della responsabilità in esame, tuttavia, è frutto di un lungo percorso dottrinale e giurisprudenziale.

Subito dopo l’entrata in vigore del codice del 1942, infatti, l’ingiustizia di cui al dettato dell’art. 2043 c.c. veniva riferita non già al danno, bensì al fatto dannoso, inteso come condotta materiale dell’agente.

L’elemento centrale della responsabilità aquiliana era dunque ravvisato nell’illiceità della condotta, che veniva interpretato quale sinonimo di ingiustizia

Pertanto, per essere considerato antigiuridico, il fatto doveva essere colpevole, ossia compiuto dall’agente perlomeno con colpa.

L’art. 2043 c.c., quindi, era considerato una norma punitiva della violazione di prescrizioni poste dalla legge e ad essa era attribuita, di conseguenza, funzione prettamente sanzionatoria.

L’obbligo di risarcimento, dunque, sorgeva in capo al danneggiante solo a fronte della violazione di obbligazioni preesistenti poste dall’ordinamento, ossia solo nel caso in cui il fatto fosse previsto dalla legge quale illecito.

Da ciò ne conseguiva: i. la concezione della responsabilità civile come schema tipico; ii. la rilevanza esclusivamente dei danni derivanti dalla lesione dei diritti assoluti (ossia diritto della personalità e diritti reali) e non anche di quelli conseguenti alla lesione dei diritti di credito od altri interessi giuridicamente rilevanti (in quanto non assistiti da un espresso divieto di intrusione illecita nella sfera giuridica altrui rivolto a tutti i consociati); iii. la natura di norma secondaria dell’art. 2043 c.c., considerato quale rimedio alla violazione di un divieto sancito da un’altra norma, attributiva di un diritto soggettivo e, dunque, avente carattere primario; iv. la conseguente funzione prettamente sanzionatoria attribuita a tale responsabilità, v. la centralità del coefficiente soggettivo ai fini dell’imputazione di quest’ultima.

Nella seconda metà del secolo scorso, tuttavia, la concezione tradizionale dell’illecito aquiliano, fondata, come evidenziato, sull’illiceità (alias ingiustizia) del fatto, è stata superata da una nuova impostazione ermeneutica.

Secondo un’interpretazione più aderente al dettato normativo, tale orientamento propugna la riferibilità dell’ingiustizia non già al fatto, bensì al danno.

Il danno è ingiusto, in particolare, quando è contra ius e non iure, ossia, rispettivamente, lesivo della posizione giuridica altrui e non giustificato dall’esercizio di un diritto.

La nuova impostazione, dunque, non solo trasferisce la riferibilità dell’ingiustizia al danno, ma muta anche la nozione di quest’ultima.

Da violazione di norme attributive di diritti soggettivi e, dunque, di prescrizioni tipiche, infatti, essa diviene una clausola generale che fa dipendere il risarcimento dalla qualificabilità del danno come ingiusto, a prescindere tanto dalla tipicità del fatto causativo, quanto dalla tipicità dello stesso danno.

Quest’ultimo, infatti, non rileva in quanto tale, ma in quanto ingiusto secondo la valutazione ex post di volta in volta compiuta dal giudice e fondata sull’accertamento della violazione dei doveri di solidarietà sociale sanciti dalla Costituzione.

Fonte di responsabilità, pertanto, può essere qualunque fatto che cagioni un danno ingiusto.

L’art. 2043 c.c., dunque, acquista il carattere di norma primaria, in quanto non più considerata una mera norma punitiva della violazione di beni giuridici tipizzati dall’ordinamento, ma, tutelando in via immediata e diretta quegli interessi non altrove tipizzati, diviene essa stessa attributiva di un diritto soggettivo nuovo ed autonomo, ossia il diritto al risarcimento del danno.

Rilevando la lesione di qualsivoglia bene che sia qualificabile come ingiusta, dunque, assumono dignità giuridica ai sensi dell’art. 2043 c.c. anche beni atipici e diversi dai diritti soggettivi assoluti, compresi i diritti relativi e gli interessi legittimi.

Ciò comporta un radicale cambiamento della stessa funzione della responsabilità, che non è più considerata sanzionatoria, ma diviene precettiva e, soprattutto, ripristinatoria, in quanto volta a riparare il pregiudizio ingiustamente subito dal danneggiato, ripristinando la situazione personale e patrimoniale preesistente al fatto dannoso (status quo ante)[13].

Tale prospettiva vittimologia implica importanti ripercussioni anche sul piano dell’elemento soggettivo, in quanto non è più l’illiceità del fatto a determinare il sorgere dell’obbligazione risarcitoria in capo al danneggiante, bensì la sola ingiustizia del danno.

