L’istituto del distacco di personale tra imprese. Natura giuridica e fiscale

L’istituto del distacco di personale tra imprese. Natura giuridica e fiscale

Premessa

Il presente lavoro ha l’obiettivo di analizzare i presupposti giuridici e fiscali dell’istituto del distacco del personale tra imprese. La norma, contenuta nella c.d. “legge Biagi” è stata spesso utilizzata impropriamente, celando normali prestazioni di servizio (che invece attraverso il distacco di personale risultavano escluse dal campo IVA). Si farà cenno al termine del lavoro anche della depenalizzazione dei reati per abuso di somministrazione di lavoro e delle multe previste dalla vigente normativa.

Il Distacco di personale: natura giuridica

L’art. 30 del d.lgs. 276/2003, di attuazione della legge delega n. 30/2003 (c.d. “legge Biagi”) disciplina il fenomeno del distacco di lavoratori tra imprese recitando:

1) “L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.

2) In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore.

Il porre uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa, al fine di soddisfare un proprio interesse, significa, prima di tutto, che il datore di lavoro distaccante, pur rimanendo responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore, trasferisce il proprio potere organizzativo e direttivo sul prestatore in capo al distaccatario, ergo pone il lavoratore alle dipendenze e sotto la direzione di un altro datore di lavoro che, pertanto, riceve la prestazione utilizzando la risorsa lavorativa altrui come se fosse propria.

Secondo la giurisprudenza, in ipotesi di distacco del lavoratore presso altro datore di lavoro, mentre il beneficiario delle prestazioni lavorative dispone dei poteri funzionali all’inserimento del lavoratore distaccato nella propria struttura aziendale, permangono tra distaccante e lavoratore i vincoli obbligatori e di potere-soggezione, mantenendo il distaccante, uno su tutti, il potere di licenziare.

Ciò significa che il lavoratore distaccato, pur rimanendo formalmente dipendente dal datore distaccante, risulta, tuttavia, inserito funzionalmente nell’organizzazione distaccataria (legame organico), in quanto interamente organizzato e diretto da quest’ultima; tanto che, secondo la giurisprudenza, il terzo beneficiario del distacco, può stipulare condizioni diverse e più favorevoli con il lavoratore distaccato, talché si viene ad instaurare, accanto all’originario unico rapporto di impiego, un ulteriore rapporto collaterale ad esso collegato, che trae occasione dalle vicende relative al rapporto di distacco e che soggettivamente intercorre tra il terzo e il lavoratore distaccato.

Due sono però i limiti giustificanti la liceità del distacco: l’interesse del datore di lavoro distaccante e la temporaneità del distacco.

A questi due limiti deve aggiungersi (in base alle altre disposizioni scaturenti dai primi due commi dell’art. 30 e da altre disposizioni collegate e logicamente connesse e conseguenti), in presenza di particolari situazioni, il consenso del lavoratore distaccato: recita infatti il 3° comma dell’art. 30, che “Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato. Quando comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella in cui il lavoratore è adibito, può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”.

Ulteriore requisito previsto dai contratti di distacco del lavoratore è il permanere, in capo al datore di lavoro delegante quello di determinare la cessazione del distacco.

a) l’interesse del distaccante

Il primo limite alla stipulazione del distacco è costituito dall’interesse del distaccante. L’interesse in questione dovrà essere inerente l’esercizio dell’attività imprenditoriale propria del distaccante e, pertanto, coincidere con una qualsiasi motivazione tecnica, produttiva, ed organizzativa dello stesso, purché effettivamente esistente, lecita, rilevante e, comunque, sempre distinta dalla finalità direttamente lucrativa che caratterizza invece, la somministrazione professionale di manodopera.

Il distacco deve realizzare, dunque, uno specifico interesse che consenta di qualificarlo come atto organizzativo dell’impresa che lo dispone; solo in presenza di un simile requisito è, infatti, possibile riconoscere nell’operazione concretamente realizzata una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa capace di salvaguardarne la validità, In varie pronunce la Cassazione ha ritenuto il distacco legittimo, a condizione che le prestazioni del lavoratore distaccato siano dirette a realizzare un rilevante interesse del datore di lavoro distaccante, pur non dovendosi trattare necessariamente dell’attività principale dell’impresa, bensì anche di un’attività complementare o persino straordinaria.

L’assenza poi, nella lettera della legge, di una qualificazione dell’interesse in termini strettamente patrimoniali, sembra rendere ammissibile la coincidenza dell’interesse del distaccante anche con un’utilità di natura non economica, bensì morale, solidale, ecc., purché rispondente ad una precisa esigenza dello stesso.

