L’incerto confine tra furto con strappo e rapina alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali

L’incerto confine tra furto con strappo e rapina alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali

Sommario: 1. Il delitto di furto nelle sue varie declinazioni – 2. La rapina propria ed impropria – 3. Le condotte di furto con strappo e rapina al vaglio della giurisprudenza di legittimità

 

1. Il delitto di furto nelle sue varie declinazioni

Il furto, disciplinato dall’art. 624 c.p., è collocato nel titolo XIII dedicato ai delitti contro il patrimonio ed, in particolare, nel capo avente ad oggetto i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone. Il bene giuridico tutelato dalla norma è controverso, in quanto parte della dottrina lo identifica in una relazione di fatto che il derubato aveva con la cosa sottrattagli (possesso o detenzione), mentre altra parte in una situazione di diritto che, a seconda delle concezioni, è riferita talora alla sola proprietà, talaltra ai diritti reali complessivamente considerati od ancora anche ai diritti reali di godimento. Sul punto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno statuito che il bene giuridico protetto dal delitto di furto va individuato non solo nella proprietà o nei diritti reali personali o di godimento, ma anche nel possesso – quale relazione di fatto che non richiede la diretta fisica disponibilità – che si configura anche in assenza di un titolo giuridico e, finanche, quando esso si costituisce in modo clandestino o illecito (Cass., Sez. Un., 30 settembre 2013, n. 40354).

Il primo comma dell’art. 624 c.p. stabilisce che «chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516». Dalla lettura della disposizione si desume che il soggetto attivo del reato può essere chiunque, con la conseguente collocazione nella categoria dei c.d. reati comuni, mentre per il soggetto passivo la giurisprudenza fa costante riferimento alla figura del detentore, affermando che persona offesa dal reato è solamente colui che è stato spossessato.

Ciò posto, appare evidente come la condotta incriminata si concretizza nell’impossessarsi della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene. L’impossessamento consiste in un potere di fatto che il soggetto agente realizza sulla cosa mobile altrui (oggetto materiale del furto) che, secondo una consolidata interpretazione, non deve necessariamente avere un valore economico in sé, essendo sufficiente riferirsi alla normale destinazione d’uso della cosa ed al profitto che ne ricava chi l’ha sottratta. L’art. 624, comma 2, c.p. inserisce nella nozione di cosa mobile anche l’energia elettrica e qualsiasi altra energia che abbia un valore economico idoneo a provocare un depauperamento del soggetto passivo ed un arricchimento di quello attivo. Basti pensare, oltre all’energia elettrica espressamente prevista dalla disposizione incriminatrice, all’energia meccanica, termica e dei gas. In ordine al concetto di altruità si sono registrati, come anzidetto, due opposti orientamenti che lo identificano rispettivamente in una situazione possessoria di un soggetto diverso dall’agente e in una situazione di diritto (proprietà, diritti reali).

La sottrazione, invece, si verifica con l’uscita del bene dalla signoria di fatto del soggetto passivo, occorrendo, in altri termini, l’eliminazione dell’altrui possesso: il c.d. spossessamento. Quanto all’interpretazione del concetto di detenzione, il legislatore si riferisce alla disponibilità materiale ovvero ad un autonomo potere materiale sulla cosa, in forza del quale un soggetto si trovi nella possibilità immediata ed attuale di signoreggiarla fisicamente. Ad esempio, si può detenere in contatto o in vicinanza, cioè quando la cosa rientra nella sfera di propria accessibilità fisica diretta ovvero a distanza, fintanto che il detentore conservi, oltreché la volontà, la disponibilità di stabilire, qualora lo desideri, il contatto fisico con la cosa stessa.

L’elemento soggettivo del reato in esame è il dolo specifico, stante la coscienza e volontà della sottrazione e dell’impossessamento, accompagnata dalla consapevolezza che la res sia altrui, con il fine ulteriore di trarre dalla cosa sottratta un profitto per sé o per altri. Tale assunto è confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., Sez. II, 9 ottobre 2012, n. 40631), la quale chiarisce che la nozione di profitto va intesa in senso lato, consistendo in una qualsiasi utilità o vantaggio anche di natura non patrimoniale.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato, la giurisprudenza, identificando la sottrazione con l’impossessamento, ritiene sufficiente che la cosa sottratta sia passata, anche per breve tempo, sotto l’autonoma disponibilità dell’agente, anticipando – di fatto – il perfezionamento del reato e punendo a titolo di furto consumato il fatto di chi abbia esercitato un potere anche solo momentaneo sul bene (Cass. Pen., Sez. V, 4 maggio 2015, n. 26461). A contrario, la prevalente dottrina differenzia l’elemento dell’impossessamento da quello della sottrazione, con importanti ricadute sulla configurabilità del tentativo di furto, il cui campo di applicazione si restringe o si amplia in base all’impostazione che si accoglie. Nel primo caso, stante la coincidenza tra sottrazione e impossessamento, il tentativo sarà configurabile solo fino al momento in cui l’autore compie la sottrazione della cosa; nel secondo caso, all’opposto, il furto resta ancora allo stadio del tentativo fin quando, oltre alla sottrazione, non si realizzi una piena situazione di possesso sul bene sottratto.

