L’impugnazione della delibera assembleare di aumento di capitale sociale per abuso di potere da parte dei soci di maggioranza

L’impugnazione della delibera assembleare di aumento di capitale sociale per abuso di potere da parte dei soci di maggioranza

Traccia

Per approfondire il fenomeno c.d. di abuso di potere da parte dei soci di maggioranza di una società di capitali, e per analizzare le tre possibili configurazioni giurisprudenziali della suddetta fattispecie di abuso, ci si rappresenterà l’esistenza di una S.p.A. (che chiameremo “Omega”) con un capitale sociale di euro 1.000.000 diviso in pari quote tra i soci Primo, Secondo, Terzo, Quarto e Quinto, con gli ultimi tre legati tra loro in forza di un patto parasociale finalizzato a esercitare in modo congiunto il proprio voto in assemblea.

Ci si rappresenti altresì che, per far fronte a nuove spese di produzione, il socio Primo abbia versato a favore delle casse sociali 300.000 euro a titolo di versamento in conto capitale e che parimenti il socio Secondo, parimenti, abbia versato del denaro, a titolo di versamento a fondo perduto, per una somma di euro 250.000. Ora, in una simile ipotesi, l’organo amministrativo dovrà convocare l’assemblea per procedere ad un aumento di capitale. Si ipotizzi, nuovamente, che la Omega opti per un aumento misto, il quale verrà concordato essere in parte oneroso per euro 1.000.000 e in parte gratuito per l’ammontare delle riserve disponibili, attraverso imputazione integrale delle poste versate da Primo e Secondo a beneficio di tutti i soci.

In ultimo, supponiamo che la società (come sovente può accadere), presenti perdite per euro 280.000 ma nonostante questo deliberi (con il voto favorevole dei soci Terzo, Quarto e Quinto) l’aumento del capitale sociale senza prima procedere alla riduzione per perdite. I tre soci decideranno di imputare a capitale ai fini dell’aumento gratuito esclusivamente le poste del netto costituite a seguito dei versamenti sopramenzionati, iscrivendo la delibera al Registro delle Imprese e sottoscrivendo l’aumento a pagamento liberando interamente le azioni loro offerte.

È evidente come, in una ipotesi così configurata, i soci Primo e Secondo, ritenendo che i versamenti dai medesimi eseguiti non possano essere utilizzati per l’aumento gratuito in favore anche degli altri soci, possano avere tutto l’interesse ad agire in giudizio convenendo la società, al fine di ottenere una sentenza che accerti l’invalidità della delibera di aumento. Ma quale vizio di nullità potrebbe colpire una simile delibera?

Nel caso di specie, si cercheranno di dimostrare sussistenti due particolari profili di invalidità, e si tenterà di porli in evidenza con un rimando ai più recenti orientamenti giurisprudenziali in materia. In particolare:

– Si cercherà di dimostrare come la delibera possa ritenersi invalidamente assunta per una violazione di legge nella procedura di aumento gratuito di capitale sociale, violazione ravvisabile nello più specificamente nell’utilizzo di fondi non rientranti nella nozione di disponibilità, di cui all’articolo 2442 c.c. Detti fondi, trasferiti alla Omega S.p.A. in seguito a versamenti apportati dai soci Primo e Secondo, dovrebbero potersi considerare come versamenti aventi uno specifico vincolo di destinazione (versamenti in conto futuro aumento di capitale), sottratti in questo modo alla disponibilità della società.

– In subordine alla suddetta domanda principale, qualora venisse rifiutata la qualificazione dei versamenti come effettuati in conto futuro aumento di capitale, si tenterà di dimostrare come i soci Primo e Secondo possano impugnare la delibera assembleare alla luce di un secondo e distinto profilo di invalidità: essa, infatti, è stata adottata tramite la consumazione di un abuso di potere da parte dei soci di maggioranza Terzo, Quarto e Quinto nei confronti dei soci di minoranza Primo e Secondo.

Disciplina dei versamenti  

Urge in primo luogo un breve chiarimento sulla disciplina in materia. Il versamento è un’operazione compiuta da uno o più soci nei confronti della società, in un particolare momento di vita della stessa. Questi possono avere diverse finalità, e se ne distinguono a tal proposito diverse tipologie, tra le quali ci soffermeremo su: versamenti in conto capitale, a fondo perduto e in conto futuro aumento di capitale.