In una sentenza di merito (Trib. Roma 21 novembre 2007) è stato ribadito che l’interesse del distaccante inerente l’esercizio della sua attività imprenditoriale, risulti: “specifico, rilevante, concreto e persistente”. Per la sussistenza di un interesse qualificato al distacco, il distaccante dovrà provare la pattuizione di un’attività lavorativa determinata: nell’oggetto, nella collocazione spaziale e, almeno tendenzialmente, nella durata, affidata al lavoratore distaccato.

b) La temporaneità

Il secondo limite è costituito dalla temporaneità del distacco. La giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che la destinazione del lavoratore presso l’azienda distaccataria debba avere una durata predeterminata, più o meno lunga, coincidente con quella dell’interesse del datore di lavoro a che il proprio dipendente svolga la prestazione lavorativa a favore del terzo.

La stessa Cassazione ha affermato che la durata del distacco, ancorché la temporaneità sia caratteristica essenziale di tale istituto, con il quale è incompatibile la definitività dell’applicazione del lavoratore al servizio di un terzo, può essere anche non predeterminata, dovendosi accertarla in relazione all’esistenza nel datore di lavoro distaccante di un interesse al distacco. Il distacco potrà durare finché durerà l’interesse del datore di lavoro allo svolgimento del lavoro da parte del prestatore presso il terzo. Non è quindi la durata limitata del distacco a determinare l’interesse, ma è il perdurare di quest’ultimo a condizionarne la temporaneità (temporaneità che non è necessariamente sinonimo di brevità, anzi la Cassazione prevede che possa coincidere per ipotesi anche con la cessazione del rapporto di lavoro).

Nonostante l’assenza di una espressa previsione normativa, in relazione al momento in cui il distacco inizia a produrre effetti, risulta necessario valutare l’opportunità di un sua formalizzazione per iscritto (contratto o documento di distacco). La forma scritta, pur non prevista come requisito di validità del distacco, appare, tuttavia utile non solo a giustificare la presenza del distaccato in azienda, ma altresì a determinare le condizioni e le modalità che regoleranno la svolgimento del rapporto e l’esecuzione della prestazione di lavoro durante il distacco.

c) Il consenso del lavoratore

Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 276/2003, il consenso del lavoratore al suo distacco presso il distaccatario era ritenuto totalmente irrilevante.

Attualmente l’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, prevede la possibilità che il consenso del lavoratore al distacco sia necessario solo se esso comporti un mutamento di mansioni: il vincolo rappresentato dal consenso del lavoratore, “vale a ratificare l’equivalenza delle mansioni nell’ipotesi in cui, pur in assenza di demansionamento, vi sia una specializzazione e/o una riduzione dell’attività svolta con riguardo al patrimonio professionale del lavoratore”. In tal senso dispone la Circolare Min. Lav. n. 3/2004. Ed è lo stesso Ministero del Lavoro che nel 2005 ha ribadito che il lavoratore può essere distaccato solo con mansioni equivalenti a quelle normalmente svolte precedentemente presso il distaccante e, soprattutto, previo suo consenso.

In base ai principi generali e per unanime interpretazione, il datore di lavoro presso il quale il lavoratore viene temporaneamente dislocato è il principale destinatario degli obblighi di cui all’art. 2087 cod. civ. Lo stesso d. lgs. n. 81/200 dispone che nel distacco “tutti gli obblighi di prevenzione e protezione” (a partire dalla specifica valutazione dei suoi rischi lavorativi e dall’individuazione delle misure che lo riguardano) “sono a carico del distaccatario, fatto salvo l’obbligo del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali viene distaccato”. Tuttavia si deve ritenere che egli resti responsabile, quanto meno a titolo di culpa in eligendo, qualora il destinatario della prestazione non sia fornito dei necessari requisiti tecnico-organizzativi di sicurezza e salute sul lavoro.

d) La determinazione della cessazione del distacco

Ulteriore requisito previsto dalla giurisprudenza di merito è il permanere, in capo al datore di lavoro delegante quello di determinare la cessazione del distacco (Cfr. Cass. Sez. I 2.1.1995 nr. 5; Cass. Sez. lav. 21.05.1998 nr. 5102; 25.11.2010 nr. 23933)

In forza dell’art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 276/2003, in caso di distacco, il datore di lavoro distaccante rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore distaccato, anche se si ritiene ammesso il rimborso da parte del distaccatario. In merito si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 1751 del 13 aprile 1989, affermando la non rilevanza della corresponsione del rimborso al fine della qualificazione del distacco come non genuino. Giova ricordare tuttavia che il rimborso non potrà però superare quanto effettivamente corrisposto al lavoratore dal datore di lavoro distaccante, come specificato anche dalla già citata Circolare ministeriale n. 3/2004.

Anche l’obbligo contributivo, così come l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, restano a carico del datore di lavoro distaccante, mentre i premi INAIL andranno calcolati sulla base dei premi e della tariffa applicati al distaccatario e non dal datore di lavoro distaccante.

