Ne bis in idem nell’ottica dei criteri Engel

Ne bis in idem nell’ottica dei criteri Engel

Sommario: 1. Introduzione – 2. Caso Faller e Steinmetz c. Francia – 3. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo – 4. Considerazioni finali

 

 1. Introduzione 

Il principio del ne bis in idem è uno dei maggiori successi del costituzionalismo di matrice liberal-democratica. Il brocardo latino esprime il principio «non due volte per la medesima cosa», secondo cui il giudice non può esprimersi due volte sulla stessa azione, se si è già formata la res iudicata. Facendo un salto indietro nel tempo, forme analoghe al principio sono rinvenibili già nell’orazione di Demostene Adversus Leptinem (355 a.C.) e nel Corpus iuris civilis giustinianeo (529-534 d.C.).[1] In seguito, nel XII secolo trova spazio un principio equivalente nel Common law in relazione alla disputa fra l’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket e il re Enrico II. Becket riteneva che i chierici condannati dalle corti ecclesiastiche erano esenti da ulteriori punizioni da parte dei giudici del re, rifacendosi direttamente al motto di San Girolamo “Dio non giudica due volte per la stessa offesa (391 d.C.). [2] In epoca moderna il principio compare nella Costituzione di molti Paesi, oltre che in vari strumenti di diritto internazionale. 

Il ne bis in idem si manifesta come una forte garanzia di libertà, giacché impedisce che vengano avviati processi paralleli e che un individuo venga processato più volte per uno stesso fatto. Difatti la riproduzione di azioni parallele e la doppia o molteplice ripetizione del giudizio già terminato con una pronuncia definitiva causerebbe non solo incoerenza dell’ordinamento, ma soprattutto minaccia alla tutela della libertà dell’individuo.  

Ma come rilevare un’eventuale violazione del divieto di bis in idem, in caso di concorso tra illecito penale ed illecito amministrativo? 

 2. Caso Faller e Steinmetz c. Francia  

Lo scorso 22 ottobre la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha emesso una pronuncia in tema di ne bis in idem sul caso Faller e Steinmetz c. Francia.[3] I ricorrenti, Bernard Faller e Michel Steinmetz, cittadini francesi, sono medici specializzati in riabilitazione funzionale. Il fondo di assicurazione sanitaria primaria di Colmar (CPAM) ha rilevato che i ricorrenti avevano fatturato per servizi indebiti, e, nel contempo, un’ispezione da parte dell’autorità per la sicurezza nucleare (ASN) ha riscontrato che nel loro studio le radiografie erano state eseguite  da personale privo del necessario diploma. Pertanto l’ufficiale medico capo di Colmar ha presentato una denuncia contro i ricorrenti presso il consiglio regionale dell’Ordine dei medici. La sezione delle assicurazioni sociali del Consiglio regionale dell’Ordine dei medici dell’Alsazia, dunque, è arrivata a vietare loro di prestare assistenza agli assicurati per ventiquattro mesi, di cui dodici con sospensione, emettendo due decisioni in data 28 novembre 2008. I ricorrenti hanno presentato ricorso alla Sezione della previdenza sociale del Consiglio nazionale dell’Ordine dei medici, la quale, con due decisioni del 15 ottobre 2009, ha parzialmente riformato le decisioni del 28 novembre 2008, riducendo la durata della sanzione a quattro mesi, due dei quali sospesi. Nel frattempo i ricorrenti sono stati denunciati anche al pubblico ministero. Il 21 marzo 2014, il Tribunale penale di Colmar ha dichiarato i ricorrenti colpevoli di frode, esercizio illegale della professione e inganno riguardante la natura, la qualità o il regime del servizio, con conseguente condanna di ciascuno a quattro mesi di reclusione con sospensione della pena e ad una multa di 25.000 euro. Il 28 maggio 2015 la Corte d’Appello di Colmar ha confermato la sentenza del 21 marzo 2014 sulla colpevolezza dei ricorrenti per atti di esercizio illecito della professione e di inganno sulla natura, qualità o origine del servizio. In aggiunta li ha anche ritenuti colpevoli di frode nei confronti delle mutue di Colmar, condannando ciascuno dei ricorrenti a una pena detentiva con sospensione della pena di diciotto mesi, al pagamento di una multa di 25.000 euro e al divieto di esercitare la professione di medico per un anno. Infine ha ingiunto loro il pagamento, in solido, alle parti civili dei danni e delle spese.

