L’importanza delle cure palliative tra legislazione e giurisprudenza

L’importanza delle cure palliative tra legislazione e giurisprudenza

Sommario: 1. Le cure palliative, profili normativi ed evoluzione giurisprudenziale: un focus sulla legge n. 219 del 2017 – 2. La “giuridificazione” degli aspetti connessi al fine vita – 3. Cure palliative  e diritto, verso un nuovo paradigma

 

1. Le cure palliative, profili normativi ed evoluzione giurisprudenziale: un focus sulla legge n. 219 del 2017

La cultura del sollievo è il principio ispiratore della Legge 38 del 2010, della quale quest’anno ricorre il decennale. Le cure palliative, al centro della tematica in oggetto sono, più specificatamente, l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici. Giova alla trattazione analizzare brevemente l’iter legislativo che ha condotto alla legge sulle DAT, per poi valutare il rapporto sussistente fra questa legge, che ha consentito di fatto alla Corte Costituzionale di ammettere alcune forme di suicidio assistito, e il diritto alle cure palliative. La legge n. 219 del 2017 è un testo legislativo che si rivolge a tutti i cittadini, dalla notevole applicazione pratica giacché consacra molteplici facoltà e diritti, quando essi vengono ad assumere la scomoda condizione di pazienti. Infatti, da tempo, nascita e morte non costituiscono più solamente eventi naturali, sottratti al controllo dell’uomo[1].

Nei casi in cui la morte non è un evento istantaneo, ma giunge al termine di un non agevole iter, le cure palliative potrebbero lenire molte sofferenze, sia quelle del malato – direttamente ed indirettamente – che quelle di chi gli sta vicino. Dispiace, invero, che a volte non si colgano le molteplici implicazioni positive di queste cure, che, al contrario, spesso sono accolte negativamente quasi fossero presagio di sciagure. Forse la causa di tale diffidenza va rinvenuta nel fatto che l’uomo moderno “ha paura di non riuscire a morire, di essere tenuto in vita come un simulacro di sé stesso”[2].

Invero, se la medicina è in grado di prolungare il più possibile la vita, non sempre accompagna i malati alla morte[3].Il problema che si è posto per tanti anni fino all’approvazione della l. 22 dicembre 2017 n. 219, era quello della fissazione dei limiti etici, medici, bioetici e giuridici, alle cure mediche, dato che l’obiettivo dell’arte medica, ossia la cura del paziente, “occorre che sia temperato da alcune considerazioni etiche, compresa quella per cui non devono essere praticate quelle terapie sproporzionate per eccesso che procrastinino inutilmente la morte”[4].

La sensibilizzazione della coscienza collettiva con riguardo alle problematiche del “fine vita” è emersa in modo graduale, rischiarata dalla drammaticità di taluni casi umani e giudiziari elevati agli onori delle cronache nazionali da almeno un decennio, sulla cui base sono stati ricavati dei “principi” che sono stati trasfusi nella suddetta legge. Notori, in tal senso, sono stati il c.d. caso Welby, unitamente a quello – sfociato nella celebre pronunzia della Cassazione – del c.d. caso Englaro[5].

La pronunzia, dopo una trattazione sul consenso informato, che definisce come atto di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario in difetto del quale l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente, conseguentemente postula il diritto di autodeterminazione medico-sanitaria, di cui è titolare il paziente e che trova fondamento costituzionale (art. 32 Cost.), implicando “la facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”[6].

Il passaggio successivo dell’evoluzione normativa della questione trattata passa attraverso alcuni provvedimenti del Tribunale di Modena ove si è andata strutturando “un’originale forma di interazione tra la disciplina civilistica dell’amministrazione di sostegno (disciplina embrionale sulla trattazione delle tematiche sul fine vita), così come interpretata in sede curiale, con le disposizioni costituzionali relative al diritto di autodeterminazione terapeutica”.

Il “più rappresentativo di questi provvedimenti” è un decreto del 5 novembre 2008, che ha inaugurato la “via giurisprudenziale al testamento biologico”[7], venendo così legittimata la nomina di amministratori di sostegno “in sonno”, pronti ad assumere le funzioni rappresentative o di assistenza all’atto dell’insorgenza dell’incapacità sopravvenuta del beneficiario[8].

In un ulteriore passaggio, vi è stato il primo tentativo di legiferazione in materia, ovvero il ddl “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento” (c.d. ddl Calabrò), che fu approvato dal Senato il 26 marzo 2009.

