Maltrattamenti in famiglia, senza convivenza non basta la protratta durata del rapporto né la nascita di una figlia

Maltrattamenti in famiglia, senza convivenza non basta la protratta durata del rapporto né la nascita di una figlia

“Il modo tuo d’amare è lasciare che io ti ami.
Il sí con cui ti abbandoni è il silenzio.
I tuoi baci sono offrirmi le labbra perché io le baci.
Mai parole o abbracci mi diranno che esistevi e mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi, mappe, telefoni, presagi; tu, no.
E sto abbracciato a te senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire con domande, con carezze, quella solitudine immensa d’amarti solo io’
P. Salinas da “La voce a te dovuta”

 

Un fatto che fa male,  segni  di catene psicologiche di un amore malato, l’innesco della rabbia incontrollata, della violenza nuda che bagna il viso e scatena, oltre ad un rantolo, lo sdegno.

Non è sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce in ultima analisi il presupposto applicativo del reato di cui all’art. 572 c.p. in assenza di convivenza”.

E’ quanto stabilito recentemente dai Giudici di Piazza Cavour (Cass. Pen., sez. III,  sent. 7 gennaio 2019, n.345). 

Si avverte il fascino di un rimedio di portata sanzionatoria creato dalla   giurisprudenza, fonte anch’essa del diritto,  e proprio il suo affacciarsi su un vuoto legislativo induce  ad evidenziare la patologia processuale della sentenza di merito che si presta ad interventi correttivi  da parte della Suprema Corte.

Reprimere le condotte delle parti in situazioni extra ordinem che  nonostante  la loro natura extralegislativa richiedono una risposta sanzionatoria mette in luce la vitalità  del rimedio  giurisprudenziale di fronte a specifiche  casistiche, rimedio   che sul piano etico è chiamato così  a reagire ad un vizio causato  da rapporti privati del loro apparato istituzionale.

Con riferimento al reato di maltrattamenti la questione posta all’attenzione della  Corte di Cassazione ha imposto, infatti,  di valutare se il requisito della stabile coabitazione funga o meno da presupposto necessario alla configurabilità della fattispecie criminosa in presenza di una relazione sentimentale, seppur duratura, tra due persone non legate da vincolo matrimoniale.

La normativa di riferimento

Emblematico, ribadiscono i Giudici del Palazzaccio,  in tal senso è il mutamento della rubrica del reato di cui all’art. 572 c.p. da ‘maltrattamenti in famiglia‘ in ‘maltrattamenti contro familiari e conviventi‘ apportato dalla novella n.172 del 2012 conseguente alla ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007.

E certamente può condividersi il principio secondo cui, nonostante la mancanza di un dovere di reciproca solidarietà ed assistenza tra gli ex conviventi, l’esistenza di prole all’interno della famiglia di fatto determini, attesa anche l’equiparazione della filiazione naturale a quella legittima suggellata in campo civilistico dalla riforma L. 10 dicembre 2012, n. 219, il permanere in capo a costoro del complesso degli obblighi di mantenimento, educazione, istruzione ed in generale di assistenza morale verso i figli per il cui adempimento la coppia genitoriale, seppur non più convivente, è chiamata a relazionarsi e a cooperare, discendendo proprio da tale rapporto la permanenza del dovere di reciproco rispetto.

E di fatto se il dato comune che ha portato ad estendere la tutela penale anche ai coniugi separati o ai genitori di prole nata fuori dal matrimonio è comunque costituito dalla preesistenza di un rapporto nascente dal matrimonio o da una convivenza more uxorio, la peculiarità della fattispecie in esame è insita, invece, nella mancanza ab origine di un rapporto di stabile convivenza.

Il  fatto

Con sentenza del 18.1.2018 della Corte di Appello di Venezia aveva confermato la condanna resa dal Tribunale di Vicenza  in ordine alla penale responsabilità di A.A. per i reati di cui agli artt. 572, 609-bis e 582 e 585 c.p. e art. 576 c.p., n. 5 per i ripetuti maltrattamenti posti in essere nei confronti di R.F. con la quale intratteneva una relazione sentimentale da cui era nata una figlia, per averla costretta a subire un rapporto sessuale puntandole un coltello alla gola e percuotendola con pugni e schiaffi e per averle procurato in tale occasione lesioni personali giudicate guaribili in 30 giorni, reati per i quali era stato condannato alla pena di quattro anni e tre mesi di reclusione.

Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, articolando in un crescendo rossiniano tre motivi.

Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge e al vizio motivazionale, la configurabilità del reato di maltrattamenti in assenza di una convivenza stabile con la donna alla quale era legato solo da un rapporto sentimentale. Precisava che entrambi avevano sempre abitato ognuno per proprio conto anche dopo la nascita nel 2015 della bambina che sporadicamente andava a trovare trattenendosi solo in tali circostanze nella di lei abitazione.

