Natura e disciplina della responsabilità civile del sanitario

Natura e disciplina della responsabilità civile del sanitario

Il recente deposito delle attese motivazioni della Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 8770/2018 sull’ambito di esclusione della punibilità da responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria di cui all’art. 590-sexies c.p. offre una preziosa opportunità per riprendere i profili civilistici della materia. Parlare della natura e disciplina della responsabilità civile del sanitario significa ripercorrere, inevitabilmente, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha caratterizzato prevalentemente l’attività del professionista intellettuale, disegnando una parabola ideale che confluisce nella recentissima l. 24/2017. Occorre sin d’ora chiarire che, nonostante dal 1994 anche l’infermiere sia considerato professionista intellettuale e, del pari, le ultime riforme (D. Balduzzi e l. Gelli Bianco) facciano riferimento, in generale, all’esercente la professione sanitaria, i dubbi interpretativi che si sono posti nel tempo hanno storicamente riguardato la responsabilità del medico. Tale la ragione per cui, nel ricordare le principali problematiche sulla natura e disciplina della responsabilità del sanitario, si farà riferimento a quest’ultimo.

All’uopo, può essere utile procedere per gradi e premettere qualche considerazione di ordine generale sulle norme che il codice civile dedica alle professioni intellettuali. Come noto, l’art. 2229 c.c. demanda alle leggi speciali il compito di qualificare le professioni intellettuali che richiedono iscrizioni in albi, elenchi, siti, così già facendo trasparire le peculiarità della prestazione assunta. Non è un caso, perciò, che, da un lato, secondo l’art. 2230 c.c., le disposizioni generali in materia di lavoro autonomo si applicano soltanto nei limiti di compatibilità e, dall’altro, l’art. 2236 c.c. pone un’esplicita limitazione di responsabilità in caso di “problemi tecnici di speciali difficoltà”, ovvero di un livello di perizia assai elevato. Questo primo e pur breve cenno prelude al primo profilo problematico che ha avvinto la disciplina della responsabilità del sanitario, consentendoci, in chiave funzionale, di invertire la sequenza logica proposta dalla traccia, dovendosi analizzare questioni sincroniche risolte, però, diacronicamente. La limitazione di responsabilità in parola, infatti, ha consentito a lungo di delimitare il contenuto della prestazione del medico e, per conseguenza, di tracciare i confini dell’inadempimento mediante il coordinamento con l’art. 1176 II co. c.c., norma, quest’ultima, a mente della quale nell’adempimento delle obbligazioni nell’attività professionale il parametro della diligenza non è più il generico buon padre di famiglia quanto, piuttosto, la natura dell’attività esercitata. Al combinato di disposto degli artt. 1176 II co e 2236 II co. c.c., pertanto, risale la tradizionale dicotomia, di derivazione francese, delle obbligazioni di mezzi e di risultato, per cui il professionista intellettuale, tenendo ad esempio il medico, mai potrebbe essere tenuto a garantire la guarigione del paziente, quanto, al più, un mancato peggioramento delle proprie condizioni di salute.

La delimitazione della prestazione d’opera intellettuale tramite l’art. 1176 II co. c.c., voluta dalla teoria delle obbligazioni di mezzi, ha comportato un inevitabile riverbero processuale, essendo liberato da responsabilità il medico che fosse riuscito a dimostrare di aver adempiuto con diligenza professionale la sua prestazione, specie se di speciale difficoltà. Invero, sul punto, proprio per evitare vuoti di tutela, la giurisprudenza ha da subito circoscritto la prova liberatoria del professionista, distinguendo tra interventi non routinari, rispetto alle quali trovava piena applicazione l’art. 2236 c.c., e interventi routinari, ritenuti vere e proprie obbligazioni di risultato. Nonostante la dicotomia pretoria, tuttavia, è ben noto come, fino alla pronuncia delle sezioni unite del 2001, l’orientamento maggioritario distinguesse il riparto dell’onere probatorio in tema di inadempimento a seconda del tipo di azione esercitata dal creditore. Senza potersi soffermare a lungo su un tema che esaurisce solo una piccola parte della nostra indagine, ci basti ricordare quanto segue. Specificamente, si riteneva che, a differenza dell’azione di esecuzione, nel caso di azione di risoluzione e risarcitoria il fatto costitutivo della pretesa attore di cui all’art. 2697 c.c. fosse l’inadempimento del convenuto il quale, essendo un fatto negativo, richiedeva la difficile prova del fatto positivo contrario. Le sezioni unite del 2001, invece, riportano ad unità il sistema dell’onere della prova nell’inadempimento, sia esso parziale o totale, sulla scia della cd. presunzione di persistenza del diritto (del creditore) fatto valere in giudizio e della vicinanza della prova, almeno fuori dal caso delle obbligazioni negative. Per conseguenza, tutt’oggi, al creditore spetta soltanto provare la fonte dell’obbligazione (il titolo contrattuale) e il danno, restando a carico del debitore la prova dell’adempimento ovvero dell’inadempimento non imputabile ex art. 1256 c.c. Sebbene il caso El Charango non trattasse di responsabilità medica, comunque la soluzione delineata dalle sezioni unite nel 2001 ha costituito un primo fendente al cd. privilegio della responsabilità del sanitario, eliminando l’onere dell’attore di fornire la prova dell’errore medico.