Il testo normativo scontò severe critiche da una certa parte della dottrina[9], poiché caratterizzato, secondo alcuni, da un eccesso di dogmatismo: si vide un limite, infatti, nel suo essere ispirato al principio della tutela della vita umana, intesa quale “diritto inviolabile ed indisponibile” (art. 1, lett. a) da parte del paziente e la cui tutela della libertà non poteva essere contraria al bene comune o al diritto.

L’affermazione dello stesso ddl per cui “non si è liberi di scegliere se vivere o morire e, soprattutto non si è liberi di pretendere dallo Stato il diritto di morire” fu criticata e contestata.

Il ddl Calabrò, invero, per la prima volta propose di disciplinare con legge il consenso informato (art. 2) e di valorizzare il paradigma dell’alleanza terapeutica fra medico e paziente. In tal modo, di là da ogni apriorismo ideologico, si mirava a rafforzare e garantire non soltanto le posizioni giuridiche individuali del medico e del paziente, ma anche e soprattutto le dinamiche di collaborazione fra queste due figure. Purtroppo, tale disegno di legge è rimasto lettera morta.

2. La “giuridificazione” degli aspetti connessi al fine vita

La “giuridificazione” degli aspetti esistenziali della tutela della salute e degli aspetti connessi al fine vita è stata attuata sostanzialmente dalla legge n. 219 del 2017: da un lato, la legittimazione al trattamento medico-sanitario trova unico fondamento nel consenso libero ed informato del paziente; dall’altro, la legge n. 219 disciplina il suo risvolto negativo ovvero il dissenso, tramite il rifiuto e la “revoca del consenso prestato” a “qualsiasi accertamento diagnostico”, ad alcuni o tutti i trattamenti sanitari o a singoli atti di trattamento (art. 1, comma 5). Il dibattito giuridico sulla natura della nutrizione artificiale e dell’idratazione rimane controverso: alla tesi secondo cui la nutrizione e l’idratazione artificiali sono interventi medici e, quindi, richiedono un’indicazione, un obiettivo terapeutico e la volontà (consenso) del paziente competente, si contrappone la diversa posizione per cui l’alimentazione artificiale e l’idratazione non sono cure mediche e non possono essere limitate, in quanto sostentamento vitale di base indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche per vivere.

Il rifiuto o il desiderio di interruzione dei trattamenti da parte del paziente può essere espresso verbalmente, tenuto conto del progredire irreversibile della patologia, anche innanzi al medico, seppur con successiva redazione di un documento scritto che lo consacri[10]. In presenza del rifiuto di intraprendere o della volontà di interrompere la terapia “necessaria alla propria sopravvivenza” – diritto che la legge riconosce espressamente al paziente “capace di agire” – la stessa legge impone al sanitario di “promuovere ogni azione di sostegno al paziente ed ai familiari”; in ogni caso, “prospettando le possibili alternative” terapeutiche.

A fronte del rifiuto al trattamento medico, la legge n. 219 (diversamente da quanto disponeva il ddl Calabrò[11]) considera disponibili (e perciò rifiutabili da parte del paziente) la nutrizione e l’idratazione artificiale, i.e. dei trattamenti “salvavita”. La normativa ha chiarito che gli stessi “sono considerati trattamenti sanitari”, poiché consistono nella “somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”.

Questi presidi medici sono necessari allorquando il paziente non sia in grado di deglutire o idratarsi naturalmente, per via del decorso della malattia (quando lo stesso si trova in una fase talmente terminale, per via di un peggioramento generale, che gli determina uno stato di pre-shock o di acidosi con torpore psichico determinato dall’alterazione dell’equilibrio idro-elettrolitico che ne compromette la normale vigilanza) o per effetto di patologia (come nel caso di un paziente con patologie neoplastiche − per es. la neoplasia dell’esofago − che affliggono le prime vie digestive, il quale deve essere idratato e nutrito per via parenterale ossia per iniezione attraverso tegumenti o direttamente in circolo).

Le disposizioni normative affidate alla l. n. 219 rendono lecito, laddove il paziente lo richieda, il rifiuto, la sospensione e l’interruzione dei trattamenti sanitari (come pure, la revoca del consenso espresso in precedenza), in continuità con gli enunciati della pronunzia Englaro[12].

Il paziente può così decidere di morire ovvero, alternativamente, di essere accompagnato alla fase terminale della vita grazie agli strumenti che la medicina palliativa pone a disposizione, quando è constatata l’inutilità delle cure e la guarigione risulta impossibile, mediante il ricorso alle cure palliative ed alle “terapie del dolore”[13].