Di conseguenza, divengono compatibili con il dettato normativo anche criteri alternativi di attribuzione della responsabilità, che prescindono dalla colpa dell’agente.

Il ruolo centrale acquisito dal danno ingiusto, in definitiva, rivoluziona radicalmente la responsabilità aquiliana e le sue funzioni, attribuendo un ruolo cardine a quella riparatoria-ripristinatoria[14].

3. Le funzioni dell’illecito aquiliano 

Allo stato, come anticipato, la funzione riparatorio-ripristinatoria costituisce la funzione essenziale caratterizzante la responsabilità extracontrattuale.

Essa può essere scissa in due componenti: a) la funzione di reagire all’evento dannoso, allo scopo di risarcire i soggetti che hanno subito il danno; b) la funzione di ripristinare lo status quo ante, ossia riportare il danneggiato nelle condizioni personali e patrimoniali in cui si trovava prima di subire la lesione della propria sfera giuridica.

Grazie al risarcimento, dunque, il soggetto leso riceve un’utilità – consistente nell’esatto ripristino della situazione anteriore al danno (risarcimento in forma specifica) oppure nel versamento di una somma di denaro corrispondente alla perdita subita e al mancato guadagno (risarcimento per equivalente) – corrispondente al valore delle conseguenze economiche negative subite.

Alla funzione descritta se ne affianca un’altra, ossia quella di deterrenza.

In particolare, la ratio di quest’ultima si fonda sull’assunto che qualsiasi individuo, prima di agire, pondera i vantaggi e gli svantaggi che potrebbero derivare dal suo operare, valutandone le conseguenze sul piano economico.

In quest’accezione, il risarcimento del danno viene inteso quale costo dell’attività dannosa tale da indurre l’agente a considerare che le perdite che egli dovrebbe sopportare quale conseguenza del proprio agire sono maggiori dei profitti che egli potrebbe trarre dall’attività medesima.

In virtù dell’analisi costi-benefici, pertanto, la responsabilità aquiliana ha l’obiettivo, ulteriore rispetto alla compensazione dei danni, di disincentivare la produzione di questi ultimi e, dunque, di prevenire la commissione di fatti lesivi.

Tale funzione, oltre che nel tradizionale modello di responsabilità civile fondato sulla colpa, è ravvisabile altresì in relazione alla responsabilità oggettiva, scevra da ogni indagine circa il coefficiente soggettivo dell’agente e fondata sul mero compimento da parte dello stesso di un’attività pericolosa oppure sulla valutazione, compiuta dall’ordinamento, che egli è il soggetto che meglio può sopportare la traslazione del danno.

Attraverso il disposto dell’art. 2043 c.c., infatti, egli è indotto ad esercitare attività meno rischiose ovvero ad adottare tutte le cautele idonee a prevenire pregiudizi a terzi, al fine di evitare di sopportare il costo dei possibili danni.

Talora, tuttavia, il rapporto tra costi e benefici può risultare favorevole per il danneggiante. Ciò accade ogni qual volta i vantaggi che quest’ultimo potrebbe trarre dalla commissione del fatto illecito siano superiori agli svantaggi che dovrebbe sopportare a titolo risarcitorio.

Tale eventualità è legata al fatto che il risarcimento è quantificato sulla base delle conseguenze negative che il comportamento illecito ha prodotto nella sfera giuridica del danneggiato.

La misura del danno da riparare per riportare quest’ultimo nella situazione precedente alla lesione, dunque, ben potrebbe essere inferiore rispetto all’utilità che il danneggiante ha tratto dal cagionamento del danno stesso.

In tal caso, emerge evidentemente che l’illecito aquiliano assolve una funzione essenzialmente riparatoria, poiché l’effetto deterrente risulta insussistente o comunque molto attenuato.

Al contrario, tale effetto si amplifica qualora, come già esposto, il costo dell’illecito a carico del danneggiante sia superiore al beneficio derivante dallo stesso. In questo caso, dunque, la funzione deterrente prevale su quella riparatoria.

Per il danneggiato, un tale risarcimento può comportare una compensazione finanche superiore al danno effettivamente subito (c.d. overcompensation).

Il tal caso, è evidente che la differenza quantitativa tra il danno concretamente subito dal danneggiato e l’ammontare del risarcimento cui il danneggiante è obbligato costituisce per quest’ultimo null’altro se non una sanzione, in quanto eccedente il quantum necessario per l’integrale ripristino dello status quo in favore della vittima e, dunque, per l’assolvimento della funzione compensativa tradizionalmente attribuita alla responsabilità extracontrattuale.

