L’usura pecuniaria sopravvenuta: le Sezioni Unite alla luce del contesto normativo vigente

L’usura pecuniaria sopravvenuta: le Sezioni Unite alla luce del contesto normativo vigente

Per usura pecuniaria si intende la pattuizione di interessi oltre la soglia stabilita dalla legge in corrispettivo di una prestazione di denaro.

Il fenomeno anzidetto è qualificato sia come illecito civile che come illecito penale quando l’usurarietà dell’interesse o del vantaggio è un vizio originario, mentre la mancanza di una simile previsione legislativa nell’ipotesi “sopravvenuta” ha dato luogo ad un annoso dibattito circa la risposta dell’ordinamento al verificarsi di siffatta tipologia di usura, risoltosi con una recente pronuncia della Cassazione a sezioni unite.

1. Usura originaria: il quadro normativo.

Anche nella forma originaria, la disciplina dell’usura è stata oggetto di diverse questioni che hanno reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite, le quali, nel pronunciarsi su temi diversi e a più battute, hanno “ricomposto” la normativa de qua.

Partendo dal dato normativo è opportuno rilevare che il fenomeno dell’usura originaria pecuniaria è previsto all’art. 1815 co. 2 del codice civile, norma che sanziona con la nullità parziaria la convenzione di interessi usurari.

In altri termini, la suddetta forma di invalidità non si estende all’intera pattuizione nemmeno nel caso in cui risulti che i contraenti non avrebbero concluso il contratto in assenza della clausola usuraria recisa, in deroga -quindi- alla disciplina generale ex art. 1419 c.c..

In via generale si ricorda infatti che il principio di conservazione del contratto trova un limite nell’autonomia contrattuale, nel senso che la sua applicazione non può mai mantenere in vita negozi contrari alla volontà delle parti, ma, nel caso di usura, la parziarietà della nullità non incontra restrizione alcuna.

Le ragioni della scelta legislativa di una nullità modulata sull’archetipo della nullità di protezione, forma di invalidità extra-codicistica che trova ingresso nel nostro ordinamento in alcune leggi di settore in applicazione di direttive europee, risiedono nel fatto che la nullità “tradizionale” quale rimedio caducatorio non è una reazione “utile” al caso di specie.

Invero, l’ipotesi di estensione dell’invalidità a tutta la pattuizione farebbe sorgere l’obbligo in capo al debitore di restituire quanto ottenuto in mutuo, dando luogo ad un effetto per la controparte forse peggiore rispetto alla corresponsione di interessi usurari.

Del resto la contrarietà dell’ordinamento al rimedio caducatorio nei contratti relazionali è già nota nel codice civile sotto altre forme, si pensi al caso dell’art. 1660 c.c. che consente al giudice di intervenire, in mancanza di accordo tra le parti, nella determinazione delle variazioni necessarie al progetto ai fini della sua esecuzione, che altrimenti condurrebbe alla risoluzione dell’appalto stesso.

Nel caso dell’usura invece, il legislatore ha optato per la nullità necessariamente parziaria senza possibilità di sostituzione della clausola viziata, in deroga altresì al principio di naturale fecondità del denaro, introducendo pertanto una forma di sanzione per il mutuante a fini chiaramente di deterrenza.

Quando il giudice accerta e dichiara con sentenza la nullità della singola pattuizione si verifica un arricchimento non indebito per la controparte, la quale non solo non è tenuta a corrispondere interessi, ma ha diritto anche alla restituzione di quelli eventualmente già corrisposti in virtù della clausola nulla.

Orbene, descritta la reazione dell’ordinamento civile in detti termini occorre soffermarsi adesso sulle questioni problematiche della disciplina alle quali si faceva cenno in epigrafe.

La prima incertezza applicativa è sorta attorno alla tipologia di interesse da considerare per stabilire l’usurarietà della pattuizione.

Nel silenzio della normativa codicistica il dubbio si è posto in ordine agli interessi moratori che secondo taluni non rientrerebbero nel computo de quo, per tre ragioni.

Secondo l’orientamento citato, il primo motivo di esclusione è rivenuto nel fatto che la Cassazione penale ha fatto riferimento sempre e solo agli interessi moratori ai fini della determinazione dell’usura quale illecito penale: essendo l’usura un fenomeno unitario, non ci sarebbe motivo di operare una distinzione in ambito civile.

La seconda ragione trova fondamento, invece, nella ratio che sottende l’interesse moratorio, il quale, rispondendo ad una logica non compensativa ma di responsabilità al pari della clausola penale, come quest’ultima, potrebbe essere ridotto dal giudice nel momento in cui dovesse superare il tasso soglia previsto dalla legge.