Va, a questo punto, segnalato che la previsione di cui all’art. 624-bis c.p. rappresenta sicuramente la novità più rilevante introdotta dalla l. 128/2001, in quanto ha elevato ad autonome fattispecie di reato le due ipotesi prima rientranti nelle aggravanti ex art. 625, n.1, c.p.: si allude al furto in abitazione e al furto con strappo. La ratio di tale intervento legislativo si rinviene nella volontà di tutelare adeguatamente, oltre l’interesse patrimoniale leso dalla sottrazione del bene altrui, la sicurezza individuale, intesa come inviolabilità fisica e psichica della sfera personale del soggetto passivo. Il primo comma dell’art. 624-bis c.p. disciplina il furto in abitazione e dispone che «chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa, è punito con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1500».        La norma riproduce alla lettera la condotta del furto comune, limitandosi ad aggiungere un elemento specializzante: l’introduzione nella privata dimora altrui o nelle pertinenze di essa. Oggetto di dibattito interpretativo è stata la locuzione “privata dimora”, con riguardo a condotte furtive poste in essere in esercizi commerciali, studi professionali, stabilimenti industriali e, in generale, luoghi di lavoro. Dopo una accesa disputa giurisprudenziale, sono intervenute le Sezioni Unite a dirimere il contrasto, pervenendo ad una interessante conclusione. Gli ermellini, pur partendo dal presupposto che il concetto di privata dimora è sicuramente più ampio di quello di abitazione, hanno escluso la sussunzione nella nozione di privata dimora, ai sensi dell’art. 624-bis c.p., dei luoghi ove si esercita una attività commerciale o imprenditoriale, salvi i casi in cui il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa. Dunque, secondo le Sezioni Unite, «rientrano nella nozione di privata dimora di cui all’art. 624-bis c.p. esclusivamente i luoghi, anche destinati ad attività lavorativa o professionale, nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare» (Cass., Sez. Un., 22 giugno 2017, n. 31345).

Invece, il secondo comma dell’art. 624-bis nel codificare l’autonoma fattispecie del furto con strappo, chiamato comunemente scippo, prevede che «alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, strappandola di mano o di dosso alla persona». Dal tenore della disposizione si desume che permangono gli elementi strutturali del furto comune (art. 624 c.p.), con l’ulteriore specificazione circa la concreta modalità esecutiva della condotta lesiva. Pertanto, il fatto materiale si traduce in un atto violento esercitato su di un oggetto, il quale viene improvvisamente strappato di dosso o di mano alla vittima: la violenza cui la norma si riferisce deve essere diretta alle sole cose oggetto di sottrazione da parte dell’agente e funzionale a vincere la resistenza della persona. È qui che sorgono le principali difficoltà dell’interprete nel delineare la distinzione, non solo dal punto di vista astratto, ma anche concreto, con l’analoga figura di reato della rapina (art. 628 c.p.), stante il labile confine applicativo tra le due fattispecie la cui trattazione segue nel terzo paragrafo.

2. La rapina propria ed impropria

Il delitto di rapina ex art. 628 c.p. è, al pari del furto, collocato nel titolo XIII dedicato ai delitti contro il patrimonio ed inserito nel capo avente ad oggetto i delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone. Rappresenta un tipico esempio di reato plurioffensivo, poiché il bene giuridico tutelato dalla norma è sia l’interesse patrimoniale, sia la sicurezza e la libertà individuale della persona che ne è vittima.

Il primo comma dell’art. 628 c.p. stabilisce che «chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 927 a 2500». Alla luce di tale disposizione, risulta evidente la natura giuridica di reato comune, poiché il soggetto attivo può essere chiunque salvo, ovviamente, colui che possieda attualmente la cosa. La condotta penalmente rilevante è costituita dalla stessa azione di sottrazione e impossessamento tipica del furto, con l’ulteriore elemento della violenza alla persona o della minaccia funzionali all’aggressione del possesso.