Qualora la funzione deterrente si espanda fino a diventare deterrente-sanzionatoria, occorre determinarne la compatibilità con i principi vigenti nel nostro ordinamento che, come già illustrato, ha nel tempo attribuito all’illecito aquiliano una funzione essenzialmente riparatorio-ripristinatoria, in cui il risarcimento non può mai eccedere quanto necessario per riportare il danneggiato allo stato antecedente alla lesione.

Tale interrogativo si pone con particolare pregnanza con riguardo a due particolari istituti, ossia la c.d. astreinte ed i c.d. danni punitivi, entrambi aventi natura afflittiva, il cui accoglimento nell’ordinamento interno sembrerebbe indicare la riscoperta della funzione sanzionatoria dell’illecito aquiliano.

4. Il recupero della funzione sanzionatoria

4.1. L’astreinte

L’astreinte (penalità di mora), di derivazione francese, è un istituto in virtù del quale il giudice impone alla parte inadempiente l’obbligo di pagare una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento della prestazione dovuta.

Esso, dunque, non ha funzione riparatoria, ma risponde ad una logica di sanzione.

Lo stesso, infatti, realizza una tecnica di coercizione indiretta, ossia di costrizione all’adempimento mediante la pressione indotta dalla sanzione pecuniaria paventata.

L’astreinte, tuttavia, costituisce altresì una sanzione ex post in caso di inadempimento. Dunque, esso ha una doppia valenza, operando tanto come forma di coazione indiretta all’adempimento, quanto come strumento sanzionatorio in caso di inosservanza dell’obbligo di adempimento posto dal giudice.

Nel nostro ordinamento, tale istituto è stato recepito, con legge 18.6.2009, n. 69, all’art. 614 bis c.p.c.

La norma ha comportato, dunque, l’introduzione nell’ordinamento giuridico, per la prima volta con portata generale, della disciplina delle misure di coercizione indiretta.

Essa statuisce che, con riguardo all’inadempimento degli obblighi di fare infungibile o di non fare, il giudice, su richiesta di parte, fissa, con il provvedimento di condanna e salvo che ciò sia manifestamente iniquo, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il giudice determina l’ammontare della somma tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.

L’istituto in discorso è stato altresì introdotto nell’ambito del processo amministrativo (art. 114, c. 3, c.p.a.), con la differenza, rispetto a quello civilistico, che la misura è applicabile anche agli obblighi fungibili, suscettibili di esecuzione forzata, e quindi anche alle obbligazioni pecuniarie[15].

Sia sotto il profilo civilistico, sia sotto quello amministrativistico, emerge la portata innovativa dell’istituto, che non risponde ad una logica riparatoria, ma sanzionatoria.

In particolare, esso sanziona la disobbedienza all’ordine del giudice, a prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un danno. La penalità di mora, infatti, si cumula con il danno cagionato dall’inosservanza del comando giudiziale.

Sebbene, dunque, l’astreinte non possa considerarsi una misura finalizzata al risarcimento del danno, la sua portata normativa e giurisprudenziale determina non di meno un fondamentale riconoscimento della compatibilità di istituti aventi carattere sanzionatorio con il nostro ordinamento interno[16].

L’ammissione di tale istituto, dunque, costituisce un’apertura fondamentale verso il riconoscimento della compatibilità con il sistema giuridico nazionale della funzione sanzionatoria della stessa responsabilità civile e, in particolare, verso la successiva introduzione dei c.d. danni punitivi.

4.2. I danni punitivi

La definizione “danni punitivi” (punitive damages) attiene ad un istituto giuridico di matrice anglosassone, proprio degli ordinamenti di common law[17].

In tali ordinamenti, nell’ipotesi di responsabilità extracontrattuale è riconosciuto al danneggiato un risarcimen­to ulteriore rispetto a quello necessario per compensare il danno subito (com­pensatory damages), se la vittima prova che il danneggiante ha agito con malice (dolo) o gross negligence (colpa grave).

Attraverso i punitive damages, dunque, il giudice condanna pagamento di una somma che oltrepassa l’ammontare dei danni effettivamente subiti dal danneggiato e che può essere parametrata finanche al profitto realizzato dal danneggiante.

La funzio­ne assolta da tale istituto è quella di punire comportamenti caratterizzati da malizia e in generale da un rilevante danno sociale. Allo stesso tempo, esso induce l’autore a non ripetere in futuro analoghi comportamenti dannosi.

Nei danni punitivi, quindi, sono ravvisabili tanto la funzione risarcitoria, quanto quella sanziona­toria e di deterrenza: oltre a tutelare gli interessi della vittima, infatti, l’obiettivo è anche punire l’autore dell’illecito e prevenire futuri illeciti.