Va osservato come il testo normativo non ha previsto per il medico il diritto all’obiezione di coscienza, inteso come “rifiuto di un comportamento imposto da una norma formalmente legittima dello Stato di cui il soggetto è cittadino e all’osservanza della quale egli è, comunque, giuridicamente tenuto”; un rifiuto che deve trovare giustificazione in “motivi di coscienza”[14]. Il problema resta aperto, in quanto, melius re perpensa, appare altresì problematico invocare l’obiezione di coscienza prevista dall’art. 22 del codice deontologico[15], considerato che tale disposizione settoriale è contenuta in una fonte subordinata alla legge e, come tale, non ha forza sufficiente a derogarvi[16].

A tutela della dignità e della autonomia del malato, la legge n. 219 esplicita che, in tali casi, al paziente deve essere sempre garantita “un’appropriata terapia del dolore”, oltre che l’erogazione delle cure palliative di cui alla l. 15 marzo 2010 n. 38 (similmente a quanto dispone il Codice di deontologia medica all’art. 38)[17]. Per “terapia del dolore” si intende l’insieme di interventi diagnostici e terapeutici volti a individuare e applicare alle forme morbose croniche idonee e appropriate terapie farmacologiche, chirurgiche, strumentali, psicologiche e riabilitative, tra loro variamente integrate, allo scopo di elaborare idonei percorsi diagnostico-terapeutici per la soppressione e il controllo del dolore (art. 2, l. n. 38 del 2010).

Mentre, giova ricordare che per cure palliative si intendono quell’insieme di interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici” (art. 2 della legge. n. 38)[18]. Le stesse si assicurano in regime di hospice residenziale ovvero mediante assistenza domiciliare a beneficio dei malati terminali (e non)[19].

Da quanto emerge dalle definizioni sopra riportate la legge espressamente garantisce, quale diritto soggettivo, che le fasi terminali della malattia e della vita del paziente incurabile possano essere vissute da lui e dai suoi familiari in modo dignitoso e senza inutili sofferenze, secondo una doverosa scelta di civiltà[20]; trasformando così una morte straziante in un misericordioso spegnersi regalando al morente spazi liberi dalla sofferenza in cui il tempo sembra perfino allagarsi[21].

Un altro strumento terapeutico strettamente connesso all’alveo delle cure palliative è la sedazione profonda continua nel paziente affetto da malattia inguaribile ed in fase terminale. Questa prevede “la somministrazione di farmaci che riducono, fino ad annullarla, la coscienza del paziente stesso, allo scopo di alleviare il dolore e il sintomo fisico o psichico refrattario e intollerabile”[22].

Approssimandosi la morte, la sedazione viene somministrata al paziente terminale (sempre col suo consenso) quando, in assenza di cure, il dolore diviene straziante. In tali casi è una scelta di civiltà ammettere il paziente terminale alla sedazione profonda continua, garantendo che il tempo della morte arrivi dignitosamente[23].

Non senza incertezze di sorta, la legge garantisce il diritto alla autodeterminazione in materia medico-sanitaria (artt. 32, comma 2, e 13 Cost.), permettendo al paziente capace di intendere e volere di scegliere la tipologia di terapia e di cura, ma anche di rifiutarla, sospenderla o revocare il consenso in precedenza espresso, con una scelta che può essere compiuta anche nelle fasi terminali della malattia (art. 1, comma 5, l. n. 219).

Al contempo, essa garantisce al paziente terminale che ha rifiutato ulteriori cure e trattamenti che non sarà abbandonato, ma in questa fase di terminalità, assistito, grazie al ricorso a cure palliative, alla terapia del dolore ed alla sedazione palliativa profonda continua (art. 2 della l. n. 219).

Con le testé richiamate previsioni normative si conclude un lungo e tortuoso iter legislativo e giurisprudenziale che vede una affermazione, almeno formale, del valore delle cure palliative, garantendo, quantomeno sotto questo profilo, il diritto alla dignità del paziente (art. 1, comma 1, l. n. 219), uno degli obiettivi cruciali enunciati in esordio della legge, che trova qui, molto più che altrove, una sua forma di attuazione[24].

3. Cure palliative  e diritto, verso un nuovo paradigma

Se la distanza, anzi l’antitesi, tra le cure palliative e l’eutanasia, è pacifica, il tema che merita attenzione è l’ipotetica compatibilità, nello stesso sistema sanitario, fra il contenuto della legge n. 38 e l’opposizione rappresentata dal suicidio assistito ai sensi dell’ordinanza 207 della Corte Costituzionale.

