L’occupazione sine titulo non costituisce danno in re ipsa

L’occupazione sine titulo non costituisce danno in re ipsa

Cassazione Civile, Sez. III, 25 maggio 2018, n. 13071

 

La questione oggetto della pronuncia in commento attiene all’analisi circa la possibilità –o meno – di configurare il danno da occupazione sine titulo di immobile altrui, quale danno in re ipsa.

Preliminarmente, va precisato che si parla del c.d. danno in re ipsa quando non è richiesta la prova del danno, poiché il fatto di per sé è considerato un danno. In tale categoria, vi rientrano tutti quei casi in cui si verifica la lesione di diritti costituzionalmente garantiti, direttamente o indirettamente, i quali permettono la piena realizzazione della persona che ne è titolare. A titolo esemplificativo si enunciano il danno all’immagine, all’identità, al nome, alla reputazione, alla riservatezza e alla professionalità.

Nel caso in esame, Tizio ricorreva ex art. 702 bis c.p.c. dinanzi al Tribunale di Salerno –Sezione distaccata di Cave dei Tirreni- per ottenere la condanna al rilascio di un’immobile di sua proprietà, da parte della moglie Caia. Infatti, Tizio concedeva alla coniuge separata l’immobile in comodato di scopo, consistente nell’esercitare il controllo sul loro figlio minorenne. Tale finalità, però, veniva meno con il compimento della maggiore età e contestuale trasferimento da parte del figlio in altra abitazione. Condizione, questa, che conduceva Tizio a chiedere alla coniuge il rilascio dell’immobile –già in via stragiudiziale- il pagamento delle spese di gestione dell’immobile sino all’effettivo rilascio, la refusione delle spese legali sostenute e il risarcimento del danno da mancato godimento dell’immobile stesso.

In primo grado la coniuge non si costituiva e la domanda di Tizio veniva ampiamente accolta, pertanto la soccombente adiva la Corte d’Appello di Salerno eccependo la nullità della in jus vocatio e del giudizio di primo grado. Il giudice di appello accoglieva le eccezioni della coniuge, ma nel merito confermava la condanna emessa dal giudice di prime cure. Veniva proposto, quindi, ricorso per Cassazione avverso la sentenza di appello sulla base di nove motivi di impugnazione, di cui soltanto l’ultimo veniva accolto.

Con il nono motivo di ricorso, la ricorrente lamentava la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 c.c. in relazione agli artt. 1223,1226 e 2697 c.c.. La doglianza, ritenuta fondata dalla Suprema Corte, consisteva nel rimarcare che il giudice di appello asseriva erroneamente la sussistenza del danno in re ipsa, in quanto determinato dalla semplice perdita di disponibilità del bene da parte del proprietario e dalla conseguente impossibilità per costui di conseguire l’utilità potenzialmente ricavabile in seguito a locazione o vendita. Ne consegue che, secondo la Corte d’Appello di Salerno, il risarcimento può essere determinato sulla base di “elementi presuntivi semplici”, a nulla rilevando la mancata allegazione dell’effettiva utilizzazione dell’immobile.

Sul punto, i giudici di legittimità affermano che, se per un orientamento giurisprudenziale la sovrapponibilità del danno-evento con il danno-conseguenza permane per alcune fattispecie di risarcimento danni, sia in ambito aquiliano che in quello di inadempimento contrattuale; dall’altro lato va ricordato lo “sbarramento nomofilattico” delle Sezioni Unite n. 26972 del 11 novembre 2008. Con esso veniva statuito che ciò che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, il quale deve essere allegato e provato. Danno, questo, che va scisso dalla lesione dell’interesse protetto, che rappresenta l’evento-dannoso, quindi il danno-evento.

Le Sezioni Unite avvalorano la tesi secondo cui il danno non può venire identificato nel danno-evento e, di conseguenza, ne disattendono la collocabilità nella categoria del c.d. danno in re ipsa, poiché snaturerebbe “la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.”. Peraltro la Suprema Corte aggiunge che, la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento trova il suo limite nell’art. 23 della Carta Costituzionale, oltre che negli orientamenti giurisprudenziali. Pertanto, ogni fattore sanzionatorio che intenda sostituire quello risarcitorio necessità di una riserva di legge.

A ben vedere, secondo l’iter logico seguito dalla Corte di Cassazione, è evidente che il risarcimento del danno da occupazione sine titulo integrato dall’importo complessivo del canone di locazione pari alla durata dell’occupazione configura un danno punitivo, se non viene provata la concreta intenzione del proprietario di mettere a frutto l’immobile in questione. Infatti, può accadere che il proprietario di un immobile, per libera scelta, decida di non trarne alcun guadagno.

Alla luce delle considerazioni sinora svolte, la Corte di Cassazione accoglie il nono motivo del ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza di appello nella parte in cui condanna la coniuge di Tizio a risarcire il marito per il danno da mancato godimento del bene e rinvia alla Corte d’Appello di Salerno, affinché verifichi l’avvenuta allegazione del danno-conseguenza potenzialmente derivato dall’occupazione sine titulo. E ciò al fine di determinarne la risarcibilità.


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