«Noli me tangere»: aspetti problematici del fine vita

«Noli me tangere»: aspetti problematici del fine vita

«Noli me tangere»: aspetti problematici del fine vita alla luce dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207/2018

di Andrea Marchesi[1]

Il progresso della tecnologia e della scienza medica, non sempre accompagnato nel nostro Paese da una parallela evoluzione dell’ordinamento giuridico, ha suscitato negli ultimi anni un serio dibattito etico e sociale sulle questioni connesse al fine vita.

Obiettivo del presente contributo è quello di fornire un’analisi dell’attuale panorama normativo e giurisprudenziale alla luce dell’ordinanza della Corte Costituzionale n. 207/2018, delineandone, per quanto possibile, gli aspetti di innovazione e le, purtroppo ancora numerose, criticità dovute anche alle complesse implicazioni etiche e morali sottese al tema.

In primo luogo, si impone una distinzione di fondo tra eutanasia attiva, tuttora non consentita nel nostro ordinamento, ed eutanasia passiva, intesa quale rifiuto alle cure, recentemente riconosciuta dalla nuova legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (L. 22.12.2017, n. 219)[2].

Quanto all’eutanasia attiva, il Codice Penale all’art. 579 (rubricato “omicidio del consenziente”), punisce con la reclusione da sei a quindici anni “chiunque cagiona la morte di un uomo col consenso di lui”. Appare quindi evidente che, laddove non sia in corso alcun trattamento terapeutico suscettibile di essere sospeso o interrotto, il soggetto che desideri porre fine alla propria vita perché non ritenuta più rispondente a suoi personali canoni di dignità e di decoro, non potrebbe ricorrere all’aiuto di un terzo se non esponendo quest’ultimo a responsabilità penale.

Ciò senza contare che, laddove il Giudice non dovesse ritenere il consenso dell’avente diritto validamente espresso (si pensi all’ipotesi del soggetto le cui condizioni psico-fisiche siano tali da poterne influenzare i processi di volizione e di auto-determinazione), l’ipotesi di reato configurabile nella fattispecie sarebbe addirittura quella di omicidio doloso (art. 575 Cod. Pen.) magari aggravato per avere commesso il fatto contro l’ascendente o il discendente (art. 576, c. 1, n. 2, Cod. Pen.), con conseguente inasprimento del trattamento sanzionatorio (in tal caso, infatti, la pena prevista è l’ergastolo)[3].

Sul punto, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato, in un primo momento, l’impossibilità di desumere dal testo della Convenzione, e in particolare dall’art. 2, un generico «diritto a morire» che possa prescindere da un trattamento terapeutico in atto (“no right to die can be derived from article 2 of the Convention” – cfr. Corte EDU, Sez, IV, 29.04.2012, ric. n. 2346/2002, Pretty c. Regno Unito).

Recentemente, tuttavia, la medesima Corte ha avuto occasione di tornare sul tema riconoscendo, sulla base dell’art. 8 della Convenzione, la possibilità di configurare uno specifico “diritto dell’individuo di decidere il mezzo e il momento in cui la sua vita deve finire” (Corte EDU, Sez. I, 20.11.2011, ric. n. 31322/2007, Haas c. Svizzera), aprendo così la strada ad un vivace dibattito sull’eutanasia attiva e sulle condizioni idonee a legittimarla (cfr., in particolare, Corte EDU, Sez. II, 14.05.2013, ric. n. 67810/2010, Gross c. Svizzera).

Parallelamente si è sviluppata un’approfondita riflessione sull’eutanasia passiva, intesa quale possibilità per il paziente di decidere liberamente se e quando sospendere o interrompere un trattamento terapeutico in atto, ancorché di natura salvavita.