Fermo restando che la legge n. 38 è rimasta inapplicata per mancanza di risorse, non essendoci mai stata la specifica conferenza Stato-Regioni ad hoc per unificare le tariffe, in Italia si fotografa una situazione in cui diviene impossibile garantire a tutti i richiedenti le cure palliative e la terapia del dolore, nonostante siano qualificate come un livello essenziale di assistenza prioritario per il nostro servizio sanitario nazionale[25].

Il dramma peggiore, e allo stesso modo emblematico, riguarda i bambini: 35.000 ne avrebbero bisogno, solo 5.000 le ricevono[26], di fatto venendo meno a quanto auspicato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità la quale conferma l’importanza delle cure palliative generali e pediatriche a difesa del valore-vita, oltre a considerarle un valido supporto per interpretare la morte come un evento naturale [27].

Oltre ai ritardi nella omogenea applicazione di talune pratiche, per quanto concerne l’astratta compatibilità circa la convivenza dell’una e dell’altra opzione all’interno di un medesimo sistema, potrebbe apparire incongruente che da un lato  lo Stato prenda in carico il malato, la sua famiglia e la loro sofferenza, offrendo le cure palliative e la terapia del dolore, dall’altro conceda “un servizio di morte rapida”.

Tale incongruenza è realtà nel nostro sistema per via, fra l’altro, delle interpretazioni quantomeno estensive, se non addirittura contra litteram, che sono state date da taluni principi fondamentali[28] che non possono essere considerati meri richiami formali passibili di distorsione interpretativa, cosicché il diritto alla vita possa essere interpretato come diritto alla morte o all’autodeterminazione per scegliere se vivere o morire.

Ma forse il problema consiste nel fatto che, contrariamente a quanto avviene nelle costituzioni di altri Paesi, la Costituzione italiana difetta di una definizione del concetto di dignità umana[29]. Manca un’affermazione di ordine generale sul modello, ad esempio, di quella tedesca, ove si afferma che “la dignità dell’uomo è intangibile e che è dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”. Manca, a fortiori, nella nostra Costituzione, una definizione che possa determinare un quadro normativo inerente la dignità soggettiva, ma essa può estrapolarsi dai principi che sanciscono la dignità sociale dell’uomo, colta nel principio personalista espresso all’art. 2 Cost. ed in quello di uguaglianza, nell’art. 3 Cost.

Ed è proprio con riferimento a tali principi che, operando una comparazione, non può essere distorta la previsione costituzionale per cui, ad esempio, le pene devono tendere alla rieducazione del condannato[30]. Non sarebbe accettabile, infatti, che da un lato questo stesso sistema realizzi strutture penitenziare volte alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato, non prevedendo la pena di morte, e al contempo permetta l’eutanasia ai detenuti che ne facciano richiesta magari sulla base di una mutata sensibilità sociale riguardante le condizioni carcerarie o il sovraffollamento. Orbene, altrettanto accadrebbe laddove il diritto a morire coesistesse con il diritto alle cure palliative. Un siffatto sistema, che andasse contro il principio di non contraddizione, potrebbe non essere credibile.

Alimenta un fondato timore l’esperienza del Belgio.

Lì, le cure palliative convivono con l’eutanasia e le relative leggi sono state approvate contemporaneamente e, nel 2012, a distanza di 10 anni dall’approvazione delle medesime leggi, solo il 10% dei medici che praticava eutanasie aveva effettivamente ricevuto una specifica formazione in cure palliative[31].

In Belgio, il criterio della sofferenza insopportabile [condicio naturale per richiedere le cure palliative] è previsto dalla legge come condizione per accedere all’eutanasia. La scarsa formazione dei medici, unita anche ad una scarsa (o cattiva) informazione sul tema, evidentemente ha condotto ad un abuso del ricorso all’eutanasia. È singolare, infatti, che, in virtù della sofferenza insopportabile, l’accesso all’eutanasia sia stato riconosciuto ad alcuni detenuti[32].

Spostando il focus sui Paesi Bassi, similmente a quanto accade in Belgio, emerge la totale equiparazione etica e mediatica fra eutanasia e cure palliative, che giunge addirittura a tradursi in favor politico per la prima, definendo la stessa come «a normal medical practice» e concludendo, addirittura, che la sedazione palliativa non è una «alternativa ragionevole»[33].

