L’obbligo di mantenimento a favore dei figli maggiorenni

L’obbligo di mantenimento a favore dei figli maggiorenni

L’obbligo di mantenimento nei confronti della prole maggiorenne. Cenni generali.

Come noto, su entrambi i genitori grava l’obbligo di istruire, mantenere ed educare i figli; ciò affonda le proprie radici nella nostra Costituzione, nonché negli articoli 147 e 148 del codice civile, che impongono ai genitori di profondere tale dovere nel rispetto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei figli.

Infatti, l’obbligo in parole discende e deriva sic et simpliciter dall’avere procreato, a prescindere dalla situazione giuridica relativa al rapporti tra i genitori ovvero alla tipologia di affidamento nel concreto adottata.

Tale dovere grava, inoltre e come anzidetto, in capo ad entrambi i genitori, i quali sono tenuti a partecipare, in proporzione ciascuno alle proprie sostanze reddituali e capacità patrimoniali, al mantenimento dei discendenti; al riguardo, è appena il caso di precisare che tale assunto assume valenza anche per i coloro che sono nati al di fuori del matrimonio, stante l’unificazione della status di figlio recentemente avvenuta.

Altrettanto pacifico è che il succitato obbligo di mantenimento non venga meno per il sol fatto del raggiungimento della maggiore età della prole, dovendo proseguire sino alla declaratoria dell’indipendenza economica del figlio, la cui dimostrazione grava sull’obbligato.

E’ evidente come tale obbligazione abbia dei risvolti pratici nelle situazioni patologiche del rapporto tra coniugi ovvero conviventi, ossia in caso di separazione, divorzio, ovvero regolamentazione dei rapporti con i figli nati fuori dal matrimonio: i figli, anche ultramaggiorenni e sino all’indipendenza economica degli stessi, hanno diritto ad ottenere un mantenimento tale da garantire loro lo stesso tenore di vita goduto in costanza di convivenza con i genitori, tenuto conto dei tempi di permanenza presso ciascuno di essi, alle loro risorse economiche, nonché alle loro esigenze attuali.

La pietra miliare in materia: l’indipendenza economica ovvero la mancata indipendenza dovuta all’inerzia del figlio maggiorenne. Un’analisi giurisprudenziale.

Il concetto di indipendenza economica, relativo alla prole, non trova una definizione normativa, essendo nozione definita nel contenuto e nei contorni dalla giurisprudenza.

Al riguardo, anzitutto, non ci si può esimere dal sottolineare che il raggiungimento dell’autosufficienza economica -ed il relativo accertamento da parte del Giudicante- muti a seconda della singola fattispecie concreta, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, al percorso scolastico, universitario e post-universitario del figlio maggiorenne ‘protagonista’ del singolo caso al vaglio del Giudicante, tenuto conto altresì della particolarità che contraddistinguono l’odierno mercato del lavoro.

In particolare, il genitore non convivente che vuole vedersi rimuovere ovvero ridurre il contributo al mantenimento del figlio maggiorenne, dovrà fornire la prova che lo stesso sia autosufficiente, sia in grado, in altri termini, di mantenersi da sé.

Alla luce delle più rilevanti pronunzie giurisprudenziali sul punto, vale la pena di chiarire che non ogni attività lavorativa postula l’indipendenza economica del maggiorenne.

Ad esempio, non è sufficiente ad esonerare il genitore non convivente dall’obbligo di mantenimento l’offerta di una qualsiasi occupazione, eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo invece essa risultare del tutto idonea rispetto alle concrete aspettative del giovane (tra le tante, la pur risalente sentenza Cass. Civ. sentenza n. 4616, del 07.05.1998, in cui la Corte si è occupata del figlio ventenne di genitori separati che aveva, legittimamente, rifiutato un ingaggio per un anno, per la somma di ottocentomila lire mensili, ricevuto da una società di pallacanestro, per non volere sacrificare un anno scolastico).

Non è dunque sufficiente l’offerta di qualsiasi impiego, ancorché precario e saltuario (si pensi, agli studenti universitari che svolgono attività di ripetizioni, aiuto compiti, baby sitting), a recidere l’obbligo in parola e ciò è evidente e legittimo se si considera che in questi casi non si può ritenere raggiunta l’autosufficienza economica, anche nelle attuali condizioni di mercato, ove, come noto, non si può sperare di svolgere esattamente il lavoro per cui si è studiato.