Detto comma, secondo opinione diffusa, concerne la c.d. rapina propria, ove concorrono tutti gli elementi del furto, con l’aggiunta dell’estremo della violenza fisica o psichica alla persona, al fine di vincere l’opposizione del detentore e impossessarsi della cosa mobile. In relazione al requisito della violenza, la Suprema Corte ha precisato che «non va inteso soltanto nell’estrinsecazione di un’energia fisica direttamente sulla persona del derubato, ovvero come “violenza fisica” consistente nella coazione materiale esercitata sulla persona offesa, ma anche come qualsiasi atto o fatto posto in essere dall’agente che si risolve comunque nella coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo che viene indotto, contro la sua volontà, a fare, tollerare o omettere qualche cosa indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico» (Cass. Pen., Sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1176). La minaccia, invece, si configura mediante la prospettazione di un male ingiusto, il cui verificarsi dipende dalla volontà dell’autore e, segnatamente, nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici di pertinenza del soggetto passivo o di terzi a lui legati. Va, altresì, rilevato che la minaccia può rivolgersi sia alla vittima in via diretta sia a soggetti diversi, purché abbia la capacità di produrre, in quest’ultimo caso, l’effetto coercitivo sul possessore del bene mobile. Per quanto concerne la nozione di profitto, la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, nonché in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, della propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (Cass. Pen., Sez. II, 7 dicembre 2012, n. 49265). Infine, l’ingiustizia ricorre ogniqualvolta la pretesa del soggetto attivo non riceve alcuna tutela diretta o indiretta dall’ordinamento giuridico. Occorre precisare che la rapina c.d. propria si consuma nel momento dell’impossessamento della res, mentre il tentativo si configura quando il soggetto, nonostante l’uso della violenza o della minaccia, non riesca ad impossessarsi della cosa mobile.

Ebbene, dall’analisi del suddetto comma emerge come l’effetto della violenza o della minaccia debba essere diretto a coartare in maniera assoluta la volontà della vittima; di converso, qualora nel soggetto passivo residui un margine di autonomia decisionale e, ciononostante, decida di liberarsi della cosa a favore dell’agente, si ricadrà nel campo applicativo del diverso reato di estorsione.

Al contrario, il secondo comma della fattispecie in esame, riferendosi alla c.d. rapina impropria, prevede che «alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare ad sé o ad altri l’impunità». La peculiarità rispetto al primo comma è data dal fatto che la violenza e la minaccia sono collocate, dal punto di vista temporale, in un momento immediatamente successivo alla sottrazione e servono per rinsaldare l’impossessamento o per procurare a sé o ad altri l’impunità. Successivamente ad un acceso dibattito in ordine all’interpretazione della locuzione «immediatamente dopo la sottrazione», la giurisprudenza di legittimità ha statuito che non va intesa in senso rigorosamente letterale, come necessità che fra la sottrazione e l’uso della violenza non intercorra alcun lasso di tempo, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale idoneo a realizzare, secondo i principi di ordine logico, i requisiti della quasi flagranza e tale da non interrompere il nesso di contestualità dell’azione complessiva. Inoltre, la consumazione del reato si identifica col momento dell’impiego della violenza o della minaccia, residuando il tentativo qualora l’autore, una volta compiuta la sottrazione, tenti di usare violenza o minaccia al fine di conseguire l’impunità, ma, ad esempio, sia stato fermato dalla polizia o da terzi.

Quanto all’elemento psicologico, sia nella rapina propria sia in quella impropria si configura, al pari del furto, il dolo specifico;  tuttavia, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che il reato può essere integrato anche dal c.d. dolo concomitante o sopravvenuto, in quanto la coscienza e volontà del soggetto attivo non devono necessariamente preesistere all’inizio dell’attività integratrice del reato, ma possono anche manifestarsi in un secondo momento, peraltro durante il compimento degli atti di violenza o di minaccia (Cass. Pen., Sez. II, 12 gennaio 2016, n. 3116).

3. Le condotte di furto con strappo e rapina al vaglio della giurisprudenza di legittimità

Alla luce dell’analisi effettuata, emerge una chiara difficoltà nel distinguere la condotta di furto con strappo (art. 624-bis, co. 2, c.p.) da quella di rapina (art. 628 c.p.), considerate le numerose analogie che contraddistinguono le due fattispecie. Tale questione è stata, nel corso degli anni, al centro del dibattito della dottrina e della giurisprudenza, le quali hanno cercato di individuare un criterio idoneo a discernere le due autonome figure di reato.

Preliminarmente, va rilevato che la violenza, espressamente prevista nel delitto di rapina e implicitamente nel furto con strappo, rappresenta, pertanto, elemento comune e allo stesso tempo discriminante. A tal proposito, alcuni autori sostengono che il criterio discretivo trova il suo fondamento nella direzione teleologica della violenza: se l’autore ha voluto staccare la cosa dalla persona sussiste il furto, mentre se ha mirato ad eliminare con la forza la presenza fisica della parte lesa, per poi procedere più agevolmente alla sottrazione, si concretizza il delitto di rapina.

