Nullità urbanistica e divisione ereditaria

Nullità urbanistica e divisione ereditaria

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25021 del 7 ottobre 2019, hanno statuito importanti principi di diritto in materia di scioglimento della comunione.

La vicenda. La pronuncia nasce da un’azione di divisione, avanzata dalla curatela del fallimento di un imprenditore nei confronti dei di lui fratellli, avente a oggetto un fabbricato proveniente dalla successione legittima del comune genitore.

Sia il giudice di prime cure che la Corte di Appello rigettano la domanda attorea, in quanto, qualificando lo scioglimento della comunione ereditaria come atto tra vivi e, pertanto, soggetto alle norme di cui agli articoli 17 e 40 della legge n. 47 del 1985, ritengono di non poter disporre lo scioglimento de quo dal momento che il fabbricato, oggetto di divisione, era stato sopraelevato, tra il 1970 e il 1976, in assenza di concessione edilizia.

A seguito di tali pronunce, la curatela propone ricorso in Cassazione lamentando che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria, da un lato, non è tra quelli per cui l’articolo 40, secondo comma, legge n. 47/1985 commina la sanzione della nullità e, dall’altro, non va incluso tra gli atti tra vivi, in conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con conseguente non applicazione degli articoli 17 e 40 della legge n. 47/1985.

La seconda sezione della Corte di Cassazione rileva l’esistenza di diverse questioni di massima di particolare importanza sottese al ricorso, per cui la vicenda viene sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte.

Le questioni di diritto e il decisum. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, esaminato il ricorso, ritengono che ci siano due questioni di diritto, distinte ma comunque collegate tra loro, da considerare.

Prima questione: le SS.UU. sono chiamate a stabilire se, tra gli atti tra vivi per i quali l’articolo 40, comma 2, legge n. 47/1985 commina la sanzione della nullità al ricorrere di determinate condizioni (l’assenza delle cd. menzioni urbanistiche), siano da ritenersi compresi o meno gli atti di scioglimento delle comunioni.

Occorre premettere che il privato che intenda esercitare lo jus edificandi è tenuto a chiedere alla pubblica amministrazione il permesso di costruire, quale titolo autorizzativo, di cui all’articolo 10 del TU sull’edilizia. La mancanza dell’autorizzazione amministrativa si riflette anche sugli atti tra vivi relativi a edifici abusivi, se non sanati. Difatti, la legge n. 47/1985 “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”, prevede la nullità degli atti tra vivi relativi a edifici mancanti del permesso di costruire o del permesso in sanatoria.

Giova precisare che le disposizioni che comminano la sanzione della nullità sono due: l’articolo 40, comma 2, legge n. 47/1985, relativo ai fabbricati costruiti prima del 17 marzo 1985 (data di entrata in vigore della legge n. 47/1985), e l’articolo 46 del D.P.R. n. 380/2001, con cui è stato adottato il Testo Unico in materia edilizia (che ha abrogato e sostituito l’articolo 17 della legge n. 47/1985), relativo ai fabbricati costruiti dopo il 17 marzo 1985.

Sul punto si evidenzia che la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, hanno recentemente statuito che la nullità prevista dalle suddette disposizioni deve qualificarsi come nullità “testuale”, rientrante nell’alveo dell’articolo 1418, terzo comma, cod. civ. Sanzione che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, attesa la mancata inclusione in tali atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile a quell’immobile. Dunque, se nell’atto vi è la dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile al bene immobile, il contratto è valido a prescindere dalla conformità o dalla difformità della costruzione al titolo menzionato (Cass., Sez. Un., n. 8230/2019).

Tornando alle norme in esame, esse differiscono, non solo per il diverso ambito applicativo dovuto alla collocazione temporale degli abusi edilizi, ma anche per la diversa formulazione utilizzata dal legislatore, da cui nasce la questione sottoposta alle odierne Sezioni Unite.

La prima disposizione, nel prevedere la sanzione della nullità, fa riferimento, genericamente, agli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali, esclusi solo quelli di costituzione, modificazione ed estinzione di diritti di garanzia o di servitù, mentre l’articolo 46 fa espresso riferimento anche agli atti tra vivi aventi ad oggetto lo scioglimento della comunione di diritti reali. Proprio questa mancanza di coincidenza tra il testo delle due disposizioni induce la giurisprudenza di legittimità a concludere per la non nullità degli atti di scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa a edifici abusivi, non sanati, realizzati prima del 17 marzo 1985 (Cass., sent. n. 14764/2005).

Si ritiene, in altri termini, che solo l’articolo 46 D.P.R. n. 380/2001 sia applicabile agli atti di scioglimento della comunione e non anche l’articolo 40, secondo comma, l. n. 47/1985.

La conseguenza di tale premessa è che nessuna nullità può essere comminata per gli atti di scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativi a edifici abusivi, non sanati, realizzati prima dell’entrata in vigore della legge del 1985.