L’esperienza di Belgio e Paesi Bassi dimostra come gli ordinamenti che legalizzano l’eutanasia scoraggino l’uso e l’incremento delle cure palliative accessibili a tutti e le snaturino nella loro consistenza originaria cosi come riconosciuta dall’OMS[34].

Eutanasia e cure palliative sono pratiche alternative, assiologicamente incompatibili, che renderebbero difficile, in caso di coesistenza, una politica sociale che preveda costi economici onerosi che vadano in una duplice direzione senza evitare che la prima delle due pratiche assorba quasi completamente la seconda, per via di rigorose garanzie procedurali fondati su complessi e onerosi accertamenti[35].

Se è pacifico infatti che il nostro ordinamento costituzionale, fondato sulle libertà personali, contribuisca a coltivare l’idea della primazia della persona[36], resta invece tutto da dimostrare che tale principio implichi il diritto costituzionale al suicidio medicalmente assistito garantito dallo Stato. Appare infatti insufficiente, dal punto di vista argomentativo, limitarsi ad affermare, dinanzi ad un «non-diritto»[37], che l’autodeterminazione individuale è il leitmotiv del moderno costituzionalismo.

Cruciale è l’art. 4 Cost., per cui «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»[38]. Ma uccidere colui che ne fa richiesta in base alla propria idea di dignità può ritenersi un dovere e un progresso materiale, conforme allo spirito, alla volontà e alla storia costituente?

Orbene, sembrerebbe non essere così, perché dai valori eminentemente espressi in Costituzione parrebbe opportuno privilegiare, anche legislativamente, il diritto alla vita ed alla sua dignità. Il dovere che la sentenza n. 242 della Corte Costituzionale evidenzia, in realtà, è quello dell’offerta «effettiva di cure palliative e di terapia del dolore, che oggi sconta molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale del SSN e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie»[39].

La Corte ribadisce, a parte il già citato percorso che le cure palliative devono costituire in quanto pre-requisito della scelta (diritto garantito fra i LEA da dieci anni a questa parte e ancora non effettivo), soprattutto una esortazione del Comitato nazionale per la bioetica[40], che porta a qualificarle come «una priorità assoluta per le politiche della sanità»[41]. Oltretutto la sentenza n. 242 aggiunge un’osservazione non trascurabile, di tipo razionale e metodologico: «si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative». Un’affermazione che rafforza e ribadisce il dato per cui queste ultime non stanno sullo stesso piano dell’assistenza al suicidio, come se si trattasse di opzioni equivalenti, ma rappresentano, appunto, una priorità[42].

Del resto, mentre le cure palliative – con la terapia del dolore che ne è parte – sono riconosciute, a livello internazionale, come un diritto umano universale, l’aiuto al suicidio viene considerato invece un reato, salvo, ora, la sua non punibilità in alcune circostanze, una deroga creata dalla Corte Costituzionale all’inviolabilità della vita[43].

Stante un’ipotetica incompatibilità, logica prima che giuridica, della coesistenza fra eutanasia e cure palliative, risulta necessario, implementare dette cure promuovendo un cambio di paradigma: comunicativo, anzitutto, diffondendone la portata innovativa per cui non è più pensabile parlare di cure palliative riferendosi esclusivamente agli ultimi giorni di vita; e, poi, sociale, affinché se ne scopra il pieno potenziale, creando un sistema consapevole e responsabile in cui tutti gli operatori sanitari abbiano conoscenze basilari su dette cure[44], fornendo loro gli strumenti necessari per ottemperare ai bisogni dei soggetti coinvolti.

Appare doveroso, in questo senso, un consolidamento ed un rafforzamento degli hospice, che nel modello italiano non vengono ancora visti come luoghi di sollievo bensì di fine vita. Infine è necessario colmare le differenze regionali e soprattutto quelle tra pazienti oncologici e non. A tal proposito le cure palliative, che storicamente nascono per i malati di cancro, ora, in uno scenario mutato dove in media ad usufruirne sono 40.000 unità all’anno (dato aumentato del 32,19% dal 2014 al 2017[45]), vedono usufruirne a domicilio non solo i malati oncologici (che rappresentano l’80%) ma anche coloro che presentato patologie non oncologiche (il 20% di cui l’85% bambini)[46]. Dunque è necessario investire sulle cure palliative anche domiciliari, senza però trascurare gli hospice, realizzando una mappatura dei modelli organizzativi e di quelli assistenziali; non dimenticando, infine, le cure palliative pediatriche ancora molto embrionali e quindi poco diffuse.