La quantificazione dei danni punitivi è rimessa alla discrezionalità del giudice, che deve parametrarla ai vantaggi che il danneggiante ha conseguito con l’illecito, nonché alla situazione patrimoniale di quest’ultimo, in modo che il pa­gamento della somma costituisca un sacrificio apprezzabile per lo stesso.

I punitive damages sono in linea generale estranei agli ordinamenti di civil law.

Da questa estraneità nasce un duplice problema, ossia i) se siano ammissibili, nell’ordinamento interno, condanne da parte del giudi­ce a risarcimenti punitivi e ii) se possano essere riconosciute sentenze straniere che hanno condannato al risarcimento di danni punitivi.

i) La condanna del giudice interno a risarcimenti punitivi

Con riguardo alla condanna del giudice interno a risarcimenti di tipo punitivo, la giurisprudenza maggioritaria asserisce che la funzione punitiva e sanzionatoria è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante.

Alla responsabilità civile, infatti, si attribuisce lo specifico compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato.

Tale funzione è propria di qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale. Proprio in virtù del fatto che non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, ai fini del risarcimento non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale del danneggiante, ma è altresì necessaria la prova dell’esistenza della lesione arrecata dall’illecito mediante l’allegazio­ne di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, escludendosi che tale prova possa considerarsi in re ipsa.

L’affermazione generalizzata nelle sentenze è che la funzione risarcitorio-riparatoria caratterizza in via prevalente, se non esclusiva, la responsabilità aquiliana. E tale funzione è incompatibile con la condanna a risarcimenti pu­nitivi: l’obbligazione risarcitoria è commisurata alla lesione subita dal dan­neggiato (prospettiva vittimologica ex art. 2043 c.c.), non alla gravità della condotta del danneggiante, né ai vantaggi che quella condotta ha recato al responsabile. Il risarcimento quindi compensa il danneggiato, non sanziona il danneggiante.

I criteri che il codice civile individua per quantificare il risarcimento costituirebbero una conferma dell’inammissibilità dei danni punitivi.

In particolare, l’art. 2056 c.c., rinviando all’art. 1223 c.c., rende applicabili alla responsabilità aquiliana gli stessi criteri previsti per la quantificazione del risarcimento da inadempimento dell’obbligazione. Essi sono il danno emergente e il lucro cessante, che assolvono la funzione di compensare la vittima del danno subito a seguito dell’illecito.

Il risarcimento, in forza di tali criteri, è esclusivamente «compensativo» (compensatory dama­ges) e realizza l’effetto di traslare una perdita dal soggetto che l’ha subita al soggetto che l’ha causata.

Il risarcimento, in quanto rimedio, deve porre il danneggiato nella stessa situazione in cui egli si sarebbe trovato se l’illeci­to non fosse stato commesso.

Di conseguenza, la regola è che il risarcimento è parametrato alla perdita su­bita dal danneggiato e non anche al guadagno che il danneggiante ha tratto dall’illecito.

Il risarcimento non può quindi rappresentare un mezzo con il quale il danneggiato possa ottenere un vantaggio superiore a quello che sarebbe derivato se il danno non si fosse verificato, costituendo qualsiasi eccesso una violazione del divieto di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.[18] Il danno, in altri termini, non può eccedere l’entità della perdita subita.

La giurisprudenza, dunque, conclude che il risar­cimento del danno, assolvendo una funzione compensativa, non può essere per definizione punitivo.

Secondo altro orientamento, tuttavia, la risarcibilità del danno ai sensi dell’art. 2043, sulla base dei criteri individuati dall’art. 1223 c.c., sebbene escluda la possibilità per il giudice di condannare al paga­mento di danni punitivi, non osta a che il legislatore, con specifiche nor­me, possa prevedere forme speciali di responsabilità aquiliana che, anziché limitarsi a compensare il danno, tendano a punire l’illecito e a prevenirlo.

I danni punitivi, dunque, anche nel nostro ordinamento, possono ­essere uno strumento per reprimere i torti aquiliani, nei casi previsti da specifiche norme di legge[19].

Tale impostazione è alla base del ragionamento logico-giuridico seguito dalla giurisprudenza di legittimità ai fini del riconoscimento delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei punitive damages, la quale statuisce che tale istituto non possa ritenersi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano.

ii) il riconoscimento delle sentenze straniere

Per quanto riguarda il riconoscimento delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei danni punitivi, l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che tale riconoscimento è incompatibile con la funzione della responsabilità civile su cui si fonda il nostro ordinamento[20].

Si afferma, infatti, che alla stessa è assegnato il compito di restaurare la sfera soggettiva del danneggiato, ponendolo in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se il danno non si fosse verificato.