Da ultimo, l’esclusione dal calcolo de quo si è affermata in considerazione del fatto che a differenza di quello corrispettivo, l’interesse moratorio si connota per essere un interesse potenziale e non effettivo, essendo dovuto dal debitore solo nel caso di un suo ritardo nell’inadempimento.

Di contrario avviso l’orientamento seguito invece dalle Sezioni Unite che protendono per l’inclusione di siffatti interessi ai fini del calcolo dell’usurarietà della clausola.

La Suprema Corte ha evidenziato infatti come sia l’interesse corrispettivo che quello moratorio hanno come extrema ratio quella di compensare il creditore per l’uso del suo denaro da parte del debitore avvenuto, nel primo caso, in una fase fisiologica del rapporto e , nel secondo, in una patologica.

La ratio ultima uniforme trova conferma, altresì, nella disciplina degli stessi interessi laddove all’art. 1284 c.c. co. 2 il legislatore ha previsto che se se le parti non lo hanno stabilito, la misura del saggio degli interessi moratori è pari al saggio degli interessi legali.

Da ultimo, a sostegno della posizione della Cassazione vi è anche l’art. 1 del D.L. 394 del 2000, legge di interpretazione autentica della L. 108 del 1996 recante disposizioni in materia di usura, al cui co. 1 si legge che ai fini della applicazione delle norme sull’usura si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo e indipendentemente dal momento del loro pagamento.

In modo parallelo alla problematica descritta, un’ulteriore questione è sorta in ordine all’individuazione di quelle voci che pur non denominate interessi, al pari di questi ultimi generano in favore del creditore una erogazione di denaro, che se non considerate sarebbero strumento idoneo ad aggirare il divieto ex 1815 co. 2 c.c.

A tal fine l’art. 4 della legge 108 del 1996 nel testo da ultimo modificato nel 2011 ha previsto puntualmente che ai fini della determinazione del tasso di interesse usurario si deve tener conto delle commissioni, delle remunerazioni e delle spese sostenute a qualunque titolo collegate all’erogazione del credito, escluse le imposte e le tasse.

La norma menzionata consente, così, di arginare i fenomeni elusivi dell’art. 1815 co. 2 c.c. ricomprendendo nel calcolo ogni somma che trovi causa nell’elargizione del denaro e nel suo utilizzo, anche se in materia non sono comunque mancati contrasti in ordine all’inclusione o meno di alcune voci in dette remunerazioni, ne sono esempio le commissioni di massimo scoperto,quali somme dovute dal correntista al superamento del fido concesso dalla banca e calcolate sull’eccedenza stessa, oggetto di una recente ordinanza di rimessione alle sezioni Unite.

2.Usura sopravvenuta: la ricerca di un addentellato normativo.

La possibilità di rinvenire un fondamento normativo nel codice civile per l’usura pecuniaria sopravvenuta è stata molto dibattuta e da ultimo ha visto le Sezioni Unite orientarsi, in tal contesto, negativamente.

Prima di esporre le motivazioni della Suprema Corte è opportuno chiarire che il fenomeno usurario sopravvenuto può essere di tipo economico, nel senso che le parti hanno pattuito un interesse che al tempo in cui è stato convenuto non superava il tasso soglia individuato trimestralmente con decreto ministeriale e che è diventato tale al momento della corresponsione essendo diverso il tasso soglia legale, ovvero economico- normativo, quando cioè l’interesse è stato negoziato prima dell’entrata in vigore della disciplina sull’usura e in una misura superiore, tra l’altro, al tasso soglia legale individuato al momento della corresponsione.

L’usura sopravvenuta è un problema che riguarda quindi i rapporti di durata e involge la questione della gestione delle sopravvenienze, tema di non facile risoluzione anche in altre tipologie di contratti.

Come già accennato in trattazione, nei contratti relazionali l’inadeguatezza dell’effetto demolitorio della nullità ha portato alla previsione di una forma della stessa peculiare, ma che comunque non può applicarsi al caso di specie.

L’impossibilità di estendere la disciplina dell’art. 1815 co. 2 c.c. all’usura sopravvenuta sta nel fatto che l’operazione anzidetta darebbe luogo ad una forma di nullità “successiva” che non trova cittadinanza nel nostro sistema.

La nullità è una reazione dell’ordinamento ad un difetto originario del contratto inteso come atto, mentre per i vizi che seguono la formazione negoziale, che attengono al contratto come rapporto, il sistema prevede sempre e solo la risoluzione.

La risoluzione non è un rimedio manutentivo e dunque si è cercato di “insistere” sulla nullità nel senso di sostenere che l’usura sopravvenuta dia luogo, quantomeno, ad una nullità virtuale per contrasto della clausola con una norma imperativa.