Invero, la giurisprudenza propende per un altro orientamento, oggi sicuramente maggioritario, più volte confermato negli anni dalla Suprema Corte di Cassazione, secondo cui la violenza ex art. 624-bis, comma 2, c.p. è quella che si rivolge alle sole cose oggetto di sottrazione da parte dell’agente e strumentale a sconfiggere la resistenza dei mezzi che avvincono la cosa alla persona. Pertanto, in base al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la condotta di furto con strappo si realizza allorquando la violenza sia direttamente rivolta verso la res e solo indirettamente verso la persona che la porta in dosso o in mano, mentre ricorre l’autonomo delitto di rapina, qualora la violenza fisica sia indirizzata direttamente alla persona.      Ad esempio, sarà perseguibile a titolo di furto con strappo il ladro che afferra la borsetta della vittima per il manico e la strappa, mentre risponderà di rapina il soggetto che dà un colpo sulla mano della vittima per farle cadere la borsetta per poi impossessarsene. La prima pronuncia della Corte di Cassazione, in tal senso, risalente già a diversi anni fa, ha individuato il criterio della “particolare aderenza della res al corpo della vittima”, evidenziando che, quando quest’ultima è particolarmente in contatto col possessore, la violenza necessariamente si estende al soggetto passivo (Cass., Sez. II, 12 luglio 1991, n. 7386). Gli ermellini hanno successivamente specificato che quando la violenza è esercitata contemporaneamente sulla cosa e sulla vittima intenta a difendere o trattenere la cosa, va configurato il reato di rapina e non quello di furto con strappo (Cass., 7 giugno 2005, n. 21325).

Tale criterio di matrice giurisprudenziale è stato più volte confermato e perfezionato in successive pronunce (Cass., Sez. II, 12 ottobre 2006, n. 34206; Cass. Pen., Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 49832; Cass., Sez. II, 21 gennaio 2015, n. 2553), sulla considerazione che sia configurabile il furto con strappo allorquando la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa e solo – in via del tutto indiretta – verso la persona che la detiene, anche se, a causa della relazione fisica intercorrente tra cosa sottratta e possessore, possa derivare una ripercussione indiretta e involontaria sulla vittima. Ricorre, invece, la rapina allorché la res è particolarmente aderente al corpo del possessore e questi, istintivamente e deliberatamente, contrasta la sottrazione, di modo che la violenza necessariamente si estenda alla sua persona, dovendo l’agente vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente al normale contatto della cosa con essa.

Ebbene, sulla scorta dell’impostazione de qua, appare chiaro come il confine tra le due condotte vada identificato nella direzione della violenza. In linea con tale opzione interpretativa, si pone una recente pronuncia della Cassazione (Cass. Pen., Sez. V, 26 ottobre 2016, n. 44976), la quale ha ulteriormente precisato che deve ritenersi integrato il delitto di rapina, in luogo di quello di furto con strappo, quando l’azione violenta in origine esercitata sulla cosa, per la particolare adesione o connessione della cosa medesima al corpo del possessore e per la resistenza da questi opposta, si estende necessariamente al soggetto passivo; da ciò ne consegue che nel delitto di rapina si realizzerebbe una violenza che, per la posizione dell’oggetto sottratto e per la resistenza della vittima, si propaga senza soluzione di continuità alla vittima con una forza immutata rispetto a quella agita sull’oggetto. Contrariamente, l’elemento costitutivo della fattispecie di furto con strappo è costituito da un’unica azione, la cui modalità esecutiva coinvolge unicamente il bene mobile che l’agente intende sottrarre illegittimamente: trattasi di una azione che non lede fisicamente il soggetto passivo, se non indirettamente ed attraverso una forza ormai  esaurita.

Recentissimamente, la Suprema Corte è tornata sulla vexata quaestio (Cass. Pen., Sez. II, 9 ottobre 2018, n. 45409), corroborando, ancora una volta, il già consolidato orientamento. Quest’ultima pronuncia, costituendo il più recente approdo della giurisprudenza di legittimità in materia, ha ribadito che il criterio distintivo tra le condotte di furto con strappo e rapina risiede nella direzione della violenza, quale elemento dirimente, eliminando ogni dubbio nel merito.


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Francesco Castaldo

Classe 1995, laureato in Giurisprudenza presso l´Università degli Studi di Salerno con una tesi di ricerca in Diritto Processuale Penale dal titolo ”Le indagini della Polizia Penitenziaria tra prevenzione e repressione”, con votazione di 105/110. Ha conseguito il certificato di qualifica professionale in ”Forensic Examiner - Esperto di Sciente Forensi, Criminologia investigativa e Criminal Profiling” presso la CSI Academy Srl , nonché l'attestato di frequenza del Corso di Perfezionamento in diritto penale ”Giorgio Marinucci” - II Modulo , dal titolo ”Criminalità dei colletti bianchi e misure di prevenzione” presso l´Università degli Studi di Milano. Attualmente, è Praticante Avvocato e Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso la Procura della Repubblica di Avellino.

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