Quanto dell’abitualità della condotta evidenziava che la p.o. aveva reso dichiarazioni vaghe e generiche su minacce, violenze ed offese non collocate temporalmente, né contestualizzate, prive peraltro di riscontri testimoniali, senza che neppure ne venisse valutata l’attendibilità alla luce della sua condizione di tossicodipendente.

Contestava, altresì,  la sussistenza del delitto di violenza sessuale in ragione sia dell’anomala dinamica riferita dalla stessa vittima che aveva dichiarato che solo dopo la consumazione del rapporto, da lei stessa assecondato, era stata minacciata dall’imputato con un coltello, sia dell’assenza di riscontri oggettivi non essendo stato prodotto neppure un certificato medico, sia della condotta ambivalente tenuta da costei che aveva prima sporto denuncia nei suoi confronti, poi l’aveva ritirata e poi gli aveva inviato una lettera affettuosa rimpiangendo il passato trascorso insieme.

Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 609-bis c.p., u.c. e al vizio motivazionale, che essendosi il fatto consumato in costanza di una relazione affettiva, che non essendosi la p.o. opposta in maniera drastica al rapporto sessuale avendo lei stessa ammesso di aver prestato il suo consenso dopo l’opposizione iniziale, che l’azione si era svolta in camera da letto e quindi in un luogo intimo e che le lesioni risultavano successive all’amplesso, sussistevano tutti i presupposti, in considerazione della valutazione globale della vicenda, per l’applicabilità dell’attenuante di minore gravità.  Seguirà la declaratoria di inammissibilità della doglianza  per manifesta infondatezza.

Con il terzo motivo, dichiarato poi inammissibile,  lamentava l’insussistenza della condizione di procedibilità per il reato di lesioni personali, le quali non erano state poste in essere in occasione della violenza sessuale con la finalità di ottenere un rapporto sessuale, bensì successivamente ad esso quando la donna era già uscita dalla camera da letto, con conseguente inconfigurabilità di un collegamento tra le due condotte.

La decisione

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il primo motivo.

Si osserva, infatti, che “mentre la ricostruzione dell’accaduto patrocinata dalla difesa in ordine alle connotazioni violente e minacciose della condotta dell’agente è platealmente smentita dalla dinamica ricostruita dalla Corte veneziana, secondo la quale le percosse inflitte alla donna, legata per i polsi e con la minaccia di un coltello nel soggiorno della di lei abitazione risultano essere state precedute da analoghe condotte minacciose, anch’esse poste in essere con un coltello, sia pure più piccolo, e di sopraffazione fisica con cui l’imputato in camera da letto ha costretto la vittima piangente a spogliarsi e a subire un rapporto sessuale, i contraddittori comportamenti tenuti dalla p.o. nel post factum per avere costei dapprima denunciato il compagno, poi ritirato la denuncia ed infine inviatogli una lettera nel tentativo di fargli comprendere le aberranti connotazioni della sua condotta non solo sul piano strettamente fisico, ma altresì su quello affettivo in quanto disvelatrice di un malcelato desiderio di possesso e di dominio incondizionato, sono stati, invece, puntualmente esaminati dai giudici di appello che evidenziano come l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla donna, comunque infatuata dall’imputato e consapevole dei legami derivanti dalla nascita della bambina, abbiano determinato il susseguirsi di un turbinio di emozioni, per un verso protese a cercar giustizia nell’obiettivo di affrancarsi da un rapporto umiliante e violento, e dall’altro chine sul passato, nel tentativo di recuperare un rapporto con quello che era il suo compagno e comunque il padre di sua figlia e nel contestuale timore delle sue reazioni stanti le pressioni in tal senso ricevute dall’imputato.

Il vaglio di attendibilità della vittima, condotto con attenta ed approfondita analisi dai giudici di merito, non risulta scalfito dall’ambiguità dei sentimenti provati da costei, riconducibili a quella che risponde ad una dipendenza affettiva quanto mai comune nei rapporti sentimentali, che invece viene ricondotta, nel caso di specie, alla genuinità delle sue dichiarazioni, avvalorata, quanto all’assenza di intenti ritorsivi, dal rifiuto del risarcimento in denaro offertole dall’uomo e dalla scelta processuale di non costituirsi parte civile. Del resto è stato già affermato da questa Corte che in tema di valutazione della prova testimoniale, l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015 – dep. 17/07/2015, S, Rv. 264334).

Con riferimento al reato di maltrattamenti la questione posta all’attenzione della  Corte impone, pertanto,  di valutare se il requisito della stabile coabitazione funga o meno da presupposto necessario alla configurabilità della fattispecie criminosa in presenza di una relazione sentimentale, seppur duratura, tra due persone non legate da vincolo matrimoniale.

Se è vero che la coabitazione è l’elemento di norma rivelatore, secondo l’id quod plerumque accidit, del rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, è altrettanto pacifico che non può essere la condivisione della stessa abitazione il parametro che consente di individuare la convivenza more uxorio al cui ambito è stata estesa la tutela già apprestata dal legislatore penale alla famiglia fondata sul matrimonio, risiedendo per contro il nucleo caratterizzante il rapporto familiare di fatto nella natura e nell’intensità del vincolo, che – secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità – ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale.