Rimasero però irrisolti due problemi, in buona parte interconnessi, quali il contenuto della prova liberatoria del medico e il nesso di causalità per l’affermazione della responsabilità. Quanto al primo profilo, dal 2001 si è assistito dal progressivo superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, facendo precisamente leva sull’art. 1174 c.c. e, di riflesso, sull’art. 1218 c.c. Da un lato, pertanto, si è notato come l’interesse del creditore non si rivolga, verosimilmente, alla semplice diligenza del debitore ma tenda sempre all’ottenimento di un risultato che, nelle prestazioni intellettuali, potrà essere al più strumentale e non finale. D’altra parte, l’art. 1176 c.c., a ben vedere, codifica un criterio di valutazione dell’adempimento e non dell’inadempimento per cui, in quest’ultima evenienza, si riapre la lettura “oggettivizzante” dell’art. 1218 c.c. L’obbligazione del debitore si scioglie senza dare luogo a responsabilità risarcitoria soltanto laddove quest’ultimo riesca a dimostrare che e l’inadempimento sia stato determinato da un’impossibilità (intesa in senso oggettivo e relativo) e che quest’ultima sia a sua volta derivata da una causa a lui non rimproverabile. Di qui, pertanto, si dice che il rischio della causa ignota gravi sul debitore, con evidenti ripercussioni in punto di nesso di causalità. Su questo secondo profilo, stavolta proprio in caso di responsabilità medica, si sono pronunciate le sezioni unite del 2008 che, nell’affermare l’applicabilità alla casualità civilistica del combinato disposto di cui agli artt. 40 e 41 cp. hanno posto a carico del medico l’onere di dimostrare che la malattia pregressa all’intervento abbia cagionato con certezza l’evento infausto, dal momento che nel processo civile la regola probatoria per affermare la responsabilità risarcitoria resta sempre quella del più probabile che non. Ebbene, se il quadro finora delineato, senza dubbio favorevole al paziente era già ritenuto applicabile, pacificamente, alle ipotesi di contratto intervenuto tra paziente e medico (si pensi ai casi di attività ambulatoriale), maggiormente dibattuta è stata a lungo la natura della responsabilità del sanitario dipendente da una struttura sanitaria, privata ovvero pubblica. Dal momento che in tali circostanze il paziente si rivolge, almeno espressamente, alla struttura in via esclusiva, fino al 1999 vigeva un atteggiamento piuttosto indulgenzialista, nel ricondurre la responsabilità del medico all’art. 2043 c.c. e, non solo, nell’applicare analogicamente, per evitare presunte disparità di trattamento, l’art. 2236 c.c. Il superamento della rigida dicotomia tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale che, come noto, fa gravare sul danneggiato la prova del danno evento, del danno conseguenza, del nesso di causalità e della colpa del danneggiante, tuttavia, è derivato nel nostro ordinamento da due fattori. Si suole far riferimento, infatti, alla teoria di derivazione tedesca del contatto sociale, nata per rimediare alla tipicità dell’illecito aquilano, e alla rivalutazione dell’atipicità delle fonti di obbligazione ex art. 1173 c.c. per cui il contatto “procedimentale” tra paziente e medico integra un fatto idoneo a produrre obbligazioni meritevole di tutela perché funzionale a garantire un valore costituzionalmente tutelato come la salute.

Sebbene si tratti di obbligazione senza prestazione, il contatto sociale è molto più assimilabile, quanto a relativo regime, alle obbligazioni contrattuali, concludendo così l’iperbole favorevole al medico anche in questo caso. Nonostante per i medici dipendenti da strutture private già si fosse pervenuti a qualificare in termini di contatto la relativa responsabilità, soltanto nel 1999, appunto, la Cassazione estese la conclusione ai medici, strutturati oppure convenzionati, delle ASL. Dalla visione pan-contrattuale della responsabilità medica, poi, è derivato l’ulteriore corollario del contratto, ovvero, contatto con effetti protettivi verso terzi, se si pone mente alla giurisprudenza sul cd. danno da nascita indesiderata e da vita malformata, rispetto al quale, tuttavia, le recenti sezioni unite hanno escluso la responsabilità del medico nei confronti del feto, una volta nato, per aver omesso di diagnosticare malformazioni congenite, data l’insussistenza del nesso eziologico tra questa condotta e il (preesistente) evento dannoso, liberandolo da pretese risarcitorie di danno da vita malformata o di lesione del diritto all’amore dei genitori. Invero, nonostante la riconduzione ad unità della responsabilità del sanitario nell’alveo dell’art. 1218 c.c., nel tempo si è altresì posto in maniera problematica la qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria in cui il medico opera e la responsabilità della struttura sanitaria per l’attività dei cd. medici di base. Per quest’ultima, la recente giurisprudenza di legittimità ha parlato di sussistenza di un’obbligazione ex legge, perciò sempre ricondotta allo statuto della responsabilità contrattuale, derivante espressamente alla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (l. 833/1978), cui si lega, ex art. 1228 c.c., la responsabilità per inadempimento del professionista, più articolato è stato l’approdo nelle ipotesi di strutture sanitarie private, specie meramente “ospitanti” l’attività del professionista e per quelle pubbliche, se si pensa ai casi di ricovero o di pronto soccorso, dove l’accettazione del paziente è necessitata. Sebbene tale questione tocchi marginalmente il tema che ci occupa, è utile ricordare la soluzione della giurisprudenza prevalente in termini di contratto atipico di spedalità, rispetto al quale la struttura si obbliga (per fatto proprio) a prestare una serie di servizi organizzativi funzionali a garantire la prestazione professionale del medico, rispetto alla quale, tuttavia, in caso di inadempimento del professionista, la prima comunque risponde ex art. 1228 c.c. (per fatto, quindi, altrui).