Riassumendo quindi, affinché un rapporto di distacco sia valido e lecito ai sensi di legge secondo le previsioni specifiche di questo istituto (art. 30 D.Lgs. 276/03), è necessario dal punto di vista amministrativo che sussista un contratto di distacco (totale o parziale) dal quale risultino in modo esplicito le seguenti condizioni:

 un interesse del datore di lavoro, distaccante, a che il lavoratore presti la propria opera presso il soggetto distaccatario che non sia quello meramente riferibile alla prestazione stessa;

 la temporaneità, intesa non come brevità, ma come ” non definitività” della prestazione di lavoro presso il distaccatario,

 la titolarità in capo al distaccante del rapporto di lavoro, che permane quale obbligo retributivo e contributivo, benché il potere direttivo, di controllo e disciplinare passi al distaccatario.

Il ricorso all’istituto del distacco deve essere inoltre obbligatoriamente segnalato dal distaccante in via telematica al centro circoscrizionale per l’impiego, entro 5 gg dalla trasformazione del rapporto di lavoro, compilando il quadro/sezione “Trasformazione” del modello “Unificato Lav”, entro i 5 giorni successivi alla trasformazione del rapporto di lavoro. Con il D.lgs. 251/04, di correzione del D.lgs. 276/03, è stato introdotto il comma 4bis, che recita: “Quando il distacco avvenga in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo.”

Tutta la normativa sopra riportata afferisce l’ipotesi di distacco di lavoratore tra due imprese private. Infatti il D.Lgs. 276/2003 in attuazione della c.d. Legge Biagi, regolamenta e modifica forme contrattuali di lavoro previste dal codice civile[1], prevedendo nuove forme contrattuali (ad esempio co.co.pro. etc.) tipiche dei rapporti tra imprese private.

Distacco di personale tra Pubbliche amministrazioni

Ulteriori analisi in merito all’istituto del distacco di personale, va effettuata nell’ipotesi in cui in distaccatario ed il distaccante sono due Enti Pubblici, i cui contratti sono regolati dal Testo Unico del Pubblico Impiego (D.Lgs. 165/2001).

Notevole dottrina è giunta a conclusione che l’istituto del distacco tra due pubbliche amministrazioni è uno strumento di carattere eccezionale e dunque è illegittimo un utilizzo ampio e sistematico di tale istituto, in quanto comporterebbe violazione dell’art. 97 della Costituzione in violazione del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, atteso che esistono ulteriori istituti in materia di pubblico impiego a cui poter far riferimenti (ad esempio mobilità del personale).

Infatti, nel pubblico impiego il distacco, sebbene di natura temporanea come nel lavoro privato, a differenza di tale ultimo ambito, ove è un potere quasi “naturale” dell’imprenditore, ha natura eccezionale e, se disposto, deve essere rigorosamente motivato dalla P.A. distaccante.

Infatti il distacco di pubblici dipendenti va inteso come temporanea destinazione degli stessi a prestare la propria attività lavorativa presso un ente diverso da quello di provenienza, senza nascita di un nuovo rapporto con l’ente destinatario delle prestazioni, ma come mera modificazione oggettiva del rapporto originario. Tuttavia il distacco appare del tutto incompatibile con i principi vigenti nell’impiego pubblico, a loro volta risalenti ad ambiti costituzionali di tutela della spesa pubblica e di buon andamento e imparzialità, atteso che la detta misura, di natura eccezionale e temporanea, ci si pone in contrasto con molti dei cardini su cui poggia la specialità di tale attività lavorativa, da quello per l’assunzione per concorso alla responsabilità amministrativa per le spese sostenute.[2]

Per quanto sopra detto, il distacco del pubblico dipendente essendo istituto eccezionale che determina un mutamento della P.A. beneficiaria delle prestazioni lavorative, che è però amministrazione diversa da quella datrice di lavoro, necessita di una robusta e valida motivazione, in quanto lesivo della regola del concorso pubblico.

Appare, quindi, evidente che l’utilizzo, nel pubblico impiego, dell’istituto del distacco quale strumento ordinario di reclutamento e gestione del personale appare contrario alla ratio dell’istituto stesso e, quindi, illegittimo.

Distacco di personale tra Pubblica amministrazione e azienda partecipata

E’ legittimo allora chiedersi se il distacco di personale è configurabile tra una Pubblica Amministrazione e una società partecipata dalla stessa P.A.

La definizione della natura giuridica delle società partecipate, con particolare riguardo alle società in house providing, è stata per anni oggetto di diverse interpretazioni e, seppur il testo Unico sulle partecipate, entrò in vigore alla fine del mese di settembre scorso ha regolamentato meglio la materia, i dubbi sul corretto inquadramento di tali società non è, ad oggi, completamente superato.

Per stabilire la natura giuridica di ente di diritto pubblico o di diritto privato della società affidataria occorre fare riferimento, a prescindere dalla disciplina legislativa relativa alla modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici attraverso il modello del “in house providing”, a dati di fatto oggettivi, strutturali e funzionali, quale certamente il regime giuridico del rapporto di impiego dei dipendenti.