E’ evidente, come anzidetto, che tali principi si debbano adattare alle singole e svariate fattispecie di attività lavorativa cui è costellato l’attuale mercato del lavoro, nonché, ancora una volta, alle peculiarità del caso concreto che i Giudicanti si trovano a dirimere.

Ad esempio, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che laddove il figlio ottenga una serie di “contratti a termine e guadagni contenuti” possa dirsi raggiunta la sua autosufficienza economica (Cass. Civ. sentenza n. 13354 del 26.05.2017).

Diversa (parzialmente) la sorte in caso di contratto di apprendistato secondo quanto ha statuito il Tribunale di Genova, nella recente pronunzia numero 2322, del 25 giugno 2014, che ha sensibilmente ridotto il contributo al mantenimento in capo al padre nei confronti del figlio maggiorenne, assunto quale apprendista carpentiere (con retribuzione di circa euro 700,00 mensili), non ritenendo giusto però “elidere totalmente il mantenimento, in ragione della tuttora sussistente incertezza in ordine allo sbocco lavorativo successivo al termine del periodo di apprendistato”. In tema di contratto di apprendistato, si legga anche la più risalente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, numero 407, del 13.01.2007, in cui i Giudici di legittimità precisano che la mera prestazione di lavoro da parte del figlio occupato come apprendista non è di per sé tale da dimostrarne la totale autosufficienza economica, “atteso che il complessivo contenuto dello speciale rapporto di apprendistato….si distingue sotto vari profili, anche retributivi, da quello degli ordinari rapporti di lavoro subordinato”.

Il quadro ut supra dipinto non vale a significare che il genitore non convivente sia tenuto a contribuire al mantenimento del maggiorenne sine die, venendo meno l’obbligazione in parola in determinate ipotesi -che naturalmente, sono sottoposte all’onere di scrupolosa prova da parte dell’obbligato- ed, in particolare: a) laddove il figlio tenga una condotta colpevole e negligente tesa al rifiuto di ogni possibilità lavorativa confacente alle sue condizioni sociali ovvero aspirazioni; b) qualora il mancato inserimento nel mondo del lavoro dipenda da un atteggiamento di inerzia del figlio che non si attivi onde conseguire un titolo di studio ovvero rifiuti immotivatamente ogni offerta lavorativa, anche confacente alla propria professionalità; c) qualora il figlio abbia raggiunto un’età anagrafica tale da fare presumere la sua capacità a provvedere al proprio sostentamento.

Sul punto, la Corte di Cassazione, in più occasioni, ha precisato che “deve escludersi che siano ravvisabili profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini e i suoi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate” (ex multis: Cass. Civ. sentenza numero 24018, del 24.09.2008).

Ed ancora, sempre volendo proseguire nell’analisi della giurisprudenza in materia, si segnala un’interessante pronuncia che affronta il tema -tutt’altro che remoto nella pratica quotidiana- della eventuale ‘reviviscenza’ del contributo al mantenimento, una volta venuto meno: infatti, chiarisce la Corte, se il mantenimento del maggiorenne debba escludersi laddove lo stesso abbia iniziato a svolgere attività lavorativa, conseguentemente non possono neppure rilevare circostanze sopravvenute che hanno l’effetto di rendere lo stesso temporaneamente privo di sostentamento economico, sorgendo, tutt’al più, un dovere alimentare in capo al genitore, basato però su presupposti differenti (Cass. Civ. ordinanza numero 1585, del 27 gennaio 2014).

Infatti, per costante e granitica giurisprudenza, l’obbligo di contribuire al mantenimento del maggiorenne viene meno in caso di dimostrazione che il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica sia invero causato da negligenza o dipenda da inerzia imputabile al figlio: anche su questo terreno e cioè in ordine alla valutazione dell’eventuale condotta colposa del beneficiario si riscontrano pronunzie contrastanti, in dipendenza del necessario criterio di relatività che deve muovere il Giudicante nell’accertamento concreto.

