L’interpretazione del contratto: genealogia delle regole (Parte seconda)

L’interpretazione del contratto: genealogia delle regole (Parte seconda)

Sommario: 1. Il modello recepito dal codice civile del 1865: i criteri interpretativi come consigli – 2. L’impostazione gerarchica dei canoni ermeneutici – 3. Il codice civile del 1942. Tradizione e novità nell’interpretazione dei contratti

 

1. Il modello recepito dal codice civile del 1865: i criteri interpretativi come consigli

Il codice civile del 1865 contiene disposizioni in tema di interpretazione dei contratti quasi identiche a quelle del Code civil. Si tratta degli articoli che vanno dal 1131 al 1139. Vi è un’unica norma differente rispetto al modello francese, rappresentata dall’articolo di chiusura.

La disposizione di cui all’art. 1139 segnala, infatti, che “quando in un contratto si è espresso un caso affine di spiegare un patto, non si presume che siansi voluti escludere i casi non espressi, ai quali secondo ragione può estendersi lo stesso patto”. Il codice fa riferimento ad un patto che riguardi tutti i casi che secondo ragione possono rientrarvi. Il codice francese, invece, prevede al suo art. 1164 che i casi non espressamente richiamati rientrino “di diritto” nell’accordo. Si utilizza per la prima volta il concetto di ragione che viene sostituito a quello di diritto, migrando l’attenzione verso la materia e la finalità del contratto. Fatto sta che, per il resto, il paradigma ermeneutico utilizzato rimane ancora una volta quello rappresentato da Pothier.

Numerosi i commenti al Codice.

Jacopo Mattei è il primo ad esprimersi segnalando l’autosufficienza delle parole quando queste siano chiare. Nel caso in cui si manifesti un dubbio, invero, si dà il via libera all’apprezzamento da parte del giudice.

Nella sua opera [1], Mattei indica tre modi di praticare l’arte ermeneutica. Scrive, infatti, che “l’interpretazione è autentica, usuale o dottrinale”. È autentica nel caso in cui sono gli stessi contraenti a spiegare il contenuto non chiaro del patto mediante un accordo integrativo che si aggiunge a quello genetico. È usuale laddove vengano utilizzate parole o espressioni che nel linguaggio generalmente utilizzato in un paese hanno un determinato significato. È dottrinale allorquando per spiegare espressioni oscure o dubbie si ricerchi la vera intenzione delle parti, intenzione che andrà rinvenuta nelle parole, nella lingua, nelle circostanze e nei rapporti dei contraenti.

L’impostazione di Mattei non risolve ancora, tuttavia, un grande interrogativo: come si stabiliscono le condizioni per andare oltre le parole, senza un previo confronto tra il dato letterale dell’accordo e l’intenzione comune delle parti?
Prova a fornire una chiave risolutoria il giurista Giorgi, con la sua Teoria delle obbligazioni.[2] L’autore afferma che i canoni ermeneutici hanno valore dottrinale e rappresentano dei consigli da poter liberamente utilizzare. Sorge allora un dubbio: cosa può essere censurato col giudizio di cassazione nella concreta interpretazione di un contratto? Giorgi segnala due risposte: l’errore di diritto e il cd. travisamento. Nel primo caso, il giudice del merito ha sbagliato a qualificare un contratto; ad essere viziato è il ragionamento del giudicante. Nel secondo caso, il giudice procede ad interpretare il contratto, ricercandone la volontà, sebbene le parole siano assolutamente chiare.

Non si può non sottolineare che la teoria del travisamento è fallace. Infatti, l’interprete può affermare che un contratto sia dubbio o oscuro solo se guarda alla volontà delle parti che il contratto stesso esprime. Di qui il rifiuto della massima in claris non fit interpretatio. La volontà individuale andrà sempre presa in considerazione per la formazione del libero convincimento del giudice del merito.  

2. L’impostazione gerarchica dei canoni ermeneutici

Il primo commentatore al Codice del 1865 a mettere in discussione l’impostazione che concepiva i criteri ermeneutici come consigli è Giuseppe Messina. Con il suo saggio[3], Messina chiarisce che non può continuarsi a reputare i canoni interpretativi come regole psicologiche prive di forza cogente. E tale indirizzo, segnala, era già evidente nella giurisprudenza di fine Ottocento in virtù della quale ignorare o ricorrere a canoni ermeneutici contrari equivale a violare la legge.