Il Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza 28 settembre 2015 n. 4510, prende così posizione nell’annoso e quotidiano dibattito, non solo giurisprudenziale, in merito alla disciplina e al funzionamento delle società in house di gestione dei servizi pubblici locali ed economici degli Enti Pubblici. Questa volta, però, il Collegio non si sofferma sui discussi requisiti del “controllo analogo” o della partecipazione dei privati alla compagine societaria, quanto piuttosto sulla configurabilità quale organo della Pubblica Amministrazione per il soggetto, formalmente costituito nella forma di società per azioni di diritto privato, per il solo fatto di essere affidatario della gestione di un servizio pubblico.

La sentenza in commento, risolve, in senso negativo per il ricorrente, la controversia concernente l’impugnazione della graduatoria e degli atti della commissione di un bando di concorso pubblico, per soli titoli, per la copertura del posto di segretario generale in una autorità di bacino regionale della Campania.

Il ricorso lamentava l’erronea attribuzione, nella valutazione dei titoli posseduti dai candidati da parte della Commissione, del punteggio per una precedente esperienza lavorativa dirigenziale presso una Spa di gestione di servizi in house, ritenuta quale esperienza amministrativa o tecnica con responsabilità apicale presso “società private”, cui il bando riconosceva un punteggio inferiore rispetto alle esperienze maturate presso Enti o Aziende Pubbliche o presso altre strutture pubbliche.

L’erronea valutazione dei titoli, ad avviso del ricorrente, non avrebbe tenuto conto che la società in house, presso cui era stato impiegato, nata dalla trasformazione in società di capitali di un Consorzio di Comuni, sottoposta ai controlli della Ragioneria Generale dello Stato e alla giurisdizione contabile, avrebbe quindi natura giuridica di diritto pubblico, quale articolazione della Pubblica Amministrazione, inquadrando come rapporto di servizio il legame tra i dirigenti e gli enti locali interessati.

Ebbene, nel caso deciso, il Consiglio di Stato ha fermamente negato la natura pubblica della Spa, sebbene esercente in house un servizio pubblico, ritenendola in ogni caso sottoposta al regime di diritto privato, in quanto le nozioni di organismo di diritto pubblico e di impresa pubblica di cui al Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163 sono dirette esclusivamente a circoscrivere l’ambito di applicazione della medesima disciplina in tema di appalti pubblici, nonostante la natura formalmente privata degli enti interessati, in ragione dell’influenza proprietaria e del controllo su di essi esercitato da uno o più soggetti pubblici. La normativa comunitaria, da cui discende l’ordinamento interno del fenomeno del in house providing, lascia ampia discrezionalità in sede di recepimento in merito alla natura pubblica o privata del soggetto affidatario, concentrandosi sulle modalità di gestione e organizzazione degli affidamenti diretti di lavori, servizi e beni alla luce dei principi di non discriminazione, pari trattamento e trasparenza che stanno alla base dell’esenzione dalla sottoposizione alla generale normativa sugli appalti e le gare pubbliche.

Tale interpretazione risulta avvalorata, inoltre, dalla Direttiva 2014/24/UE, sulla cui applicabilità “self executing” si è tanto discusso, in attesa del pieno recepimento, che esclude dal proprio ambito applicativo, laddove si verta in tema di appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico, nel rispetto delle condizioni da essa stessa stabilite, a prescindere che l’affidamento in house sia aggiudicato da “un’amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”.

Richiamando la precedente pronuncia del Consiglio di Stato, sezione VI, Sentenza 26 maggio 2015, n. 2660, nel caso in esame il Collegio ribadisce che “non può ritenersi, in altri termini, che il riconoscimento ad un determinato soggetto della natura pubblicistica a certi fini, ne implichi automaticamente e in maniera immutevole la integrale sottoposizione alla disciplina valevole in generale per la pubblica amministrazione.” Pertanto, proseguono i giudici di Palazzo Spada, atteso che l’affidamento in house risulta indifferente alla natura giuridica pubblica o privata del soggetto affidatario, alla luce della corretta interpretazione del diritto interno, per determinare il regime di diritto pubblico o privato di una società affidataria del servizio pubblico svolto in precedenza da un Consorzio dei Comuni, occorre fare riferimento agli elementi strutturali, sostanziali e funzionali, quali certamente sono il regime giuridico che conforma l’attività degli organi societari, gli atti adottati e, come nel caso deciso, il rapporto di impiego con i dipendenti.

Così argomentando, la Corte, confermando la pronuncia del Tar di primo grado, ha respinto il ricorso, facendo discendere la natura di società di diritto privato per la Spa in house, dal fatto che il rapporto d’impiego intrattenuto col ricorrente non era soggetto alle regole di cui al Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante le “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, bensì interamente assoggettato al diritto del lavoro privato.

La giurisprudenza sopra cita propende nel considerare le società in house (ossia quelle completamente detenute dalla P.A.) quale soggetto di diritto privato.