 

 

 


Bibliografia
[1] Per queste ed altre considerazioni si ringrazia Evola S.  e si rimanda a Ferrando G., voce Testamento biologico, in Enc. dir. Annali, Milano, 2014, 987 e ss., Cfr. Masoni R., Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, in Dir. fam. pers., Fasc. 3, 2018, Pag. 1139.
[2] Ferrando G., op. cit., 988, secondo cui: “se è vero che la tecnologia apre straordinarie possibilità di sopravvivenza, scenari di libertà, di autodeterminazione”, tuttavia, “non deve diventare una prigione in cui veniamo costretti nostro malgrado”. Così scrive anche Veronesi U., Il diritto di morire, la libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano 2005, p. 21, parlando di “morte tecnicizzata” ossia “dissociata dai meccanismi naturali che l’avrebbero provocata a breve termine”.
[3] Così Foglia M., Rossi S., voce Testamento biologico, in Dig. IV ed., Disc. priv., Aggiornamento, IX, Torino, 2014, 639 e ss., in part. 643.
[4] Così scrive, ancora, Ferrando G., op. cit., 989.
[5] Cass. 16 ottobre 2007 n. 21.748, in Giust. civ., 2007, I, 2366; ivi, 2008, I, 1725, con nota di Simeoli.
[6] Cass. civ., sez. I, sent, 16/10/2007 n. 21748, secondo la quale, invero, deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita.
[7] Ci riferiamo a Trib. Modena 5 novembre 2008, est. Stanzani, in Fam. dir., 2009, 277, con nota adesiva di Ferrando G., Amministrazione di sostegno e rifiuto di cure; in Foro it., 2009, I, 35, con nota di Casaburi G., Autodeterminazione del paziente, terapie e trattamenti sanitari salvavita; in Guida dir., 2009, 11, 35, con nota adesiva di Cendon P., Rossi R.; in Giur. merito, 2010, 102, con nota adesiva di Masoni R., Amministrazione di sostegno e direttive anticipate di trattamento medico-sanitario: contrasti, nessi e relazioni.
[8] Cfr. Masoni R., Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, loc. ult. cit.
[9] Si veda, D’Avack L., Il disegno di legge sul consenso informato all’atto medico e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato dal Senato, riduce l’autodeterminazione del paziente e presenta dubbi di costituzionalità, in Dir. pers. fam., 2009, 1281; Masoni R., Prime considerazioni sul progetto di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento approvato dal Senato il 26 marzo 2009, ivi, 2009, 1520; Ferrando G., op. ult. cit., 1018.
[10] Così De Filippis B., Biotestamento e fine vita, Padova, 2018, 97, il quale afferma, pure, che “in assenza di scrittura o registrazione, pur nel silenzio della legge, possono essere diversamente provati”.
[11] Disponeva l’art. 3, comma 5, del d.d.l. Calabrò: “l’alimentazione e l’idratazione artificiale, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.
[12] Cass. n. 21748 del 2007: “né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.
[13] Per la cruciale distinzione tra “curare” e “prendersi cura”, Veronesi U., op. cit., il quale rileva: “i progressi che la medicina ha compiuto negli ultimi tempi si sono rivolti molto più alle terapie che all’assistenza e spesso il concetto di assistenza viene visto come qualcosa di minore e di secondario, mentre va inteso come la presa in carico globale del malato, coi suoi bisogni fisici, psicologici e morali”.
[14] Così Palazzo A., voce Obiezione di coscienza, in Enc. dir., Milano, 1979, XXIX, 539, il quale precisa che il diritto di libertà di coscienza sarebbe garantito dalla Costituzione tra i diritti inviolabili dell’uomo.
[15] La norma deontologica dispone: “il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della Persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione”.
[16] L’art. 12 della prova di testo normativo sulla relazione di cura, a cura di Zatti P., in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 3 ss. prevedeva espressamente l’obiezione di coscienza: “il medico che in base alle proprie convinzioni ritenga di non poter dare esecuzione ad una richiesta di interruzione di cure, esprime al paziente o a chi lo rappresenta ed al responsabile del servizio sanitario la sua motivata decisione di sottrarsi a quanto richiesto e si attiene a quanto disposto dall’art. 11, comma 3, fino a che non sia assicurata la sua sostituzione”.
[17] Sul diritto di non soffrire, si rimanda a Cendon P., op. cit., 49 ss.
[18] Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le cure palliative costituiscono “un approccio volto a migliorare il più possibile la qualità della vita di persone colpite da malattie inguaribili e delle loro famiglie, attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza «per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale»”.