La giurisprudenza di legittimità degli anni Trenta conferma tale indirizzo segnalando in primo luogo che “le norme dettate dal legislatore per la interpretazione dei contratti non sono solo norme teoriche, quasi consigli rivolti al giudice, ma sono vere e proprie norme giuridiche, la cui violazione è denunciabile in Cassazione[4]; e, in secondo luogo, che “nell’interpretazione dei contratti il giudice non può violare le disposizioni dettate dal codice civile negli articoli da 1131 a 1139”.[5]

A onor del vero, l’impostazione che influenzerà la giurisprudenza post anni Trenta e l’impianto codicistico del 1942 è quella di Cesare Grassetti. Il suo saggio, intitolato L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, edito nel 1938, disegna un quadro all’interno del quale è possibile osservare la corretta sistemazione delle regole interpretative, secondo uno schema gerarchico.[6]

Il primo gruppo di precetti (artt. 1131, 1136, 1138, 1139) è rappresentato da quelle disposizioni che dettano le regole per la ricerca concreta della volontà dei contraenti. Si tratta di una ricerca quale operazione necessaria anche quando le parole non sono oscure o ambigue. Si guarda all’intenzione comune dei contraenti (art. 1131); si analizzano le clausole, che andranno studiate nel loro complesso e non separatamente (art. 1136); si limita la portata delle espressioni contrattuali alle sole cose sulle quali le parti si siano prefissate di contrattare (art. 1138). Si presuppone, quindi, che con l’accordo le parti manifestino una volontà da indagare. Tali canoni sono equi-ordinati tra loro.
In via subordinata, nel caso in cui la manifestazione della volontà sia insufficiente, corre in aiuto un secondo gruppo di precetti. Questi si collocano in via sussidiaria a mano a mano che ampliano il potere dell’interprete di integrare il contratto. Si pensi, ad esempio, alla materia del contratto e agli usi praticati nel luogo ove si è perfezionato l’accordo. Tali canoni, gerarchicamente subordinati ai primi, entrano in gioco per fronteggiare il dubbio che ancora permane. Si prediligerà dapprima un canone che favorisca la conservazione del contratto (art. 1132: “Quando una clausola ammette due sensi, si deve intendere nel senso per cui può la medesima avere qualche effetto, piuttosto che in quello per cui non ne potrebbe avere”); poi si passerà all’esame degli usi (art. 1134: “Il patto ambiguo si interpreta secondo ciò che si pratica nel paese dove fu stipulato il contratto”); successivamente  si guarderà alla funzionalità del contratto (art. 1133: “Le parole che possono avere due sensi debbono essere intese nel senso più conveniente alla materia del contratto”); solo alla fine si prediligerà la regola del favor debitoris (art. 1137: “Nel dubbio il contratto si interpreta contro colui che ha stipulato, ed in favore di quello che ha contratto l’obbligazione”).

3. Il codice civile del 1942. Tradizione e novità nell’interpretazione dei contratti

Il codice civile del 1942 sembra ripercorrere il medesimo iter riflessivo proposto da Grassetti. Un primo gruppo di regole è infatti orientato all’esame del binomio parole-intenzione comune; un secondo gruppo di regole è invece orientato ad una attività di tipo integrativo.

La norma di apertura è l’art. 1362 in virtù del quale l’attività interpretativa deve indagare quale sia la comune intenzione delle parti, non limitandosi al senso letterale delle parole, valutando il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del contratto. La disposizione chiarisce che l’interprete deve rapportare le parole alla volontà: si tratta di due dati che vanno letti in modo indissolubile.

Peraltro, viene apportata una grande novità: per individuare la comune intenzione delle parti occorre guardare al contesto pratico entro cui il contratto di colloca. L’intenzione va al di là del dato letterale e va valutata prendendo in esame i comportamenti delle parti sia durante il procedimento contrattuale, sia nella fase successiva alla conclusione dell’accordo.

Questo è quanto sancito anche oggi dalle più recenti pronunce di legittimità[7].

Per completezza va comunque segnalato che l’impronta iniziale del dato letterale non va sottovalutata. Infatti, si è chiarito che la disposizione in esame “non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rilevi con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile”.[8]

L’art. 1363, invero, rompe definitivamente la visione atomistica dei criteri interpretativi. Si sancisce, infatti, che le clausole del contratto vanno lette le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’esame dell’intero atto. Addirittura, la Cassazione ha enucleato il principio di diritto alla luce del quale il dato letterale “deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, coordinando tra loro le singole clausole, giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone”.[9]

Il successivo art. 1364 non si distacca dall’impostazione dei codici dell’Ottocento quando prevede che per quanto siano generali le espressioni usate nel contratto, questo non comprende che le cose su cui le parti si sono prefissate di contrattare. Il risultato dell’applicazione di tale canone è il restringimento del senso del dato letterale.