In Italia la questione è stata sottoposta all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito delle vicende che hanno interessato, in particolare, Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Proprio con riferimento a quest’ultima situazione, che ha suscitato grande clamore anche mediatico, la Corte Suprema di Cassazione, con la nota sentenza n. 21748, del 16.10.2007, ha affermato il pieno diritto del paziente a rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico in atto (ancorché limitato alla sola idratazione e nutrizione artificiale) quale espressione dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 2, 32, comma 2, e 13, comma 1, della Carta Costituzionale.

Qualora il paziente non sia più in grado di esprimere validamente il proprio consenso al trattamento, la manifestazione di tale volontà spetta al tutore il quale sarà tenuto a dimostrare l’irreversibilità dello stato vegetativo in cui versa l’ammalato, nonché a ricostruire la volontà del soggetto sulla base di elementi quanto più possibile univoci ed oggettivi (c.d. «substituted judgement test»).

La recente legge n. 219/2017 ha avuto il pregio di codificare, a distanza di oltre un decennio dal citato pronunciamento della Suprema Corte, i principi enucleati dalla giurisprudenza di legittimità e, più di recente, ribaditi anche dalla Corte EDU[4], attribuendo alla comunicazione medico-paziente valore di “tempo di cura” (art. 1, comma 8), sottolineando l’imprescindibile rilevanza di un consenso realmente informato onde legittimare qualsiasi intervento sanitario (art. 1, comma 3) e introducendo un esplicito divieto nei confronti del cosiddetto “accanimento terapeutico”, inteso quale trattamento il cui unico effetto sia quello di tenere in vita il paziente senza migliorarne il quadro clinico (art. 2, comma 2).

I nodi scoperti della novella legislativa sono stati da subito messi in luce con estremo rigore e chiarezza dalla giurisprudenza di merito, la quale non ha mancato di evidenziare le criticità insite, in particolare, nell’attribuire al tutore / amministratore di sostegno la possibilità di esprimere o rifiutare il consenso in luogo del paziente pur in assenza di un preventivo vaglio da parte del Giudice tutelare, previsto solo in caso di dissenso manifestato dal medico curante rispetto alle scelte del tutore / amministratore di sostegno (cfr. art. 3, commi 4 e 5; Trib. Pavia, Ord. 24.03.2018 – n. 933/2008 R.G.V.).

Tale lacuna si potrebbe invero colmare, a parere di chi scrive, anticipando tale scrutinio da parte del Giudice Tutelare già al momento della nomina del tutore o dell’Amministratore di Sostegno con funzioni di rappresentanza esclusiva dell’amministrato in ambito sanitario, effettuando in quella sede, e nello specifico al momento dell’esame del beneficiario, un’attenta valutazione circa le effettive convinzioni di quest’ultimo in merito alle questioni connesse al fine vita, così da individuare preventivamente e nel contraddittorio tra le parti una soluzione in linea con le convinzioni dell’amministrato.

Diversamente non si potrebbe che ricorrere a soluzioni alternative, proprie del diritto anglosassone (Airedale N.H.S. Trust c. Bland [1993] – A.C. 789 House of Lords), volte a valorizzare il cosiddetto «best interest» del paziente inteso in termini di efficacia e utilità della terapia in atto, sospendendo il trattamento ogniqualvolta questo sia diventato «futile» (per analoghe applicazioni di tale principio nel delicato ambito dell’eutanasia pediatrica si pensi alle recenti vicende che hanno coinvolto Alfie Evans e Charlie Gard).

Un’altra problematica rimasta, purtroppo, irrisolta a seguito dell’entrata in vigore della L. 219/2017 riguarda le fattispecie in cui l’eutanasia passiva non si traduca in un semplice atto omissivo (i.e. non avviare o proseguire un trattamento sanitario), ma si sviluppi in un momento necessariamente commissivo (p.e. indurre la cosiddetta “morte pietosa”), ipotesi in cui viene in rilievo la fattispecie penalmente rilevante dell’aiuto al suicidio (art. 580 Cod. Pen.) così come declinata da diritto vivente (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 06.02.1998, n. 3147).