Malgrado possa ritenersi rispondente ad un indirizzo consolidato che la mancanza di convivenza, laddove vengano in considerazione condotte di maltrattamento astrattamente sussumibili nel paradigma normativo dell’art. 572 cod. pen. adottate all’interno di un contesto familiare, diventi un dato recessivo al fine di escludere la configurabilità della fattispecie criminosa, va tuttavia rilevato che la predetta affermazione si fonda, stando all’esame degli arresti citati, sulla mancanza di attualità della convivenza presupponendosi che la stessa sia cessata o per il mutato status conseguente al vincolo matrimoniale, ritenendosi che nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi, nonostante la cessazione della convivenza, persistano gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio, o derivante dalla volontaria cessazione della convivenza more uxorio in presenza di prole.

E di fatto se il dato comune che ha portato ad estendere la tutela penale anche ai coniugi separati o ai genitori di prole nata fuori dal matrimonio è comunque costituito dalla preesistenza di un rapporto nascente dal matrimonio o da una convivenza more uxorio, la peculiarità della fattispecie in esame è insita, invece, nella mancanza ab origine di un rapporto di stabile convivenza.

La stessa Corte distrettuale da atto, nel delineare i rapporti tra l’imputato e la vittima, del fatto che ognuno dei due, malgrado la relazione sentimentale tra loro intercorrente da lunga data, vivesse per proprio conto definendo la frequentazione della casa della p.o. da parte dell’uomo, sia pure ‘costante’, ma ‘saltuaria’.

Nella frettolosa risposta resa in tali termini alle censure svolte dalla difesa con i motivi di appello, completata con il richiamo al precedente di questa Corte n. 25498/2017, sopra citata, che invece riguarda il diverso caso di una cessata convivenza more uxorio tra due genitori di un figlio naturale, si annida il vulnus della sentenza impugnata.

Non soltanto nessuna indagine risulta essere stata compiuta in relazione ai rapporti del padre con la bambina nata nel 2015 (ovverosia appena quattro mesi prima del perfezionamento dei reati di violenza sessuale e lesioni di cui al presente procedimento) al fine di verificare se la sua nascita fosse una conseguenza non voluta della relazione piuttosto che l’effetto di un progetto responsabile mirato a generare, allevare ed educare la prole, finalità su cui la condizione di tossicodipendenza dei genitori così come l’essere la minore oggetto di attenzione da parte dei Servizi Sociali solleva il dubbio, ma neppure nessuna disamina viene ivi effettuata in ordine alla natura della relazione intercorrente tra l’imputato e la vittima, volta cioè a verificare se si trattasse di un’unione, ancorché non accompagnata dalla convivenza, comunque caratterizzata dall’affidamento e solidarietà reciproci, o al contrario configurasse un rapporto che, seppur consuetudinario in ragione della durata nel tempo – unico elemento che risulta essere stato accertato -, fosse improntato a precarietà ed estemporaneità.

L’ossimoro utilizzato dalla Corte territoriale che definisce la frequentazione dei due ‘saltuaria ma costante’ non spiega, stante l’intrinseca contraddittorietà tra i due epiteti, se la frequentazione implicasse una ripetitività metodica ed un’assidua cadenza tale da lasciar presumere che l’uno dei due partner contasse sull’assistenza morale e materiale dell’altro malgrado la distanza, o si trattasse invece di incontri saltuari ed intermittenti finalizzati alla condivisione del solo tempo trascorso insieme. Né a tale laconica motivazione sul punto supplisce la pronuncia di primo grado, da cui si evince soltanto che trattavasi di un rapporto affettivo tra due soggetti dediti entrambi al consumo di sostanze stupefacenti, iniziato 2011, la cui convivenza non era continua vivendo l’A. a Trento e soggiornando nella casa della compagna per periodi variabili, ‘da qualche giorno a qualche settimana’, senza neppure indicare con quale ripetitività, lasciando perciò aperti gli interrogativi oggetto della doglianza svolta con l’atto di appello.

La conclusione raggiunta dai giudici veneziani non resiste alle censure articolate dal ricorrente, ignorando con motivazione apodittica i rilievi formulati su tale capo dalla difesa. Non è infatti sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce in ultima analisi il presupposto applicativo del reato di cui all’art. 572 c.p. in assenza di convivenza.

La sentenza impugnata deve conseguentemente essere annullata su tale punto”.

Proprio il corto circuito tra trasgressione “indefinita” e sanzione rende  così necessario l’intervento della giurisprudenza  della Suprema Corte che al di fuori  del  limite  di ogni previsione legislativa  fa  fronte a gravi condotte destinate, altrimenti,  a rimanere sottratte a qualsiasi controllo.


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