Di conseguenza i ricorrenti hanno adito la Corte europea dei diritti dell’uomo il 7 ottobre 2016, evocando a loro difesa l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU [4] che sancisce il divieto di essere processati o puniti due volte per lo stesso fatto (ne bis in idem). Ma la Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in comitato di tre giudici, ha dichiarato irricevibili i ricorsi degli interessati, in quanto non sussistente tale violazione. Inoltre la Corte ha ritenuto che la prima delle due condanne non avesse, neanche sul piano sostanziale, natura penale, ai sensi dell’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU. 

3. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo

La questione di cui si occupa la Corte consiste nel rilevare se i ricorrenti, in quanto condannati dagli organi disciplinari dell’Ordine dei medici per cattiva condotta, siano stati condannati per un “reato” ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7. Già in precedenza la sentenza A e B c. Norvegia del 2016 ha specificato che, affinché si determini che una procedura sia penale ai fini dell’art. 4 del Protocollo n. 7, bisogna applicare i tre criteri “Engel” relativi al concetto di “accusa in materia penale”. In effetti la Corte europea dei diritti dell’uomo, al fine di garantire il rispetto degli articoli 6 e 7 della CEDU, con la sentenza Engel e altri contro i Paesi Bassi del 1976[5], ha formulato tre criteri, il primo dei quali si sofferma sulla qualificazione data dal sistema giuridico dello stato convenuto all’illecito contestato. Bisogna considerare, però, che tale indicazione è di valore meramente formale e relativo, dato che la Corte deve comunque controllare la correttezza di tale qualificazione in base ad ulteriori elementi indicativi del carattere penale sull’accusa. In secondo luogo occorre considerare la natura sostanziale dell’illecito commesso. Dunque il giudice deve capire se si tratta di una condotta che viola una norma posta a tutela del funzionamento di una determinata formazione sociale o se, invece, la norma stessa sia stata preposta alla tutela erga omnes di beni giuridici della collettività, tenendo conto anche delle rispettive legislazioni dei vari stati contraenti. Per ultimo bisogna considerare il grado di severità della pena prevista, poiché in una società di diritto appartengono alla sfera penale le privazioni della libertà personale suscettibili di essere imposte quali punizioni, fuorché quelle la cui natura, durata o modalità di esecuzione non possano causare un apprezzabile danno.[6] Un orientamento consolidato della Corte ritiene da tempo che i procedimenti disciplinari non rientrino in quanto tali nella materia penale. Quanto al caso di specie, la Corte rileva che i ricorrenti non sono stati perseguiti per una violazione ricadente nel diritto penale, bensì ai sensi dell’art. 145-1 del codice di sicurezza sociale. Ancora, ritiene che la violazione dell’art. 145-1 della CSS non sia di natura penale. Riguardo al terzo criterio, la Corte afferma che le sanzioni che possono essere previste in applicazione dell’art. 145-2 del CSS non sono penali, poiché includono l’ammonimento, il rimprovero, il divieto temporaneo o permanente di esercitare e, in caso di abuso di onorari, rimborso o rimborso di somme indebite. Infine secondo la Corte risulta evidente che il divieto di fornire assistenza può essere afflittivo, poiché influisce sulla capacità del medico di esercitare la sua professione, ma l’art. 145-2 della CSS non prevede multe o misure di custodia. Ne deriva che la decisione presa contro i ricorrenti, in applicazione delle richiamate norme del codice di sicurezza sociale, non è una condanna per un reato, ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7.