Sul punto sono stati sollevati dalla Corte di Assise di Milano dubbi circa la legittimità costituzionale del richiamato art. 580 Cod. Pen. nella parte in cui delinea il medesimo trattamento sanzionatorio tanto per colui il quale istiga o comunque rafforza l’altrui proposito suicidario, quanto nei confronti di chi si limita ad agevolare la realizzazione della volontà di un soggetto ormai scientemente e consapevolmente auto-determinatosi al suicidio (cfr. Corte di assise di Milano, Ord. 14.02.2018 – p.p. n. 9609/2017 R.G. N.R.).

A fronte di tali perplessità la Corte Costituzionale, a seguito dell’udienza pubblica svoltasi lo scorso 23.10.2018, è intervenuta con l’ordinanza n. 207/2018, le cui motivazioni sono state depositate il 16.11.2018, con la quale, dopo avere passato in rassegna la vigente legislazione anche in prospettiva comparata, ha evidenziato come: “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale” (cfr. Corte Cost., Ord. 207/2018).

Consapevole, tuttavia, dei rischi connessi ad una legittimazione del suicidio assistito in assenza di un apposito intervento normativo[5], il Giudice delle Leggi evidenzia come: “al riscontrato vulnus ai principi sopra indicati [artt. 2, 3, 13, 32, comma II, Cost., n.d.r.] questa Corte ritiene, peraltro, di non poter porre rimedio, almeno allo stato, attraverso la mera estromissione dall’ambito applicativo della disposizione penale delle ipotesi in cui l’aiuto venga prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte” (ibidem), sollecitando, nell’esercizio dei “propri poteri di gestione del processo costituzionale”, un intervento del Legislatore e l’avvio di un confronto parlamentare sul tema in vista della prossima udienza fissata per il 24.09.2019.

Le criticità rilevate dalla Consulta costituiscono, invero, il principale limite del recente intervento legislativo (L. 219/2017) che, pur valorizzando il consenso e la volontà del paziente, non si è spinto fino a scriminare la condotta del soggetto che, proprio al fine esclusivo di agevolare tale volontà coscientemente e liberamente formatasi, agisca allo scopo di realizzarla.

Si tratta di un limite che, ad avviso di chi scrive, impedisce di attribuire effettività alla scelta (lecita) del paziente di porre immediatamente fine ad un trattamento terapeutico laddove tale interruzione presupponga un atto commissivo (tuttora illecito) da parte di un soggetto terzo chiamato ad attuare tale volontà, in tal modo costringendo il “paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità di morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care” (cfr. Corte Cost., Ord. 207/2018).

Non ci resta, quindi, che attendere l’intervento del Legislatore, chiamato a pronunciarsi al riguardo, confidando nel fatto che un attento e pacato dibattito parlamentare riesca a dipanare il cortocircuito prodotto dal recente intervento normativo così da attribuire effettività ad un diritto che, altrimenti, rischia di restare inattuabile e, in quanto tale, dotato di efficacia solo formale.


[1] Avvocato del Foro di Bergamo.

[2] Al riguardo, va segnalato anche l’intervento del Consiglio di Stato, comm. spec., 31.07.2018, n. 1991, in risposta ai quesiti sottoposti dal Ministero della Salute in merito alle Disposizioni anticipate di trattamento (cd. D.A.T.).

[3] Recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha escluso l’applicabilità a tali fattispecie dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 1, Cod. Pen. (“avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale”) ritenendo che: “Nella attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo. Non può quindi essere ritenuta di particolare valore morale la condotta di omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica” (Cass. Pen., Sez. I, 07.06 – 07.11.2018, n. 50378).

[4] Corte EDU, Grande Chambre, 05.06.2015, ric. n. 46043/2014, Lambert c. Francia.

[5] Per un’efficace panoramica del tema si suggerisce la lettura di Del Fabbro A., Vi perdono, G. Einaudi Editore, 2009, dal quale è stata tratta la riduzione cinematografica Miele (2013) diretta da Valeria Golino.


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