Tornando al distacco di personale, se la dottrina ritiene illegittimo l’utilizzo dell’istituto del distacco tra due pubbliche amministrazioni, seppur entrambe soggette a quanto previsto dal testo unico del Pubblico Impiego, in quanto tale istituto può risultare in contrasto con i principi del pubblico concorso e del contenimento della spesa pubblica, nonché in generale con l’imparzialità ed il buon andamento della P.A., è, a maggior ragione illegittimo l’istituto del distacco tra una società privata, seppur in house, e una pubblica amministrazione.

A tal proposito basta pensare che, seppur la società in house è soggetta al c.d. controllo analogo, il personale alle dipendenze di tali società vengono assunti con contratti privatistici e spesso, senza le procedure concorsuali previste per il pubblico impiego.

Orbene, come è possibile che questo personale di una società soggetta al diritto privato possa essere distaccato presso un Ente pubblico e stare sotto le direttive di una Pubblica Amministrazione dove si applicano le norme del Testo Unico del Pubblico impiego? Come è possibile per una pubblica amministrazione applicare il potere direttivo e disciplinare previsto per il pubblico impiego a dipendenti privati?

Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto, a parere degli scriventi, lo strumento del distacco del personale non può essere utilizzato tra una società privata, seppur partecipata dalla P.A. e una società pubblica.

Il Distacco di personale: natura fiscale

I prestiti o i distacchi di personale dipendente ricadono nell’esclusione dal computo della base imponibile I.V.A., ai sensi dell’art.15, comma 1, n.3 del DPR 633/72, purché l’impresa beneficiaria ne corrisponda il solo costo di tale utilizzazione, vale a dire la retribuzione, gli oneri fiscali e previdenziali, nonché le spese sostenute dai dipendenti.

La norma in questione, infatti, stabilisce che non concorrono a formare la base imponibile le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate.

E’ pacifico che per “regolarmente documentate” devono intendersi quelle risultanti da documenti intestati al committente del servizio al quale vengono poi rimessi per il conseguente rimborso dal prestatore del servizio stesso.

Condizione necessaria affinché si configuri l’istituto dell’anticipazione di somme in nome e per conto di altro soggetto, occorre che colui che sopporta materialmente la spesa agisca “in nome e per conto” e quindi in sostituzione del committente che originariamente vi sarebbe tenuto, il quale provvederà successivamente al rimborso.

Il legislatore, in ogni modo, è già intervenuto a dirimere la questione, con l’art.8, comma 35 della Legge 11.03.1988, n.67, pubblicata sulla G.U.R.I. n. 61 del 14.3.1988, affermando che il rimborso del solo costo del prestito o distacco di personale dipendente non rileva ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.

E’ pur vero che a poca distanza dalla nascita del decreto I.V.A., l’Amministrazione Finanziaria si era già pronunciata in merito con la Ris. Min. n.502712 del 5.7.1973, dove si affermava un principio importante: le somme pagate dalla società utilizzatrice del personale prestato, rappresentano un mero rimborso delle spese di lavoro subordinato sostenute dalla società che ha prestato lo stesso poiché non sono poste in essere “verso corrispettivo” e pertanto fuori dall’ambito dell’art.3 del DPR 633/72 (in tal senso anche Ris. Min. 30.1.1974, n.500091 e Ris. Min. 6.2.1974, n.505366). Si tenga presente che nella locuzione “spese di lavoro subordinato” rientrano oltre alla retribuzione anche gli oneri previdenziali ed assistenziali. La risoluzione di cui sopra faceva riferimento a distacchi tra società collegate e pertanto limitava la portata della stessa. Infatti, la stessa Amministrazione, nemmeno a distanza di un anno, con la Ris. Min. n.500160 del 19.02.1974, nel ribadire la linea interpretativa della precedente, ne ampliava il contenuto estendendolo ai casi in cui tra le parti dell’operazione non esistesse alcun collegamento di natura organica o finanziaria.

Qualora, invece, le spese del costo del lavoro dipendente siano maggiorate, a qualunque titolo, ne consegue che l’intero importo è rilevante ai fini I.V.A., ai sensi del disposto congiunto degli artt. 1 e 3 del DPR 633/72.

Questa interpretazione, delineata con la Ris. Min. 411847 del 20.03.1981 appare chiara: se oltre al solo costo complessivo del lavoro si aggiunge una qualsiasi maggiorazione, allora l’operazione è da intendere totalmente prestazione di servizio verso corrispettivo e come tale soggetta ad I.V.A.

Da ultimo, con la Ris. Min. n.152 del 5.6.1995, ripresa nella risoluzione n.346/2002, si aggiunge un ulteriore tassello che dirada dubbi e perplessità: ai fini della disciplina agevolativa, cioè l’esclusione dalla base imponibile I.V.A. del solo costo del personale prestato e/o distaccato, è condizione necessaria che lo stesso sia legato da rapporto di lavoro dipendente con il soggetto che lo ha temporaneamente distaccato. In assenza di questo fondamentale requisito, le somme corrisposte sono soggette ad I.V.A., ex. art.3 DPR 633/72, dovendosi ritenere esistente il requisito della corrispettività anche se l’importo pagato è pari al solo costo del personale distaccato.