Al riguardo, eloquente la pronuncia della Corte di Cassazione, del 30 marzo 2017, numero 19606, in cui (nel caso trattato, la figlia maggiorenne aveva iniziato e non concluso uno stage all’estero e basandosi su tale assunto il padre aveva domandato al Tribunale di ridurre il contributo) i Giudici hanno rilevato che: “anche a volere dare per accertato che la ragazza abbia posto in essere la condotta che qui viene contestata, la soluzione non sarebbe più favorevole alle tesi del ricorrente, tenuto conto da una parte, della temporaneità della prestazione lavorativa, rifiutata o non completata, e dall’altra della buona volontà mostrata dalla ragazza, che, come accertato dalla Corte territoriale, effettuato occasionali prestazioni lavorative”.

Contrariamente al caso appena sopra riportato, si segnala, ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione, numero 1858, del 2016, in cui i Giudici di legittimità accoglievano la domanda di modifica del contributo avanzata dal genitore obbligato nei confronti di due figli maggiorenni, entrambi studenti universitari da anni ed entrambi con all’attivo un numero scarso di esami sostenuti.

Di respiro diametralmente opposto -sintomo, questo, si ritiene, di quel criterio di relatività che regola l’accertamento giudiziale nella materia in parola- il provvedimento della Corte d’Appello di Trieste, del 3 maggio 2017, con cui si riconosce, nel momento economico in cui viviamo (si trattava, nel concreto, di una ragazza di ventisei anni, al settimo anno di laurea triennale), una “certa inerzia nella maturazione” dei fanciulli, che ha condotto la succitata Corte ad una semplice e piccola riduzione del contributo in capo al genitore paterno.

Orbene, alla luce della giurisprudenza sopra esaminata, viene da domandarsi quale sia (e se via sia, prima ancora) la soglia, a livello di età anagrafica, oltre la quale il contributo al mantenimento si traduce in una sorta di “parassitismo” del beneficiario nei confronti del genitore obbligato, peraltro sempre più anziano (si veda, ad esempio la sentenza della Corte di Cassazione, numero 12477/2004).
Ed infatti, valga evidenziare che, pur tenuto conto della variazione caso per caso del raggiungimento dell’autosufficienza, si registrano pronunzie che delineano un limite temporale massimo.

In altre parole, non si può immaginare che il mantenimento genitoriale possa procedere usque ad infinitum: sul punto, è recentemente intervenuto il Tribunale di Milano che, con ordinanza del 29 marzo 2016, statuisce il limite temporale di 34 anni, “in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee“, oltre il quale “lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento“; il ragionamento sotteso al provvedimento è quello secondo cui il beneficiario, dopo una certa età anagrafica e salva la condizione di handicap grave, non possa più essere trattato alla stregua di figlio bensì come un adulto.

Nella stessa direzione, la pronunzia della Corte di Cassazione, numero 12952, del 22 giugno 2016 (relativa ad un caso di due figli maggiorenni, ultratrentenni, il primo laureato in medicina e specializzato, frequentava una serie di corsi di perfezionamento, il secondo che aveva mutato da tempo in itinere il percorso di studio universitario, senza però conseguire la laurea) dapprima precisa che la valutazione della permanenza del contributo al mantenimento in capo al genitore, va effettuata “in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura”, poi rilevando che “l’avanzare dell’età non può, tuttavia, essere ininfluente”.

La legittimazione ad agire in giudizio 

Questione particolarmente interessante ma non meno controversa è quella sollevata dalla lettura dell’articolo 337 septies del codice civile, introdotto dal D. Lvo 154/2013, che riprende il testo del previgente 155 quinquies c.c, con particolare riferimento all’assunto che recita: “tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.

La problematica relativa alla legittimazione del soggetto legittimato a chiedere il mantenimento in parola, si pone -e si è posta, a livello di dubbi interpretativi anche a valle dell’emanazione della Legge numero 54/2006-, non solo con riguardo a quei giudizi di separazione o divorzio in cui nella famiglia coinvolta sia presente prole maggiore d’età, ma anche nel caso di modifiche di condizioni di separazione o divorzio avvenute in seguito al compimento del diciottesimo anno di un figlio che al momento del provvedimento era minorenne.