I versamenti si distinguono dai finanziamenti per la diversa posizione del socio erogante; esso in caso di finanziamento si trova ad essere creditore della società, ma non altrettanto in caso di versamento. Quest’ultima precisazione vale per due dei versamenti soprammenzionati, ma non per quelli in conto futuro aumento di capitale. Questi, se vengono effettuati in attesa di una non ancora determinata delibera di aumento di capitale o di un aumento inscindibile, laddove vi sia la possibilità che l’aumento non trovi attuazione, non possono imputarsi ipso facto al patrimonio netto, bensì devono iscriversi tra i debiti della società verso coloro che le abbiano eseguiti. Ciò in quanto, se l’aumento non venisse eseguito, i soggetti eroganti avrebbero diritto alla restituzione.

Questa è la prima essenziale differenza tra i versamenti menzionati precedentemente. Si aggiunga inoltre che, se intento di chi versa in conto di futuro aumento di capitale è appunto quello di destinare la somma alla liberazione delle azioni di nuova emissione, nel caso dei versamenti in conto capitale e quelli a fondo perduto l’intento del socio erogante è quello di dotare la società di maggior denaro, senza vantare alcun diritto sullo stesso. Tale denaro sarà a disposizione della società, la quale potrà servirsene come meglio crede, avendo sempre di mira l’interesse sociale. Questa caratteristica rende inutile qualunque strumento mirato a subordinare i versamenti ai soci che gli hanno effettuati: rende inutile, in poche parole, che vengano targati. Di qui, risulta palese la differenza: da una parte un vincolo di destinazione, dall’altra la completa disponibilità. Resta solo da capire sotto quale categoria rientrino affinché si possa decidere la disciplina applicabile.

Come precisato dall’ Ordine dei Commercialisti e Esperti Contabili di Genova in “I versamenti dei soci: tra conferimenti e patrimoni”, per procedere a ciò, soffermarsi sul tenore letterale che i versamenti hanno assunto nel bilancio non sembra bastare. Questo non solo per la presenza di articoli del codice civile che impongono di andare oltre alla lettera al fine di interpretare correttamente il contratto, e più in generale il negozio giuridico[1], ma anche per la particolare disciplina in esame, in cui tale procedimento ermeneutico appare ancor più decisivo. I versamenti in conto capitale effettuati dai soci in favore della società palesano una natura che dipende dalla ricostruzione della comune intenzione delle parti, la cui prova va desunta in via principale dal modo in cui il rapporto ha trovato concreta attuazione, dalle finalità pratiche cui si mostra diretto e dagli interessi ad esso sottesi, e solo in subordine dalla qualificazione che i versamenti hanno ricevuto in bilancio[2]. Tale ragionamento viene applicato in diverse occasioni sia dalla Cassazione sia da giudici di merito[3] per quanto riguarda la qualificazione dei versamenti o dei finanziamenti, ma appare estendibile anche alla disciplina dei vari versamenti come prima esposta.

Se, dunque, può apparire ammissibile che l’assemblea deliberi un aumento di capitale gratuito attraverso imputazione di versamenti in conto capitale o a fondo perduto (fatto in realtà piuttosto delicato per il rischio che vengano dolosamente create sproporzioni all’interno della compagine sociale), ciò non può esser vero per il nostro caso fittizio, stante la qualifica di versamenti in conto futuro aumento di capitale. Nella fattispecie ipotizzata, infatti, la volontà dei soci risulta inequivocabilmente quella di sottoscrivere il futuro aumento di capitale oneroso e, non, come in questo caso, recare un vantaggio alla società (in questo caso agli altri tre soci) senza nessun ritorno per il socio conferente.

Abuso di potere da parte dei soci di maggioranza Terzo, Quarto e Quinto

Qualora la sopracitata diversa qualificazione dei versamenti venisse rifiutata o ritenuta imprecisa, potrebbe nell’ipotetico caso di specie sussistere un alternativo (e largamente discusso in dottrina) profilo di invalidità, costituito dall’abuso di potere da parte di Terzo, Quarto e Quinto nei confronti dei soci Primo e Secondo.  Tale aspetto risulta evidente in considerazione delle diverse configurazioni dell’abuso di potere delineate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità. In particolare, sono venute profilandosi sin d’ora, ad opera della giurisprudenza, tre diverse fattispecie dell’istituto in questione, le quali, alternativamente l’una all’altra, sono in grado di inficiare la validità della delibera alla quale si riferiscono, rendendola annullabile per violazione dell’obbligo di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto (di società), ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. Per quanto concerne il caso qui configurato, la delibera assunta dalla società Omega S.p.A. è da ritenersi senza dubbio assunta in presenza di un abuso di potere da parte dei soci di maggioranza, tanto da doversi concludere che la fattispecie in esame realizzi non solo alternativamente, ma anche congiuntamente le tre configurazioni delineate dalla giurisprudenza.