Il risarcimento, dunque, non deve impoverire il danneggiato, ma neanche arricchirlo.

Nell’ultimo caso, si avrebbe uno spostamento patrimoniale non giustificato dall’esigenza riparatoria che la responsabilità civile soddisfa e, dunque, uno spostamento privo di causa, incompatibile con il principio generale desumibile dall’art. 2041 c.c.

L’orientamento minoritario, invece, afferma la riconoscibilità nell’ordinamento nazionale delle sentenze straniere di condanna al risarcimento dei danni con funzione punitiva.

Tale tesi si fonda, in particolare, sulla rilettura del principio di ordine pubblico in chiave sovra nazionale, asserendo che il principio in questione, tradizionalmente inteso come l’insieme dei valori che informano l’ordinamento giuridico nazionale e consacrati, in modo diretto od indiretto, all’interno di norme inderogabili, debba essere inteso in una doppia accezione.

L’ordine pubblico nazionale, infatti, si inserisce all’interno del più ampio concetto di ordine pubblico internazionale, inteso come il complesso di quei principi fondamentali dell’ordinamento interno posti a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e comuni ai diversi ordinamenti che devono essere desunti, in particolare, dalle norme di rango costituzionale, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario ed internazionale.

Ciò posto, la funzione esclusivamente riparatoria della responsabilità civile non può considerarsi un principio di ordine pubblico.

L’ammissibilità dei danni punitivi, infatti, è stata dichiarata da numerosi ordinamenti europei, quali Germania[21], Spagna[22], Francia[23] e Slovenia[24].

Di conseguenza, tale istituto non può considerarsi incompatibile con l’ordinamento sovra nazionale e, quindi, neanche con i principi costituzionali, in quanto essi propugnano l’adesione del sistema giuridico nazionale ai valori sovra nazionali.

I punitive damages, dunque, sarebbero compatibili anche con l’ordinamento interno.

La tesi sostenuta dall’orientamento giurisprudenziale minoritario è stata accolta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite[25].

La Suprema Corte, in particolare, oltre all’argomento di matrice internazionale speso dalla giurisprudenza minoritaria[26], rileva che negli ultimi decenni sono state introdotte nello stesso ordinamento interno disposizioni aventi funzione risarcitorio-sanzionatoria[27].

Ciò posto, le Sezioni Unite chiariscono, tuttavia, che il connotato sanzionatorio della responsabilità extracontrattuale non è configurabile se non nei casi tassativamente previsti dalla legge, pena la violazione dei superiori principi di cui all’art. 25, c. 2, Cost. e all’art. 7 della CEDU.

Seguendo tale ragionamento logico-giuridico, la Corte di Cassazione afferma la natura polifunzionale della responsabilità civile che, oltre alla funzione, pur sempre primaria ed essenziale, compensativo-riparatoria, assolve altresì una funzione sanzionatorio-punitiva, sebbene nei soli casi previsti dalla legge, secondo la riserva di legge che, ai sensi dell’art. 23 Cost., copre le imposizioni di prestazioni patrimoniali[28].

Alla luce di tale ricostruzione normativa e giurisprudenziale, le Sezioni Unite affermano la compatibilità con l’ordine pubblico interno delle sentenze straniere di condanna per danni punitivi, purché vengano rispettati taluni principi fondamentali.

In particolare, la Suprema Corte chiarisce che il rispetto del principio di legalità impone che la condanna straniera ai punitive damages provenga da fonte normativa che risponda ai principi di tipicità e prevedibilità. In altre parole, nello Stato in cui la sentenza è emessa, deve esservi puntuale perimetrazione della fattispecie astratta (tipicità) e precisa indicazione dei limiti quantitativi della condanna irrogabile (prevedibilità)[29].

Presidio basilare per la analisi di compatibilità, inoltre, si desume in ogni caso dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione relativo ai “Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”.

La sua applicazione comporta, secondo la Corte, che il controllo delle Corti di appello sia portato a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest’ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione.

La proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, dunque, anche a prescindere da questo disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile.

Dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in definitiva, sembrerebbe potersi desumere la reintroduzione nel nostro ordinamento della funzione sanzionatoria della responsabilità civile.

 5. Conclusioni

La riammissione della funzione sanzionatoria dell’illecito aquiliano che si desume dai recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali, sebbene sinora legittimata solo nei casi specificamente previsti dalla legge, potrebbe trovare una generale giustificazione nello stesso art. 2043 c.c. qualora si accogliesse la tesi, sostenuta da taluni autori, della necessità di reinterpretare la nozione di ingiustizia del danno.