Di quanto è stato precedentemente illustrato ne è stata investita anche la Suprema Corte di Cassazione con la Sen. N. 1788 del 6.3.1996, la quale nel ribadire l’orientamento delle precedenti risoluzioni ministeriali, vale a dire l’esclusione Iva del rimborso del solo costo del lavoro dipendente, ha ulteriormente sancito che la nozione di prestito di personale non è limitata al caso del distacco di poche unità.

Ma, invero, non sono pochi i procedimenti pendenti presso le Commissioni Tributarie che hanno per oggetto questo aspetto; e non poche sono le decisioni assunte dai collegi giudicanti che hanno dato una diversa interpretazione rispetto all’orientamento ministeriale. Valga per tutte la Decisione della Commissione Tributaria Centrale – sez. XV – n.13 del 4.1.1996, nella quale si afferma che al fine di escludere che il cosiddetto prestito di mano d’opera abbia dato luogo ad operazioni imponibili, occorre confrontare il costo realmente rimborsato e la spesa sostenuta per il personale impiegato, indipendentemente dalle tariffe in vigore in una determinata provincia a nulla rilevando lievi maggiorazioni del costo sostenuto, dovute ad oneri indiretti, quali aumenti di contingenza, rivalutazioni delle indennità di fine rapporto e simili.

Pertanto, alla luce delle norme illustrate, il distacco e/o il prestito di personale è escluso dal computo della base imponibile I.V.A. ex art.15, comma 1, n.3 solo se sussistono contemporaneamente le seguenti condizioni:

– le somme pagate siano effettivamente commisurate al costo del lavoro;

– il personale coinvolto sia legato al soggetto prestatore da un rapporto di lavoro dipendente.

Le ipotesi sopra descritte non vanno confuse con la disciplina del lavoro interinale di cui all’art.7 della Legge 13.5.1999, n.133, la quale statuisce che non sono compresi nella base imponibile Iva, di cui all’art.13 Dpr 633/72, i rimborsi di oneri retributivi e previdenziali, ad eccezione del contributo obbligatorio per la formazione professionale di cui all’art.5, c.1 L.196/97, che il soggetto utilizzatore di lavoratori temporanei è tenuto a corrispondere all’impresa fornitrice degli stessi, da quest’ultima effettivamente sostenuti in favore del lavoratore. E’, ovviamente, imponibile ai fini Iva, il compenso vero e proprio che spetta alla società fornitrice dei lavoratori temporanei.

Si precisa che qualora non siano soddisfatte le precedenti condizioni, si renderà applicabile la sanzione amministrativa di cui all’art.6, comma 1 del Dlgs 471/97, che prevede la sanzione dal 100% al 200% dell’imposta relativa, e che la stessa, ai sensi del disposto del successivo comma 4 non può essere inferiore al milione di lire (€ 516,45), fermo restando il pagamento del tributo.

Resta impregiudicata la possibilità di avvalersi dell’istituto del ravvedimento operoso previsto dall’art.13 del Dlgs 472/97, qualora la violazione non sia già stata constatata (ad esempio con processo verbale di constatazione notificato alle parti) oppure abbiano avuto inizio accessi, ispezioni o verifiche, ex art.52 Dpr 633/72, o in ultima analisi non siano poste in essere altre attività amministrative di cui l’autore, o il soggetto solidamente obbligato, ne abbia conoscenza formale ( si pensi agli inviti, questionari ex art. 52 decreto Iva).

Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza di legittimità si è occupata più volte del trattamento ai fini Iva del distacco di personale. In particolare, la sentenza della Corte di Cassazione del 7.11.2011, n. 23021, ha rimesso in discussione il trattamento Iva delle somme erogate a fronte di prestiti o distacchi del personale, stabilendo che laddove il corrispettivo erogato dall’impresa distaccataria nei confronti dell’impresa distaccante non corrisponda al mero rimborso del costo del lavoro, l’operazione si deve considerare per intero rilevante ai fini Iva. Si ricorda che l’art. 8, co. 35, della Legge 11.3.1988, n. 67, con norma di interpretazione autentica, stabilisce che “non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo”.