Una prima causa di invalidità della delibera assembleare di aumento del capitale per abuso di potere da parte dei soci di maggioranza si ravvisa, come chiarifica la giurisprudenza, allorché sussista “una sproporzione ingiustificata fra il beneficio del titolare del diritto e il sacrificio cui è soggetta la controparte”[4].  La ricorrenza di tale istituto non va difatti rinvenuta unicamente nell’ipotesi che una parte, nel prefiggersi uno scopo legittimo e adottando strumenti adeguati, non tuteli gli interessi dell’altra in sede negoziale. L’abuso di potere trova ulteriormente applicazione finanche “il diritto soggettivo sia esercitato con modalità non necessarie e irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, e al fine di conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”[5]. Nel caso di specie, a seguito della suddetta delibera di aumento del capitale, si ravvisa tanto uno “sproporzionato e ingiustificato” sacrificio patrimoniale da parte dei soci Primo e Secondo, tanto un perseguimento di “risultati diversi e ulteriori” rispetto a quelli per i quali, in ragione del principio maggioritario, è attribuito ai soci di maggioranza Terzo, Quarto e Quinto il potere di assumere decisioni in sede assembleare in forza dell’intercorrente patto parasociale tra i tre soci.

Si consideri dapprima il profilo di corrispondenza del caso di specie allo “sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte”. L’imputazione dei versamenti di Primo e Secondo a titolo di aumento gratuito del capitale – ammettendo la qualificazione di questi, rispettivamente, in conto capitale e a fondo perduto – comporta un diretto ed immediato vantaggio per i soci di maggioranza, che nel sottoscrivere l’aumento oneroso liberando le azioni a loro offerte, versano di fatto 200.000 euro, ma ottenendone una quota di circa il 50 per cento in più (ottengono, invero, circa 300.000 azioni). Ma l’evidente sproporzionalità del sacrificio patrimoniale dei soci Primo e Secondo si coglie, in particolare, considerando che questi ultimi nell’effettuare tali versamenti vedrebbero le quote da ambedue detenute incrementare di circa 100.000 euro ciascuna, pur avendo effettuato versamenti del valore, rispettivamente, di 250.000 e 300.000 euro. Tangibile, nella fattispecie, è anche la mancata giustificazione del sopracitato sacrificio patrimoniale dei due soci di minoranza: l’imputazione dei loro versamenti a titolo di aumento gratuito non può di certo ritenersi giustificata, in quanto la stessa delibera di aumento viene adottata dagli stessi soci di maggioranza al solo scopo di vedere incrementare le quote detenute uti singuli, strumentalizzando a proprio vantaggio patrimoniale i versamenti effettuati dai soci Primo e Secondo.

Si consideri ora la corrispondenza della fattispecie al secondo profilo delineato, tale per cui i tre soci di maggioranza conseguono “risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”. L’ordinamento conferisce infatti a chi detiene la maggioranza il potere di assumere decisioni in sede assembleare, in virtù dello stesso principio maggioritario in forza del quale è proprio il socio che rischia di più (a livello patrimoniale) a poter amministrare la società in modo più oculato e previdente rispetto al socio che rischia meno. Pertanto, le delibere assunte dal socio di maggioranza, proprio a fronte del maggior rischio cui quest’ultimo incorre, realizzano di fatto e implicitamente l’interesse dell’intera compagine. Tuttavia, nella fattispecie proposta, tale principio non può trovare applicazione: stante infatti la ripartizione delle quote azionarie, non può sussistere un socio il quale, rispetto agli altri, rischi in misura maggiore in sede di delibera. Pertanto, è proprio in ragione della non applicabilità di tale principio che, da un lato la delibera assunta dai soci Terzo, Quarto e Quinto non può realizzare l’interesse dell’intera compagine – non detenendo questi, singolarmente, una quota del capitale sociale maggiore rispetto agli altri soci – e che, dall’altro, la stessa delibera comporta di fatto la lesione degli interessi patrimoniali dei soci Primo e Secondo, i cui versamenti vengono strumentalizzati dai soci di maggioranza in vista del solo fine di conseguire un personale beneficio patrimoniale[6]. Di qui, dunque, i risultati “diversi e ulteriori” conseguiti dai soci Terzo, Quarto e Quinto, rispetto a quelli per i quali è loro attribuito il potere di assumere decisioni in sede di delibera assembleare. Si aggiunge in ultima istanza che imputando i suddetti versamenti a titolo di aumento oneroso del capitale o invece a titolo di copertura di perdite non si assisterebbe in alcun modo alla lesione degli interessi patrimoniali degli stessi soci di minoranza che hanno effettuato tali versamenti. Tuttavia, nel caso di specie, è proprio imputando tali importi a titolo di aumento gratuito del capitale sociale che la suddetta configurazione di abuso di potere da parte di Terzo, Quarto e Quinto trova concreta realizzazione.