In particolare, come anticipato, secondo l’impostazione ad oggi dominante il danno è ingiusto quando è contra ius e non iure, ossia, al contempo, lesivo della posizione giuridica altrui (contra ius) e non giustificato dall’esercizio di un diritto (non iure).

Secondo un’autorevole tesi minoritaria[30], tuttavia, è il fatto ad essere non iure.

Il danno ingiusto, cioè, è quello cagionato da un fatto non conforme ai precetti ed ai valori dell’ordinamento e, quindi, illecito.

Sebbene l’art. 2043 c.c. sembri qualificare solo il danno, infatti, esso deve essere letto in combinato disposto con l’art. 1173 c.c., che individua specificamente, tra le fonti dell’obbligazione, il “fatto illecito”. È questa, dunque, la norma che qualifica il fatto rilevante ai fini della responsabilità civile quale fatto non iure.

L’art. 2043 c.c., pertanto, deve essere inteso in una doppia accezione. Esso, infatti, fissa un primo precetto secondo cui il comportamento del danneggiante deve essere illecito, dovendo a tal fine valutarsi altresì l’elemento soggettivo del dolo o della colpa (al di fuori delle specifiche eccezioni di responsabilità che prescindono dal coefficiente soggettivo). Il secondo precetto è dato dal fatto che il danno conseguente al fatto non iure consiste nella lesione di un interesse giuridicamente rilevante.

Solo il danno ingiusto, dunque, riguarda la sfera del danneggiato, mentre il fatto, qualificandosi come illecito, attiene alla sfera giuridica del danneggiante.

Tale impostazione consente di reinterpretare l’illecito aquiliano secondo una doppia valenza.

Rimane ferma, invero, la centrale funzione riparatorio-ripristinatoria nella prospettiva del soggetto danneggiato, in virtù della quale il risarcimento deve compensare la perdita subita. A tale funzione, tuttavia, si affianca quella sanzionatoria, attinente alla prospettiva dell’autore dell’illecito e secondo cui il risarcimento del danno è misura del disvalore che l’ordinamento attribuisce a quella condotta, mirando ad affliggere il responsabile ed a sanzionarlo per la stessa.

La reinterpretazione dell’art. 2043 c.c. permette la coesistenza di entrambe le funzioni ed attribuisce alla responsabilità extracontrattuale, quale carattere fondante, una doppia antigiuridicità: quella del fatto (riferito al danneggiante) e quella del danno (riferito alla vittima).

L’impostazione ermeneutica descritta è pienamente coerente con il carattere polifunzionale ad oggi attribuito, con sempre maggior decisione, all’illecito aquiliano e consente l’integrazione sistematica e coerente della funzione riparatorio-ripristinatoria con quella deterrente-sanzionatoria, coerentemente all’avvenuto riconoscimento della compatibilità degli istituti di matrice sanzionatoria (astreinte e punitive damages) con il nostro ordinamento interno ed ai principi vigenti nell’ordinamento sovra nazionale.

 

 

 