In tale prospettiva, è ritenuta non penale la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione, anche se notevolmente afflittiva, perché non è qualificata come tale dall’ordinamento francese e non si concretizza, in ogni caso, in una privazione della libertà personale né in una multa.

 4. Considerazioni finali

Alla luce di quanto appena esposto, affinché l’accusa possa essere considerata nell’alveo della materia penale, ai sensi dell’articolo 6 della CEDU, è sufficiente che il reato sia di natura penale rispetto alla Convenzione oppure che la sanzione prevista rientri per natura e gravità in ambito penale. È questo l’orientamento prevalente all’interno della giurisprudenza sovranazionale per via del grado di severità del sistema sanzionatorio tale per cui occorre parlare di quantificazione del “tono di afflittività della sanzione. Bisogna tener presente che i criteri Engel sono alternativi e non cumulativi, contemplando la possibilità di adottare un approccio unitario, qualora l’analisi separata di ognuno di essi non permetta di giungere ad una definizione chiara circa la sussistenza di un’accusa in materia penale.[7] Fra i casi più ostici trattati dalla Corte di Strasburgo negli ultimi anni che coinvolgono l’Italia in tema di qualificazione della sanzione vi è senza dubbio la sentenza Grande Stevens e altri c. Italia del 2014.[8] Il caso vede coinvolti tre cittadini italiani (il celebre legale della famiglia Agnelli Franzo Grande Stevens, il dirigente d’azienda Gianluigi Gabetti e l’amministratore delegato dell’Exor s.p.a. Virgilio Marrone) e due società (la Exor S.p.a. e la Giovanni Agnelli & C. S.a.s.) che hanno adito la Corte il 27 marzo 2010 sulla base dell’articolo 34 della CEDU. I ricorrenti lamentavano la violazione del divieto del bis in idem per irrogazione di una seconda sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale; la violazione del diritto al rispetto dei loro beni; il difetto di equità, indipendenza e imparzialità del tribunale presso cui avevano avuto luogo i procedimenti giudiziari. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che, a fronte del criterio della qualificazione giuridica formale dell’illecito, le manipolazioni di mercato attribuite ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB non configurano un illecito di natura penale nel diritto italiano. Esse, infatti, sono punite attraverso l’irrogazione di una sanzione qualificata come amministrativa dall’articolo 187 ter punto 1 del D. lgs. n. 58 del 1998. Inoltre la Corte ha affermato, preliminarmente, che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 risulta del tutto applicabile all’Italia, ribadendo in questo modo come il criterio della qualificazione formale non debba ritenersi decisivo ai fini dell’applicabilità del profilo penale dell’articolo 6 della CEDU, poiché le indicazioni che fornisce hanno un valore relativo. Di conseguenza secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo le pene afflitte e quelle comminabili ai ricorrenti da parte della CONSOB, a causa del loro grado di severità, rientrano nell’ambito della materia penale, precisando un punto importante: il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori punibile la persona interessata e non alla gravità della sanzione alla fine in concreto inflitta.[9] La sentenza richiama alla memoria che i criteri Engel già «a partire dal caso Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, sono stati ritenuti parametri idonei a rivelare la sostanziale essenza penale di un determinato illecito, nonostante il nomen iuris adottato dal legislatore nazionale»[10]. Secondo il dictum della Corte le sanzioni inflitte ai ricorrenti sono di “innegabile severità” per aver cagionato agli interessati conseguenze patrimoniali importanti e sanzioni accessorie molto serie, ragion per cui sono state qualificate come penali le sanzioni inflitte nel procedimento amministrativo. 