Dall’analisi svolta, pertanto, fuoriesce un quadro di particolare favore per il paziente, a livello probatorio, tanto che qualcuno ha parlato di collegamento negoziale tra il contratto di spedalità che lega il paziente alla struttura, quello che lega quest’ultima al medico e il contatto tra professionista e paziente. Se, ad oggi, nulla è mutato quanto ai primi due rapporti citati, con il d. Balduzzi prima e con la legge Gelli Bianco poi, il legislatore è pervenuto ad un ripensamento della natura e, di conseguenza, della disciplina della responsabilità medica, in senso extracontrattuale. Invero, tuttavia, la necessità di un secondo intervento normativo abrogativo dell’art. 3 del d.l. citato, è possibile dire che nel 2012 non fosse ancora così pacifica tale conclusione. Nonostante l’art. 3 cit., nel recare l’abolitio criminis parziale per le condotte del sanitario, dunque non solo del medico, osservanti le linee guida ma caratterizzate da colpa lieve, lasciasse fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., quest’ultimo rinvio è stato variamente interpretato. Difatti, mentre ad avviso della giurisprudenza di merito si trattava, inequivocamente, del superamento della teoria del contatto sociale, la giurisprudenza di legittimità ha perseverato nel ribadire il contrario. A sostegno di questa conclusione militava la presunta inconsapevolezza nell’imprecisione tecnico-giuridica del rinvio che, diversamente opinando, avrebbe messo fuori gioco l’art. 2236 c.c. Secondo altra lettura, invero minoritaria, il regime di cui all’art. 2043 c.c. sarebbe stato applicabile soltanto alle azioni civili intentate in sede penale oppure per i soli casi di esonero da responsabilità penale per colpa lieve. Tra i sostenitori della perdurante responsabilità da contatto sociale, poi, si discuteva sul possibile superamento dell’allocazione del rischio della causa ingoia nel caso di piena osservanza delle linee guida da parte del sanitario.

La presenza di un contrasto osteggiato proprio dalla giurisprudenza di legittimità, anche per quanto riguarda i profili penalistici dell’istituto, è stata probabilmente una delle ragioni che ha spinto il legislatore a porre nuovamente mano alla responsabilità del sanitario, fornendone una qualificazione a chiare lettere di tipo extracontrattuale. A differenza del d. Balduzzi, la l. 24/2017, oltre ad avere un approccio generalista, lambendo ogni ramo dell’ordinamento giuridico, dedica un’apposita norma al regime della responsabilità civile. L’art. 7 cit., infatti, stabilisce espressamente il regime del doppio binario, lasciando alla responsabilità ex art. 1218 c.c. (non definita, espressamente, contrattuale) l’obbligazione delle strutture sanitarie, pubbliche o private, e i contratti intercorsi espressamente tra professionista e medico, sulla cui qualificazione, come prima detto, invero non si è mai dubitato. Nonostante l’art. 7 affermi la sussistenza di un regime di solidarietà unidirezionale, nel senso che il paziente potrebbe agire nei soli confronti della struttura per l’intero danno, comunque la tesi del doppio binario scoraggia l’esperibilità del cumulo di azioni, o meglio, del concorso apparente/improprio di azioni. La piattaforma probatoria per agire ex art. 1218 c.c. nei confronti della struttura, infatti, ben potrebbe non bastare a sorreggere una contestuale domanda risarcitoria nei confronti del medico a titolo extracontrattuale. In conclusione, pertanto, si può notare come l’attuale assetto della responsabilità del sanitario, nel segnare un ritorno ad un lontano passato, abbia voluto scongiurare le derive della medicina difensiva, attiva e passiva. Se è vero, tuttavia, che nell’azione ex art. 2043 c.c., ad essere più greve sia non solo l’onere della prova ma anche il termine di prescrizione, che è quinquennale, un affievolimento della concezione riparatoria dell’illecito, in favore del danneggiato, sembra derivare dal dovere per il giudice di tener conto della condotta del sanitario, come osservanza delle linee guida e buone pratiche, nonché dalla rilevanza penale del fatto commesso.


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