[1]In questo secondo caso, rileva, secondo la giurisprudenza dominante, non qualsivoglia omissione, ma solo la condotta omissiva che sia stata posta in essere: a) in violazione di un obbligo di intervenire gravante sul soggetto in virtù di una disposizione normativa e, dunque, di un obbligo giuridico ovvero b) in violazione delle regole di diligenza e correttezza desumibili dal principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost., nonché dal dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede ai sensi dell’art. 1175 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. Un., 21 novembre 2011, n. 24406).
[2] Es. responsabilità per danno da custodia; responsabilità per danno cagionato da un animale.
[3] Al riguardo rileva, dunque, non già l’incapacità legale, bensì quella naturale. È fatta salva l’ipotesi in cui lo stato di incapacità derivi da sua colpa (cfr., sul punto, l’actio libera in causa: art. 87c.p.). L’imputabilità deve tenersi distinta dalla colpa, essendo un elemento del tutto autonomo da essa (non è, infatti, un presupposto dell’elemento soggettivo).
[4] Casi di esclusione dell’antigiuridicità codificati sono la legittima difesa (artt. 2044 c.c.) e lo stato di necessità (art. 2045 c.c.), mentre casi non codificati sono l’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere.
[5] La prima è configurabile qualora l’evento dannoso, anche laddove previsto, non è voluto dal soggetto agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza, imperizia (c.d. colpa generica) ovvero per l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline (c.d. colpa specifica) da parte dello stesso. Il secondo, invece, è ravvisabile laddove l’agente si sia rappresentato ed abbia voluto il verificarsi dell’evento dannoso quale conseguenza della propria condotta (c.d. dolo diretto), oppure, pur non perseguendo specificamente la realizzazione dell’evento dannoso, si sia rappresentato abbia accettato il rischio del verificarsi dello stesso quale conseguenza della propria condotta.
[6] Ad esclusione degli illeciti dolosi in cui, se manca il dolo, non si configura nemmeno un danno ingiusto.
[7] La c.d. “responsabilità oggettiva” è una figura che implica l’esistenza del solo nesso causale.
Da tale presupposto deriva che il danneggiante risponde del danno cagionato come conseguenza immediata e diretta della propria condotta. Essa riguarda solamente le ipotesi tassativamente previste dalla legge, quali la responsabilità: dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte per i danni cagionati dai minori (art. 2048 c.c.); del preponente per i danni cagionati dai suoi preposti (art. 2049 c.c.); di chiunque cagioni danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa (art. 2050 c.c.); del custode per i danni cagionati da cose in custodia (art. 2051 c.c.); del proprietario di un edificio o di altra costruzione per i danni cagionati dalla loro rovina (art. 2053 c.c.); del conducente e del proprietario di un veicolo senza guida di rotaie per i danni cagionati dalla circolazione del veicolo stesso derivanti da vizi di costruzione (art. 2054, c. 4, c.c.).
[8] Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2009, n. 794 ha chiarito che è solo il danno conseguenza ad essere oggetto di risarcimento.
[9] Cass. 14 ottobre 2016, n. 20807.
[10] In particolare, ai sensi dell’art. 2059 c.c., tale tipo di danno è risarcibile solo nelle ipotesi tassativamente previste. Muovendo da un’impostazione inizialmente restrittiva, la giurisprudenza ha poi fornito una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., secondo cui vi sono ricompresi tutti i casi di “lesione di diritti inviolabili” della persona riconosciuti dalla Costituzione (Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
[11] Teoria della c.d. condicio sine qua non del verificarsi dell’evento, secondo cui è causa di quest’ultimo ogni condizione senza la quale lo stesso non si sarebbe verificato. Secondo la giurisprudenza, la sussistenza di tale nesso non deve essere certa “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come nel caso della responsabilità penale, ma è necessario e sufficiente il criterio c.d. del “più probabile che non”, in virtù del quale l’evento è causalmente ricollegabile ad una determinata circostanza qualora sia “più probabile che non” che lo stesso non si sarebbe verificato in assenza di quel dato antecedente. In tal caso, dunque, quest’ultimo è causa, o concausa, dell’evento.
[12] Criterio dell’id quod plerumque accidit, ossia “ciò che accade di solito”. Ciò significa che il nesso di causalità tra una determinata condotta, pur quando condicio sine qua non dell’evento, e l’evento stesso di interrompe se il danno che ne è derivato costituisce una conseguenza del tutto atipica di quel dato comportamento. In questo caso, dunque, non è ravvisabile responsabilità civile (cfr. Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2011, n. 1768).
[13] L’enucleazione di tale funzione dell’art. 2043 c.c. è sancita dalla storica sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 500 del 1999, in cui la Suprema Corte, sul presupposto che la risarcibilità non è ancorata alla presenza nell’ordinamento di altre norme recanti divieti e, quindi, costitutive di diritti soggettivi, ma è essa stessa norma tutelante anche situazioni soggettive atipiche e diverse dai diritti assoluti, ha riconosciuto la risarcibilità in via autonoma degli interessi legittimi.
[14] La funzione della responsabilità diviene prettamente vittimologica, assolvendo al compito di sollevare il danneggiato dalla sopportazione delle conseguenze del danno ingiustamente sofferto, trasferendole sul danneggiante.
[15] Nel processo amministrativo, dunque, l’astreinte ha una portata applicativa più ampia. Essa, inoltre, si differenzia da quella di matrice civilistica in quanto: a) è irrogata dal G.A. in sede di ottemperanza e, quindi, con la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale; b) di conseguenza, mentre nel processo civile l’astreinte è ad esecuzione differita, in quanto condizionata all’eventuale futuro inadempimento da parte del soccombente del precetto giudiziario nel tempo fissato dallo stesso, nel processo amministrativo essa può essere, salva diversa valutazione del giudice, di immediata esecuzione, in quanto sancita da una sentenza che ha già accertato l’inadempimento.