All’inverso, l’art. 1365 si fa portavoce di un meccanismo di tipo estensivo. Quando, infatti, viene espressamente indicato dalle parti un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi tutti quei casi che, pur se non espressi, possono estendersi secondo ragione allo stesso patto. Nulla di nuovo rispetto a quanto enucleato dai codici ottocenteschi.

Una disposizione senza precedenti nel codice civile italiano del 1865 né nel Code Civil è invece l’art. 1366: “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”. La buona fede va intesa come lealtà, correttezza, solidarietà, equilibrio tra gli interessi in gioco. Tali principi rilevano sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali e sul piano del bilanciamento dei contrapposti interesse delle parti. In altre parole, il canone prevede che le parti adempiano ad obblighi pur non espressamente previsti dal patto, se ciò si rende necessario per preservare gli interessi della controparte; ed ancora, il giudice potrà intervenire in senso integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò occorra per garantire l’equo bilanciamento degli interessi delle parti. In questo senso si muove una pronuncia di legittimità del 2011 allorquando prevede che la buona fede e la correttezza integrino un generale principio di solidarietà che da un lato impone al soggetto contrattuale di mantenere un comportamento leale e, dall’altro, permette all’interprete di procedere ad una integrazione del patto.[10]

Non poteva mancare, inoltre, un espresso richiamo al tema del dubbio, dell’ambiguità, della molteplicità dei significati attribuibili alle clausole del contratto. Tre sono le norme che se ne occupano in via sussidiaria. In primo luogo, l’art. 1367 impone l’interpretazione di clausole dubbie nel senso in cui possono avere qualche effetto. In secondo luogo, l’art. 1368 impone l’interpretazione di clausole ambigue secondo gli usi praticati nel luogo ove si è concluso il contratto. In terzo luogo, l’art. 1369 impone che le espressioni con più sensi vengano lette nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto.

Altra novità dell’attuale codice è contenuta nella disposizione di cui all’art. 1370, in virtù del quale ove un contraente inserisca clausole in moduli, formulari o condizioni generali di contratto, qualora siano dubbie, vanno interpretate a favore dell’altra parte. Un chiaro esempio è cristallizzato nei contratti di assicurazione. Qualora, infatti, vi sia un dubbio sulle clausole di una polizza assicurativa che delimitino il rischio assicurato e che risultino inserite in condizioni generali o su moduli predisposti dall’assicuratore, queste vanno interpretate in senso sfavorevole all’assicuratore.[11]

Ed infine, anche la norma di chiusura del capo IV del codice civile sull’interpretazioni dei contratti rappresenta una novità senza precedenti. Si tratta dell’art. 1371, posto in via residuale rispetto ai criteri sinora delineati. Tale criterio viene utilizzato nei soli casi in cui pur avendo fatto leva sui canoni precedenti, rimanga un nodo, un dubbio da sciogliere in relazione al contratto stipulato. Occorrerà valutare, innanzitutto, se il contratto sia a titolo gratuito o a titolo oneroso. Nel primo caso, il patto verrà inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato; nel secondo caso, andrà interpretato in modo che si realizzi l’equo bilanciamento degli interessi in gioco delle parti.

Non si può non concludere segnalando che ad oggi è molto frequente che i giudici richiamino all’attenzione degli operatori del diritto uno schema di tipo gerarchico, prospettando un processo interpretativo secondo una sequenza di tempi e procedimenti separati. Pur tuttavia, nella realtà gli interpreti non fanno altro che compiere operazioni logiche sottratte al modo di pensare i contratti secondo un ordine prestabilito e piuttosto utilizzando un’interpretazione più libera e circolare delle convenzioni.[12]

 

 

 

 

 


[1] Cfr. J. Mattei, Il codice civile italiano nei singoli articoli, III, Venezia 1873.
[2] G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, IV, Fonti delle obbligazioni, Firenze 1879.
[3] G. Messina, L’interpretazione dei contratti, Macerata 1906.
[4] Cass. Civ. 12.2.1932, n. 510.
[5] Cass. Civ. 15.4.1932, n. 1342.
[6] C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova 1938.
[7] Cfr. Cass. Civ. 30.8.2019, n. 21840
[8] Cass. Civ. 22.8.2019, n. 21576.
[9] Cass. Civ. 14882/2018.
[10] Cfr. Cass. Civ. 23.5.2011, n. 11295.
[11] Cfr. Cass. Civ. 17020/2015.
[12] M. Brutti, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Giappichelli Editore, 2017.

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