La Suprema Corte[7] ha affermato che la fattispecie dell’abuso di potere sussiste, ed è causa di annullamento della delibera, quando “sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali”. Questo orientamento, nel tempo, si è poi affermato in modo stabile anche in via giurisprudenziale.[8]

Nell’ipotesi prospettata, anche questa seconda configurazione è rinvenibile, in tutti i suoi elementi, nella condotta posta in essere dai soci Terzo, Quarto e Quinto a danno dei soci Primo e Secondo.

In primo luogo, la suddetta “intenzionale attività fraudolenta” si ravvisa nella circostanza per cui sarebbe stato possibile conseguire lo stesso risultato, ossia l’incremento economico dei soci, attraverso una diversa decisione che contemplasse un bilanciamento di interessi delle parti, e che avesse quindi come effetto il beneficio per l’intera compagine sociale, anziché quello esclusivo dei soci di maggioranza con corrispondente sacrificio dei soci di minoranza[9]. I versamenti avrebbero infatti potuto essere imputati per un aumento del capitale sociale a titolo oneroso: in questo modo i soci Primo e Secondo avrebbero vista soddisfatta la propria pretesa, legittima, se non implicita, di un vantaggio corrispettivo al loro sacrificio economico; congiuntamente i soci Terzo, Quarto e Quinto avrebbero potuto esercitare il diritto, come peraltro è avvenuto nella fattispecie in esame, di sottoscrivere tale aumento e consequenzialmente di trarne anch’essi un beneficio economico. Inoltre, in tal modo i soci Primo e Secondo avrebbero anche potuto esercitare il diritto di opzione per le nuove azioni ai sensi dell’art. 2441 comma 1 c.c., in proporzione al numero delle azioni possedute: la ratio stessa dell’offerta in opzione è la “tutela in maniera incondizionata (anche rispetto ad offerte più vantaggiose per la società) dell’interesse del socio a conservare inalterata la proporzione in cui egli partecipa al capitale sociale”[10]. Si consideri poi un’ulteriore ipotesi: i versamenti avrebbero potuto essere imputati a titolo di riserva o copertura di perdite, voci che per loro natura sono volte al soddisfacimento degli interessi della collettività sociale.

I soci, in particolar modo Terzo, Quarto e Quinto, poiché in forza del patto parasociale che li vincola risultano sempre detentori di una quota tale da risultare sempre la maggioranza in sede assembleare, avrebbero avuto ben due vie per raggiungere lo scopo che dovrebbe essere cardinale nell’attività sociale, ossia l’interesse dell’intera compagine: il fatto che abbiano scelto di non perseguire nessuna delle due, ma anzi abbiano deliberato di utilizzare solo il denaro dei due due soci di minoranza per conseguire un vantaggio individuale, fa emergere distintamente l’eccesso, o abuso, del potere derivante da questa loro posizione di forza.

Il secondo elemento delineato dalla Cassazione, consistente nella lesione del diritto di minoranza e nel conseguente danno ad essa arrecato, risulta quindi palese alla luce delle considerazioni anzidette: l’imputazione ad aumento di capitale sociale a titolo gratuito, anziché oneroso, dei versamenti di Primo e Secondo, ha avuto come effetto quello di incrementare le singole quote dei soci Terzo, Quarto e Quinto attraverso l’uso del denaro dei primi due soci. Questo effetto non si sarebbe verificato, come già esposto, nel caso i soci avessero imputato i suddetti versamenti per un aumento a titolo oneroso del capitale sociale, ma neppure ammettendo il caso in cui avessero imputato il denaro a titolo di copertura delle perdite: in questa ipotesi sarebbe stata l’intera compagine sociale a trarre beneficio dall’operazione, escludendo quindi la fattispecie di abuso di potere da parte dei soci Terzo, Quarto e Quinto. Si consideri, in astratto, un’ulteriore ipotesi: la società avrebbe potuto procedere ad un’imputazione “mista” del denaro, attraverso due vie: a) imputare una parte di esso alla copertura delle perdite e la restante parte per la sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale a titolo oneroso, oppure alternativamente b) imputare il denaro ad aumento del capitale a titolo oneroso e la restante parte a copertura di perdite. Entrambe queste ipotesi avrebbero soddisfatto tanto gli interessi della compagine sociale, quanto quelli dei soci – di minoranza – conferenti. La decisione assunta dai soci Terzo, Quarto e Quinto risulta pertanto essere l’unica, anche in astratto, idonea a configurare abuso di potere, fattispecie da escludersi invece in caso di qualsiasi imputazione diversa del denaro versato dai soci.