[16] L’importante sentenza della Corte di Cassazione, sez. I civ., 15 aprile 2015, n. 7613, al riguardo, ha rilevato che lo strumento di coercizione del comportamento desiderato mediante condanna giudiziaria ad una somma progressiva a ciò rivolta è presente nel nostro ordinamento e, anzi, l’area dei diritti presidiati dallo stesso è venuta man mano ad estendersi. In particolare, ne sono esempio <<il R.D. 29 giugno 1127, n. 1939, art. 86, e R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 66, abrogati dal D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le misure dell’art. 124, comma 2, e art. 131, comma 2; il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 140, comma 7, c.d. codice del consumo, dove si tiene conto della “gravità del fatto”; secondo alcuni, l’art. 709 ter c.p.c., nn. 2 e 3, introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, per le inadempienze agli obblighi di affidamento della prole; l’art. 614 bis c.p.c., introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 49, il quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell’esecuzione del provvedimento; il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 114, redatto sulla falsariga della norma appena ricordata, che attribuisce analogo potere al giudice amministrativo dell’ottemperanza.
In altri casi, è il giudice che commina la condanna, ma con riferimento ad un importo determinato in modo globale una tantum: si menzionano la L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che prevede una somma aggiuntiva a titolo riparatorio nella diffamazione a mezzo stampa (cfr. Cass. 17 marzo 2010, n. 6490; 26 giugno 2007, n. 14761) e l’art. 96 c.p.c., comma 3, introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69.>>.
[17] In particolare, i punitive damages trovano larga applicazione negli Stati Uniti e, in particolare, nei casi di re­sponsabilità del produttore da prodotto difettoso: l’inosservanza delle cautele e degli strumen­ti dal legislatore preposti al fine di escludere, o perlomeno, limitare i danni può comportare una responsabilità risarcitoria in misura anche superiore al danno effettivo subito dall’offeso.
[18] L’art. 2041, c.1, c.c., in particolare, statuisce che “Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale.”. Esso costituisce quindi una clausola aperta che vieta qualsiasi spostamento patrimoniale privo di causa giustificativa secondo l’ordinamento.
[19] È questo il caso: dell’art. 96, c. 3, c.p.c., che prevede che il soccombente venga condannato a pagare una somma “equitativamente determinata”, in funzione di sanzione dell’abuso del processo; dell’art. 709 ter c.p.c., che introduce un’ipotesi di responsabilità con funzione sanzionatoria, in quanto, nell’ambito delle controversie tra i genitori per l’esercizio della responsabilità genitoriale e le modalità di affidamento, il giudice ha il potere di emettere sentenze di condanna al risarcimento dei danni; dell’art. 158 della legge n. 633/1941 e dell’art. 125 del D.lgs. n. 30/2005, che riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto. In tal caso, dunque, la responsabilità ha funzione dichiaratamente sanzionatorio-deterrente, in quanto il risarcimento non è parametrato al danno cagionato alla vittima, ma al profitto ottenuto dall’autore del fatto, anche se maggiore rispetto alla perdita subita dal danneggiato.
[20] Cfr. Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2007, n. 1183, secondo cui “l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale, per il cui risarcimento, proprio perché non possono ad esso riconoscersi finalità punitive, non solo sono irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la capacità patrimoniale dell’obbligato, ma occorre altresì la prova dell’esistenza della sofferenza determinata dall’illecito, mediante l’allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova possa considerarsi “in re ipsa” (Cass. n. 10024/1997, n. 12767/1998, n. 1633/2000)”
[21] Corte Costituzionale federale tedesca, sent. 24 gennaio 2007, n. 1046.
[22] Tribunale Supremo spagnolo, sent. 13 novembre 2001, n. 2039/1999.
[23] Corte di Cassazione francese, sentt. 7 novembre 2012, n. 11-23871 e 1° dicembre 2010, n. 90-13303.
[24] Corte Suprema slovena, ord. 29 maggio 2013.
[25] Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601.
[26] il Supremo Collegio dà conto di come il diritto vivente anche in materia di ordine pubblico si sia trasformato << (…) da “complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici” (così Cass. 1680/84) è divenuto il distillato del sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali della Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione europea dell’art. 6 TUE (Cass. 1302/13)>>.
[27] In particolare, le Sezioni Unite rilevano che la cd. polifunzionalità del sistema della responsabilità civile è testimoniata da numerosi indici normativi [per tutti, si cita il richiamo all’art.96, comma 3 c.p.c. <<(…) che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo”] che stanno a rimarcare “(una) evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente” (in questi termini, Cass. Civ., sent. 15 aprile 2015, n. 7613); funzione riconosciuta anche dalla giurisprudenza costituzionale (v. sentenza n.303 del 2011, sentenza n.238 del 2014 e, da ultimo, sentenza n.152 del 2016).>>.
[28] La ratio è ravvisabile, inter alia, nell’esigenza di scongiurare l’arbitrio giudiziario.
[29] <<Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero ed alla loro compatibilità con l’ordine pubblico.>>
[30] Vd. “I sistemi del diritto, la responsabilità extracontrattuale”, M. Fratini, Dike Giuridica Editrice, 2017, II. ed.

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