In conclusione non solo il dato formale, tra l’altro variabile da ordinamento a ordinamento, denota una disciplina punitiva in termini penali, quanto piuttosto il carattere afflittivo della misura sanzionatoria conseguente alla violazione di una norma. I c.d. Engel criteria elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo costituiscono ormai un caposaldo nella giurisprudenza di Strasburgo e sono stati altresì pienamente condivisi dalla Corte di giustizia europea, la quale ricorda che nel valutare la «natura penale di procedimenti e di sanzioni (…) sono rilevanti tre criteri (…)»[11]. La Corte di giustizia europea dichiara che gli Stati membri sono liberi di ricorrere contestualmente a misure amministrative e penali, sempre che «la formale qualificazione delle prime non celi in realtà un’indebita duplicazione punitiva, in spregio al divieto di doppio giudizio», sottolineando la rilevanza degli criteri Engel, che, in tal caso, porterebbero l’interprete a credere di essere di fronte ad una violazione del divieto di bis in idem ex art. 50 della Carta[12]. Infine «la valutazione sulla compatibilità del cumulo di sanzioni con il ne bis in idem spetta in via prioritaria al giudice nazionale», che può affidarsi agli standard di tutela interni, «purché ciò non infici il livello di protezione assicurato dalla Carta ed il primato del diritto dell’Unione Europea»[13]. 

 


[1] Costanzo P e Trucco L, Il principio del ne bis in idem nello spazio giuridico nazionale ed europeo, Consulta Online, 2015. Disponibile a http://www.giurcost.org/studi/costanzotrucco.pdf
[2] Meccarelli M., Le categorie dottrinali della procedura e l’effettività della giustizia penale nel tardo medioevo, Open Edition Books. Disponibile a https://books.openedition.org/efr/1842
[3] C. Eur. Dir. Uomo, 22 ottobre 2020 – Ricorsi nn. 59389/16 e 59392/16 – Causa Faller e Steinmetz c. Francia. Disponibile a https://hudoc.echr.coe.int/fre-press#%20
[4] Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, Strasburgo, 22 novembre 1984, Traduzione ufficiale della Cancelleria federale della Svizzera. Disponibile a https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/-/conventions/rms/090000168007a0f7
[5] Corte EDU, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976. Disponibile a www.hudoc.echr.coe.int
[6] Matilde Brancaccio, Rel. n. 35/2014, Corte di Cassazione – Ufficio del ruolo e del massimario, 8 maggio 2014, Roma. Disponibile a https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_pen_35_2014.pdf
[7] Stefano Zoccali, La giurisprudenza sovranazionale e l’applicazione dei c.d. “criteri Engel”: un’analisi storica sull’evoluzione della qualificazione della norma penale fra Corte Edu e Corte di Giustizia dell’Unione europea in materia di “ne bis in idem”, ISSN 2421-0730 numero 1 – giugno 2019, Ordines per un sapere interdisciplinare sulle istituzioni europee. Disponibile a http://www.ordines.it/wp-content/uploads/2019/08/ZOCCALI-ORDINES.pdf
[8] Sentenza della CEDU, 4 marzo 2014, Ricorso n. 18640/10 – Grande Stevens e altri c. Italia. Disponibile a https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22fulltext%22:[%22grande%20stevens%22],%22sort%22:[%22EMPTY%22],%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22itemid%22:[%22001-141794%22]}
[9] Stefano Zoccali, op. cit.
[10] Corte EDU, Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1985, in Riv. it. dir. proc. pen., 1985, 894, con nota di C.E. Paliero,“Materia penale” e illecito amministrativo secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: una questione classica e una svolta radicale.
[11] CGUE, 20 marzo 2018, Menci, (C-524/15), § 26, in questa Rivista, 21 marzo 2018, con richiami alla giurisprudenza eurounitaria monoliticamente orientata in conformità. Disponibile a http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=205207&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=1475502
[12] Carta dei diritti fondamentali dell’UE, Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, (2000/C 364/01). Disponibile a https://www.europarl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf. V. anche CGUE, 26 febbraio 2013, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson (C-617/10). Disponibile a https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62010CJ0617&from=EN
[13] Gaetano De Amicis, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza Grande Stevens nell’ordinamento italiano. Corte Suprema di Cassazione, Tavola rotonda su ”Il principio de ne bis in idem tra giurisprudenza europea e diritto interno”, Roma, 23 giugno 2014. Disponibile a http://www.europeanrights.eu/public/commenti/De_Amicis_testo_23_giugno_2014.pdf

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