[19] Precisa Veronesi U., Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia, Milano 2011, che dal 70 al 90% dei malati di cancro in fase avanzata ha dolore di intensità medio-alta.
[20] L’art. 1, comma 2, della l. n. 38 del 2010 dispone che viene tutelato e garantito l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato, come definito dall’articolo 2, comma 1, lettera c), nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 33 dell’8 febbraio 2002, “al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana …”.
[21] Veronesi U., Il diritto di morire, la libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano 2005, p. 23.
[22] In tema si veda D’Avack L., Norme in tema di consenso informato, cit., 184, il quale richiama il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica del 2016, in tema di Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza di morte.
[23] Masoni R., Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, cit., 1139.
[24] Conforme De Filippis B., op. cit., 107. Il diritto di non soffrire trova fondamento nelle norme della Costituzione che proclamano la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo e che sanciscono il principio del rispetto per la dignità della persona (Cendon P., op. cit., 69).
[25] Razzano G., La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio innesti eutanasici, Torino, 2019, passim.
[26] Cfr. l’intervista di Bellaspiga L. a Penco I., Il presidente dei medici palliativisti: sedazione profonda non è eutanasia, in Avvenire, 10 gennaio 2018; Cfr anche Benini F., Ferrante A., Facchin P., Le cure palliative rivolte ai bambini in Quaderni Associazione Culturale Pediatri, 2007, 213-217, ove i dati di uno studio iniziato nel primo decennio del 2000 attualmente concluso hanno evidenziato che in Italia muoiono ogni anno circa 1100-1200 bambini e ragazzi di 0-17 anni con malattia inguaribile-terminale. Di questi, il 40% muore a casa, e la percentuale è lievemente maggiore in caso di patologia oncologica (41%) rispetto a quella non oncologica (38%). Notevole la variabilità di percentuale di morte a domicilio a seconda della regione italiana di appartenenza: dal 60-70% nelle Regioni del Sud al 10-15% nelle Regioni del Nord. Certamente, motivazioni culturali, ma anche di organizzazione sanitaria e disponibilità di strutture, condizionano questi dati. Non esistono dati attuali sulla prevalenza in Italia di bambini con malattia inguaribile ma, sulla base delle proiezioni dei dati ricavati dalla letteratura, si stima la presenza sul territorio nazionale di 11.000 bambini e ragazzi di 0-17 anni con patologia incurabile eleggibili alle cure palliative; Cfr. When children die: improving palliative and end of life care for children and their families. Institute of Medicine of the National Academies, 2003.
[27] Dichiarazione europea del 2014 sulle cure palliative, in risposta all’urgente bisogno di cure palliative in un’Europa per tutte le età: raccomandazioni basate su prove concrete per i legislatori e i responsabili delle decisioni. Vedi anche: World Health Organisation. Strengthening of palliative care as a component of integrated treatment throughout the life course. EB134/28. 134th session; 2013; World health Organization: Palliative care: the solid facts, Copenhagen, Denmark: 2004. 3; Smith S., Brick A., O’Hara S., Normand C., Evidence on the cost and cost-effectiveness of palliative care: a literature review, in Palliat Med 2014.
[28] Razzano G., La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio innesti eutanasici, cit., ove si afferma, in relazione all’autodeterminazione del paziente, l’incongruenza limitativa rispetto al diritto fondamentale della salute quantomeno in rapporto agli artt. 3, 13 e 32 Cost; in tal guisa cfr. anche Azzalini M., La legge n. 219/2017. Sulla incompatibilità tra il nostro ordinamento e l’eutanasia: Lagrotta I., Diritto alla vita ed eutanasia nell’ordinamento costituzionale italiano: principi e valori, in www.lexitalia.it., secondo il quale è opinione diffusa e condivisibile nella dottrina costituzionale quella secondo cui un’ipotetica legge che riconoscesse la legalità dell’eutanasia, e con essa un diritto alla morte, urterebbe inevitabilmente contro la lettera e lo spirito della Costituzione italiana nel suo carattere personalistico, (artt. 2 , 3.2, 13, 19, 21 41, comma 2, 27, comma 3); cfr. Dalla Torre G., Bioetica e diritto, Torino, 1996, passim.