Le Sezioni Unite hanno escluso anche questa forma di nullità per le ragioni di teoria generale citate: seppur recentemente in tema di contratto di locazione ad uso non abitativo le stesse hanno ammesso nel nostro ordinamento il “passaggio dalla nullità alle nullità” consentendo forme di nullità speciali, derivanti cioè da vizi non strutturali, quale nel caso di specie legato alla mancata registrazione, la giurisprudenza non si è spinta al punto da eliminare il collegamento dell’anzidetta reazione alla “originarietà” del difetto.

La Cassazione ha negato altresì l’inefficacia della clausola, categoria del tutto autonoma rispetto alla nullità e che a differenza di quest’ultima può anche essere successiva.

L’esclusione de qua è avvenuta, in particolare, alla luce della mancanza di un fondamento causale all’efficacia in esame che non può rinvenirsi nella pretesa della corresponsione di interessi usurari,essendo l’usura vietata e quindi illecito sia in ambito civile che il quello penale solo quando è originaria.

Ancora, non può applicarsi l’art. 1463 c.c., in quanto la prestazione non può dirsi impossibile, avendo ad oggetto una somma di denaro per natura sempre eseguibile, e non può farsi riferimento nemmeno all’art. 1467 c.c.

Nella norma anzidetta infatti l’eccessiva onerosità consegue ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili che certamente non si rinvengono né nel caso di usura sopravvenuta economica e né in quella economica-normativa.

L’inflazione è un fenomeno fisiologico, addirittura “eccitato” entro certi limiti dalle politiche economiche e quindi la fluttuazione del valore del denaro nonché il ripetersi degli interventi legislativi nel tempo non sono eventi connotati dalle peculiarità richieste ai fini dell’applicazione dell’art. 1467 c.c. e in particolare del co. 3 di detta norma, laddove cioè prevede l’intervento del giudice, in quanto l’ipotesi risolutiva di cui al co. 1 è esclusa per le ragioni più volte richiamate in trattazione.

La conclusione naturale sarebbe sostenere allora che sul debitore ricade il rischio di usura sopravvenuta, essendo del resto ingiusto sanzionare con la nullità che non consente nemmeno la sostituzione automatica della clausola con il tasso soglia legale, un comportamento del mutuante legittimo, che non può dirsi espressione di abuso della sua posizione di forza, su cui si fonda la ratio dell’illecito ex 1815 co. 2 c.c.

Tuttavia, una chiusa in siffatti termini dà luogo certamente ad una ingiustizia sostanziale e dunque la Cassazione ha previsto la possibilità che il giudice adito dal debitore possa valutare almeno la modalità scelta dal creditore nell’esercizio del suo diritto, ai sensi del principio di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c.

Per effetto dell’exceptio doli da parte del debitore, rilevata la contrarietà della condotta al dovere summenzionato, che trova fondamento più in generale nel principio solidaristico ex. art 2 Cost., e quindi accertato l’abuso del diritto da parte del mutuante, il giudice adito può allora solo paralizzare la pretesa creditoria.

3.Riflessioni finali

La soluzione proposta dalle Sezioni Unite ha destato, tra i consensi, qualche perplessità.

La dottrina più attenta, infatti, ha mosso delle critiche avverso l’effetto che ha prodotto la sentenza, oggetto della trattazione, emessa dal giudice adito, in particolare evidenziando come la Cassazione non abbia specificato se la pronuncia del giudice sia in grado di “bloccare” l’intera pretesa di interessi o solo la parte in eccedenza degli stessi, quella che determina cioè l’usurarietà della clausola.

A prescindere dalla critica sollevata, la sentenza della Suprema Corte è stata, comunque, largamente condivisa, anche da chi, più che una buona fede valutativa e interpretativa, vedrebbe meglio, ai casi in esame, l’applicazione di quella integrativa, individuata altresì dalla dottrina migliore quale strumento maggiormente adatto nella gestione delle sopravvenienze contrattuali.

Orbene, nell’introdurre l’obbligo per le parti di rinegoziare, la buona fede nell’accezione de qua non ha trovato menzione nella pronuncia delle Sezioni Unite, forse perché il rifiuto del creditore a rivedere le condizioni contrattuali darebbe la stura alla risoluzione, ma ad ogni modo questa forma di correttezza non è ontologicamente incompatibile con quella individuata dalla Suprema Corte.

In conclusione, allora, può dirsi che l’usura sopravvenuta dà luogo ad una ingiustizia sociale che ingenera una risposta dell’ordinamento solo quando è accompagnata da modalità abusive che connotano l’esercizio della pretesa degli interessi da parte del creditore. In tali ipotesi la fattispecie in esame è sanzionata attraverso l’utilizzo della clausola di buona fede, quest’ultima in grado di dimostrare come ogni posizione soggettiva nel nostro ordinamento, compreso il diritto, non è mai di per sé assoluta.


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