La stessa Agenzia delle Entrate, chiamata più volte ad esprimersi sulla materia, è oscillata nel tempo assumendo diverse posizioni, e da ultimo stabilendo, con la R.M. 5.8.2002, n. 346/E, che considerata l’irrilevanza Iva nel solo caso di “ribaltamento” del mero costo del lavoro, ai sensi della Legge n. 67/1988, l’operazione deve qualificarsi come rilevante ai fini Iva (ed imponibile) nel caso in cui siano rimborsate somme superiori od anche inferiori. Secondo la citata sentenza n. 23021 del 7.11.2011, l’art. 8, co. 35, della Legge n. 67/1988 introduce un’eccezione al regime ordinario dell’Iva, prevedendo che il distacco del personale, pur integrando in astratto una prestazione di servizi soggetta ad Iva, non può essere considerato tale “nel caso in cui il beneficiario rimborsi al concedente il solo costo del personale utilizzato. Tale rimborso deve essere, però, esattamente uguale alle retribuzioni ed agli altri oneri perché ciò che occorre ai fini della irrilevanza è, come riconosciuto dalla dottrina e dall’Amministrazione finanziaria, che si tratti di una operazione sostanzialmente neutra, ovverosia di una vicenda che non comporti un guadagno per il distaccante, ma nemmeno un risparmio per il distaccatario, visto che, in caso contrario, non vi sarebbe ragione di riservarle un trattamento diverso dal normale”.

A tale proposito, la conclusione cui è pervenuta la Cassazione nella precedente sentenza n. 19129/2010 non sembra convincente né per quanto riguarda l’ipotesi della non rilevanza ai fini Iva del rimborso inferiore al costo del personale sostenuto, né per l’ipotesi di rimborso superiore al costo sostenuto. E proprio in tale ultima ipotesi, si legge nella sentenza, si “giunge addirittura a scomporre artificiosamente la controprestazione del distaccatario, attribuendole due diverse funzioni e nature malgrado l’indubbia unitarietà economica e funzionale del servizio. Certamente, nulla avrebbe impedito al legislatore del 1988 d’introdurre una sorta di franchigia, prevedendo in ogni caso l’inapplicabilità dell’imposta per le somme corrispondenti ai costi”. La conclusione di assoggettare ad imposta l’intero corrispettivo attribuito al distaccante, nell’ipotesi in cui lo stesso sia differente al mero ristoro del costo del lavoro, è confermato dall’introduzione successiva della disciplina dei contratti di lavoro temporaneo (c.d. lavoro “interinale”), ad opera della Legge n. 196/1997. Secondo quanto stabilito dall’art. 26-bis della predetta legge, sono esclusi dalla base imponibile Iva i rimborsi degli oneri retributivi e previdenziali che il soggetto utilizzatore deve rifondere alla società di lavoro temporaneo. Secondo la Cassazione, “il legislatore ha da un lato smentito l’ipotesi della identità fra il trattamento Iva dei distacchi di personale e quello dei contratti di somministrazione di lavoro e, dall’altro, chiarito che la diversa regola per questi valevole non era più fondata sull’irrilevanza dell’operazione, ma sulla esenzione sempre e comunque dei rimborsi che, pertanto, non dovevano scontare l’imposta nemmeno nel caso in cui il corrispettivo globale avesse superato l’ammontare dei costi dei lavoratori”. In altre parole, secondo quanto si legge nella sentenza in   commento, secondo la Cassazione, laddove il legislatore ha voluto escludere l’imponibilità del rimborso del costo del lavoro lo ha fatto espressamente, e ciò costituisce conferma dell’impossibilità di leggere allo stesso modo l’art. 8, co. 35, della Legge n. 67/1988, in materia di distacco del personale, “che proprio per la sua differente formulazione impone invece di distinguere le due diverse fattispecie”, ossia:

    • irrilevanza ai fini Iva dell’operazione, se e solamente se il rimborso erogato dal soggetto distaccatario corrisponde al costo del lavoro sostenuto dall’impresa distaccante;

    • rilevanza ai fini Iva dell’operazione, se l’importo del corrispettivo erogato dall’impresa distaccataria è differente (perché superiore o inferiore) al costo del lavoro sostenuto dall’impresa distaccante.

ConclusioniCome è possibile rilevare nel presente lavoro la normativa giuridica in materia di distacco di personale prevede requisiti stringenti che avevano l’obiettivo di evitare “abusi” di tale strumento. In particolare questo strumento doveva essere adottato principalmente in ipotesi di sub appalto, dove la società subappaltante poteva distaccare alcune specifiche figure professionali che avevano specifiche competenze per poter realizzare le opere subappaltate. Infatti l’aver previsto che l’importo corrisposto tra impresa distaccante e impresa distaccataria deve coincidere perfettamente con il costo del personale distaccato (non può essere né maggiore, ma nemmeno minore) è un evidente limite posto in essere proprio per evitare ogni forma di abuso. Tra le modifiche meno note introdotte con il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 in attuazione della legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act) vi è l’abrogazione degli artt. dal 20 al 28 del D.lgs. 276/2003 riguardanti la “somministrazione di lavoro”. La disciplina di questo istituto viene ora ridisegnata parzialmente dal capo IV del medesimo D.lgs. 81/2015 che salva però in gran parte la disciplina sanzionatoria delineata dall’art. 18 del Dlgs. 276/2003. Tale ultimo articolo puniva, e punisce tutt’ora, con la sanzione penale dell’ammenda l’esercizio non autorizzato della attività di somministrazione di lavoro (reato chiamato dalla prassi e dalla dottrina “somministrazione abusiva”) ed il corrispondente utilizzo di lavoratori somministrati da soggetti non autorizzati (c.d. reato di utilizzazione illecita). Ma la previsione del più grave reato di “somministrazione fraudolenta”, ovvero quella posta in essere con la specifica finalità di eludere le norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, era contenuta nell’art. 28, ora abrogato. Tale abrogazione avrà importanti effetti in primo luogo sui procedimenti penali in corso, sia che si considerino i reati contavvenzionali sopra accennati come reati distinti, sia che si ritenga il secondo (la somministrazione fraudolenta) solamente una forma aggravata del primo.