[29] Circa la possibilità di ricostruzioni ermeneutiche dei valori della persona nel nostro ordinamento, si veda Perlingieri P., La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli – Camerino, 1972, ora in Id., La persona e i suoi diritti – problemi del diritto civile, Napoli, 2005, passim.
[30] Ruotolo M., Dignità e carcere, Napoli 2011. Approfondimento nella prospettiva costituzionale.
[31] Euthanasia in Belgium: 10 years, in www.ieb.org. Di segno contrapposto sembra la Dichiarazione europea sulle cure palliative del 2014, stante l’abbandono nella prassi belga delle cure palliative.
[32] Devynck C., criminologa presso la Vrije Universiteit Brussel, in un’intervista rilasciata al Knac.be. il 2 gennaio 2019.
[33] Secondo il documento Euthanasia Code 2018, Rewiew procedures in praticice. a cura dei Regional Euthanasia Rewiew Committees. Cfr a tal proposito: J.L. Givens, S.L. Mitchell, Concerns about end of life care and support for euthanasia, in J. Pain Symptom Manage, 2009; 38: 167- 73; Razzano G., La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio innesti eutanasici, cit., 99.
[34] Ibidem, Dichiarazione Europea del 2014 sulle cure palliative.
[35] Vedi, a tal proposito, Canestrari S., Relazione di sintesi. Le diverse tipologie di Eutanasia: una legislazione possibile, in Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline, Torino, 2003, 234.
[36] Cfr. l’o.d.g. Dossetti, I Sottocomm., resoc. sommario 9 settembre 1946, 21.
[37] Il diritto di morire, nonostante i plurimi tentativi in tal senso, non è stato mai affermato come un diritto dalla Corte EDU. Come ricorda Marrone A., Il “Caso Cappato” davanti alla corte costituzionale. Riflessioni di un costituzionalista, in For. quad cost., ottobre 2018, tutti gli ordinamenti del mondo puniscono l’aiuto al suicidio.
[38] Sull’art. 4 Cost. e sul dovere costituzionale, cfr. Ruggeri A., Il testamento biologico e la cornice costituzionale, in For. Quad. Cost., Aprile 2009. Contra, Maniaci G., Perché abbiamo un diritto? in Dir. & quest. pub., 2009, fasc. 9, per il quale l’art. 4 Cost. va interpretato in un’ottica liberale per cui ognuno liberamente concorre a determinare cosa concorra al progresso materiale della società.
[39] Corte Cost., sent. n. 242/2019 del 27 novembre 2019.
[40] Cfr. parere del 18 luglio 2019, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito.
[41] Corte Cost, sent. n. 242/2019 del 27 novembre 2019. Per alcuni spunti operativi concreti in tema di cure palliative e di necessaria sinergia nel rapporto struttura sanitaria – paziente – familiari, si veda Tambone V., Campanozzi L.L., A proposal for a shared care plan at the end of life: The Natural Death Protocol, in Bioethics update, vol. 3 fasc. 1, 2017, p. 45 ss.
[42] Canestrari S., I tormenti del corpo e le ferite dell’anima, in Dir. pen. cont., 2019, 20.
[43] Razzano G., Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in dirittifondamentali.it – Fasc. 1/2020. 3 marzo 2020.
[44] Sulla necessità di un approccio innovativo nel rapporto tra scienziato, paziente e tecnica, si veda: Tambone V., Pennacchini M., Tecnoscience, in La clinica terapeutica, 2010, 161, p. 569 ss.; Bertolaso M., Sterpetti F., Introduction. Human Perspectives on the Quest for Knowledge, in A Critical Reflection on Automated Science Will Science Remain Human? a cura di Bertolaso M., Sterpetti F., Springer, 2020, 1 ss.
[45] Dati aggiornati all’ultimo triennio: rapporto al Parlamento sui dati 2015-2017 in www.salute.gov.it.
[46] Cfr. Bastianello S., presidente della Federazione Cure Palliative Onlus, Reti di cure palliative: a 10 anni dalla legge, una risorsa nell’emergenza Coronavirus, 13 marzo 2020, in Vita.it; De Carli S., Cure palliative: urgente potenziare quelle domiciliari, in Vita.it, 4 febbraio 2019.

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Angelo Alessio Nicchi

Classe 1990. Laureato presso Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA). Praticante Avvocato e Consulente Legale. Segretario del Consiglio Pastorale Diocesano dell' Arcidiocesi di Monreale. Docente di Diritto Canonico presso Scuola di Teologia di Base Dell'Arcidiocesi di Monreale. Già Assessore, Consigliere Comunale e presidente di Commissione Consiliare "Regolamenti, Statuto e Servizi sociali" presso il Comune di Cinisi (PA).

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