Discerebbero dunque, dalla condotta dei soci Terzo, Quarto e Quinto, diversi danni, da differenziarsi in ragione della mancata attuazione delle diverse possibili vie perseguibili precedentemente indicate. I soci di minoranza, difatti, sarebbero tenuti a versare altro denaro per non vedere alterato radicalmente il proprio peso all’interno della società, oppure per sanare eventuali ulteriori perdite. Tali danni sarebbero da considerarsi alternativamente in riferimento alle prime due ipotesi sopra illustrate, congiuntamente in riferimento all’ultima di esse.

In subordine alle due ipotesi appena analizzate, è necessario rinvenire nella fattispecie oggetto della controversia un’ulteriore ed ultima ipotesi di abuso di potere, la quale è definita dalla Suprema Corte come una situazione patologica che si verifica in sede di delibera assembleare “allorquando la delibera non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, per essere il voto ispirato al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale[11]. Risulta indispensabile notare come non sia il semplice interesse personale, diverso da quello sociale, a generare un’ipotesi di abuso di potere, ma sia bensì l’interesse antitetico dei soci di maggioranza rispetto all’interesse della società intesa nel suo complesso, come portatrice degli interessi comuni di tutti i soci: si tratta di ribadire la vigenza dell’obbligo di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, in virtù del quale i soci di maggioranza, di certo non tenuti a salvaguardarli, si impegnano senza dubbio a non ledere gli interessi della società, nonché dei soci di minoranza. Nel caso oggetto della fittizia controversia, i soci Terzo, Quarto e Quinto, soci di maggioranza, perseguono un interesse precipuamente personale, da considerarsi extrasociale in quanto estraneo al benessere della società nel suo complesso: esso consiste nell’incremento delle proprie quote, e dunque del numero o del valore delle azioni da essi detenute, tramite l’imputazione a titolo di aumento gratuito del capitale sociale dei versamenti effettuati dai soci di minoranza Primo e Secondo. Ora, sebbene tale operazione sia formalmente del tutto lecita – i soci di maggioranza hanno infatti il potere di incrementare il capitale sociale utilizzando versamenti che si considerano effettuati in conto capitale e a fondo perduto – ne emerge la problematicità qualora si consideri il suo impatto sugli interessi della società e su quelli dei soci Primo e Secondo. Si rende manifesta l’intenzione di aumentare il capitale sociale (a titolo gratuito), non solo per ottenere un vantaggio diretto in termini patrimoniali strumentalizzando i suddetti versamenti, ma anche per evitare di raggiungere il limite legale fissato dall’art. 2446, aggirando quest’ultima disposizione.

Le ragioni sopra esposte evidenziano come la delibera assunta sia il frutto del perseguimento degli interessi personali uti singoli dei soci Terzo, Quarto e Quinto, qualificabili come antitetici rispetto all’interesse sociale, nonché dannosi nei confronti dell’intera compagine. Essa dovrà necessariamente considerarsi  invalida, per violazione dell’obbligo di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

 

 

 


[1] Art.1362 cc
[2] Cassazione Civile Sezione I, 08/06/2018, n.15035
[3] Tribunale Milano, 16/11/2017 n.11552
[4] C. St., Sez. V, 7 febbraio 2012; Cass. 7 maggio 2013, n. 10568; Cass. 25 gennaio 2016, n. 1248
[5] Cass. 29 maggio 2012, n. 8567
[6] Frisoli, Giur. comm., fasc.1, 2007, pag. 85, Nota a: Cassazione civile, 12 dicembre 2005, n.27387, sez. I.
[7] Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387; Cass. 17 luglio 2007, n. 15942; Cass. 17 luglio 2007, n. 15950.
[8] App. Perugia, 31 gennaio 2013; Trib. Torino, 19 aprile 2017, n. 2100; Trib. Roma, 31 marzo 2017, n. 6452.
[9] Frisoli, Giur. comm., fasc.1, 2007, pag. 85, Nota a: Cassazione civile, 12 dicembre 2005, n.27387, sez. I.
[10] Cass. 28 marzo 1996, n. 2850.
[11] Cass. 17 luglio 2007, n. 15942; App. Perugia 31 gennaio 2013; Trib. Roma 31 marzo 2017, n. 6452.

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