Certo è che la disposizione conferisce al maggiorenne non ancora economicamente indipendente il diritto di richiedere il proprio mantenimento al genitore non convivente, salva sempre la possibilità del Giudicante di stabilire che l’assegno venga versato al genitore.

Al riguardo, è bene precisare che granitica e consolidata giurisprudenza ha chiarito che il genitore separato o divorziato, già affidatario del figlio in minore età, è legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro genitore il pagamento dell’assegno per il mantenimento del figlio e ciò quale titolare di un diritto autonomo e concorrente con quello del discendente divenuto maggiorenne, in mancanza di una specifica domanda azionata da quest’ultimo e salvo il venire meno del rapporto di coabitazione (in questo senso, ex multis, la recente ordinanza della Corte di Cassazione, numero 12972, del 23 maggio 2017; nella medesima direzione, la sentenza della Corte di Cassazione, numero 18869, dell’8 settembre 2014 o anche la sentenza della Corte di Cassazione, numero 25300 dell’11 novembre 2013).

La ratio di quanto appena precisato dalla giurisprudenza è evidente: fintantoché il figlio, ancorché divenuto maggiorenne, convive con il genitore presso cui era precedentemente collocato, quest’ultimo detiene comunque un diritto al contributo al mantenimento iure proprio, in ragione della necessità di ristorare il genitore che sostiene il mantenimento diretto per le spese correnti al figlio dedicate, oltre a trovare fondamento nella continuatività dei doveri gravanti sul genitore nella persistenza della situazione di convivenza; la legittimazione del figlio maggiorenne, titolare di diritto autonomo, con cui concorre, pur non sovrapponendosi, quella del genitore ex collocatario, si fonda invece sulla titolarità dello stesso al diritto al mantenimento.

Sul concetto di convivenza, evidentemente indispensabile per la legittimazione genitoriale iure proprio, è bene precisare che, come rilevato dal Tribunale di Milano, con sentenza numero 7113, del 29 maggio 2014: “il contributo al mantenimento che il genitore, separato o divorziato, è tenuto a versare al genitore affidatario del figlio minore, deve ritenersi legittimamente richiesto da quest’ultimo iure proprio anche dopo la maggiore età del figlio non ancora economicamente sufficiente, a condizione che lo stesso continui a coabitare con il genitore richiedente anche se la coabitazione non sia quotidiana ma interrotta (per esempio da esigenze di studi) ma che abbia i caratteri della stabilità facendo il ragazzo ritorno quando le esigenze lo consentano”; nella medesima direzione, sul concetto di convivenza, anche la sentenza della Corte di Cassazione numero 18075, del 25 luglio 2013.

Del resto, come contraltare, il genitore obbligato non può pretendere di assolvere al proprio onere, versando, unilateralmente ed in assenza di una specifica domanda del figlio (e di un provvedimento del Giudice in tal senso), il mantenimento direttamente a quest’ultimo.

Inoltre, dalla suddetta legittimazione del figlio maggiore d’età, fondata, come anzidetto, sulla titolarità del diritto al mantenimento, discende pure la legittimazione di quest’ultimo ad agire in giudizio nei confronti del genitore eventualmente inadempiente, chiedendo il proprio mantenimento, allegando la propria situazione di insufficienza reddituale.

Ed ancora, la Corte di Cassazione ha pure chiarito che il maggiorenne possa altresì intervenire nella causa di separazione o divorzio ovvero modifica delle relative condizioni pendente tra i propri genitori, domandando il versamento diretto dell’assegno: così, ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione, numero 4296, del 19 marzo 2012, che ha ritenuto ammissibile l’intervento volontario, ai sensi dell’articolo 105 c.p.c., di un figlio maggiorenne nella causa di separazione fra i genitori, al fine di ottenere direttamente, o in subordine tramite la madre con lui convivente, un assegno di mantenimento a carico del padre.

In altre parole, secondo tale pronunciamento, l’intervento del figlio nel procedimento di separazione (o divorzio) consente “al giudice di provvedere in merito all’entità e al versamento -anche in forma ripartita- del contributo al mantenimento, sulla base di un’approfondita ed effettiva disamina delle istanze dei soggetti interessati”.


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