L’attuazione del Jobs act, con il nuovo codice de i contratti contenuto nel Dlgs 81/2015, ha reso più flessibile l’uso del lavoro in somministrazione. Le aziende devono prestare particolare attenzione, però, al rispetto delle regole e delle procedure, soprattutto in seguito alla depenalizzazione di una serie di reati disposta dal Dlgs 8/2016: dallo scorso 6 febbraio 2016, infatti, per alcune condotte che prima erano considerate reato è applicata la sanzione amministrativa può raggiungere importi piuttosto elevati. Il quadro sanzionatorio oggi si presenta suddiviso tra due normative:

Si segnala, solo per completezza di lavoro, che dietro operazioni improprie di distacco di personale si possono celare abusive somministrazioni di lavoro interinale che, fino all’anno scorso erano sanzionate penalmente, successivamente depenalizzate con ne modifiche apportate con il D.Lgs. 81/2015.

La natura di operazione esclusa ai fini IVA, ha, invece, molto spesso fatto abusare di questo strumento per celare prestazioni di servizio. Per tale ragione la Agenzia delle Entrate ha imposto parametri ancor più restrittivi nel riconoscere, ai fini IVA, tali operazioni.

  • L’articolo 40 del Dlgs 81/2015 sulla somministrazione irregolare;

  • l’articolo 18 del Dlgs 276/2003 che sanziona, quali fenomeni più rilevanti nella pratica, la somministrazione abusiva e la conseguente utilizzazione illecita,gli appalti e i distacchi illeciti

Per la somministrazione irregolare, il Dlgs 81/2015 prevede una sanzione compresa tra 250 e 1.250 euro in relazione a una serie di violazioni di carattere formale diversamente modulate per l’utilizzatore o per l’agenzia di somministrazione. In pratica, il legislatore ha previsto la sanzione in capo all’utilizzatore per il superamento del limite del 20% (o il diverso limite previsto dai Ccnl) di utilizzo di lavoratori somministrati sulla base di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato.

Inoltre, se il contratto commerciale è a tempo determinato, l’articolo 31, comma 2, prevede la possibilità di ricorrere alla somministrazione sulla base dei soli limiti stabiliti dal Ccnl, o, addirittura, senza limiti, nel caso di assunzione di lavoratori appartenenti alle categorie svantaggiate stabilite dalla norma. In questi casi, all’illecito si può aggiunge la possibilità data al lavoratore di chiedere in giudizio la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore. Questa ipotesi è invece esclusa in caso di violazione del contingentamento sui contratti a termine (articolo 23, comma 4, Dlgs 81/2015). Se poi i lavoratori sono stati assunti dal somministratore a tempo indeterminato, la missione dovrà avvenire con contratto a tempo indeterminato, soprattutto nel caso di apprendisti (articoli 31 e 42, comma 7). Una sanzione a totale carico dell’utilizzatore, che dovrà indurre le aziende a verificare attentamente il contratto commerciale con l’agenzia.

In definita, l’analisi del distacco del personale, i limiti eccessivamente flebili tra tale strumento e quello della somministrazione di lavoro, le forme di abuso di tali strumenti e i benefici ai fini delle imposte indirette che ne derivano, necessitano, a parere degli scriventi, un nuovo intervento legislativo che intervenga per poter ridurre i margini di discrezionalità di uso di tali strumenti.


[1] Il decreto legislativo n. 276/2003, estende ad esempio notevolmente la definizione di trasferimento di ramo d’azienda all’art. 2112 del codice civile italiano, non creando nuovi ambiti di possibile applicazione, ma includendovi operazioni già previste dalle normative, per le quali non esistevano gli stessi diritti e tutele. Inoltre, la norma introduce accanto al co.co.co la nuova fattispecie del co.co.pro. Altre tipologie vanno dalla somministrazione all’apprendistato, al contratto di lavoro ripartito, al contratto di lavoro intermittente, o al lavoro accessorio e al lavoro occasionale, nonché il contratto a progetto; ha disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l’istituto del lavoro temporaneo o interinale, ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro fra domanda e offerta di lavoro

[2] Vedasi  TAR Campania Napoli, Sez. V, Sentenza nr. 18508 del 07/12/2004


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