Di tutt’altro avviso, invece, sono le SS.UU., che ritengono l’espressione “atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali […] relativi ad edifici o loro parti”, utilizzata nell’articolo 40, secondo comma, l. n. 47/1985, comprensiva di tutti gli atti inter vivos aventi per oggetto diritti reali relativi a edifici, inclusi gli atti di scioglimento della comunione. L’omogeneità delle situazioni disciplinate dalle due norme esclude che si possa ragionare diversamente, incorrendo, altrimenti, in una irragionevole differenza di trattamento degli atti in base al periodo di realizzazione degli edifici abusivi.

Restano comunque esclusi dall’ambito di applicazione di entrambe le norme gli atti mortis causa e, tra quelli inter vivos, gli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti di garanzia o di servitù.

Ne consegue l’enunciazione del seguente principio di diritto: “gli atti di scioglimento delle comunioni relative ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dall’art. 40, comm 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima dell’entrata in vigore della legge 47 del 1985 dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria ovvero ai quali non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell’opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967”.

Seconda questione: acclarato che lo scioglimento della comunione debba ritenersi incluso tra gli atti tra vivi per i quali l’articolo 40, comma secondo, l. n. 47/1985 commina la sanzione della nullità in presenza delle condizioni ivi previste, le SS.UU. passano a stabilire se, nel novero di tali atti, rientrino solo quelli di scioglimento della comunione ordinaria o anche quelli di scioglimento della comunione ereditaria. È evidente che, in caso di conclusione positiva, anche questi ultimi saranno soggetti alla sanzione di nullità in materia di menzioni urbanistiche.

Sul punto, l’orientamento della Suprema Corte è nel senso di ritenere l’atto di scioglimento della comunione ereditaria un negozio assimilabile agli atti mortis causa, sottratto, pertanto, alla disciplina di cui alla legge n. 47/1985.

Le Sezioni Unite ritengono di non poter aderire a tale conclusione.

Premesso che la morte dell’autore del negozio è l’evento che connota gli atti mortis causa e che determina la produzione dei relativi effetti, il contratto di scioglimento della comunione ereditaria non può rientrare tra i suddetti atti.

L’atto di divisione ereditaria, infatti, produce i propri effetti indipendentemente dalla morte del de cuius, che costituisce un fatto i cui effetti giuridici si sono esauriti con il sorgere della comunione o con l’eventuale divisione disposta dal testatore. È lo scambio dei consensi espresso dai condividenti a far sì che la divisione produca i propri effetti e dalla volontà degli stessi eredi (e non da quella del de cuius) dipende il contenuto dell’atto di divisione.

Si tratta, dunque, di un tipico atto inter vivos, da assimilarsi, quanto a natura ed effetti, all’atto di scioglimento della comunione ordinaria, atteso che entrambi rappresentano contratti plurilaterali ad effetti reali e con funzione distributiva, con cui i contraenti si ripartiscono le cose comuni proporzionalmente alle rispettive quote, facendo cessare la contitolarità in cui si trovano relativamente a uno o a più beni.

In altri termini, secondo le Sezioni Unite, la diversa origine della comunione non muta né la natura né gli effetti del negozio divisorio.

Non può ritenersi che lo scioglimento della comunione ereditaria sia l’evento terminale della vicenda successoria e, come tale, non autonomo rispetto ad essa. Innanzitutto perché gli eredi potrebbero decidere di rimanere in comunione, per cui lo scioglimento si pone come atto “eventuale”, e poi il fatto che un negozio si inserisca nella vicenda successoria non comporta che esso debba essere qualificato mortis causa. Occorre tener conto che la successione si perfeziona con le accettazioni dell’eredità da parte dei chiamati, momento in cui si esaurisce il fenomeno successorio, rimanendo estranee, rispetto ad esso, le vicende negoziali successive.

Altro argomento, evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, a supporto della tesi che vede l’atto di scioglimento della comunione ereditaria avente ad oggetto un edificio abusivo o parti di esso non assimilabile all’atto di scioglimento della comunione ordinaria e, pertanto, a differenza di quest’ultimo, non colpito dalla nullità in assenza delle menzioni urbanistiche, è che, ragionando diversamente, si giungerrebbe ad una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi, ritenuta omogenea, che vede lo stesso testatore operare la divisione (caso in cui non si applica la sanzione della nullità).

Orbene, le Sezioni Unite affermano che l’omogeneità va ravvisata unicamente nel fatto che in entrambi i casi si provvede all’apporzionamento, ma diversa rimane la natura degli atti attraverso cui si realizza lo stesso: divisione testamentaria, in un caso, quale atto mortis causa, in quanto nasce dalla volontà del testatore e produce i propri effetti, ipso iure, con la morte del testatore e con l’apertura della successione; divisione contrattuale, nell’altro caso, quale negozio tra vivi, in quanto scaturisce dalla volontà degli eredi e produce i propri effetti indipendentemente dall’evento morte.

Continuano le Sezioni Unite, la ratio delle disposizioni di cui si discute è quella di impedire la negoziazione dei diritti reali sugli immobili abusivi con atto tra vivi, e, viceversa, consentire la loro trasmissibilità iure ereditatis (in nome della certezza e stabilità dei rapporti giuridici). Ne consegue che è assolutamente normale che sia consentito al testatore dividere tra i propri eredi l’immobile abusivo di cui è proprietario, mentre la stessa operazione non sia consentita agli eredi mediante la stipula di un apposito contratto. Come il de cuius non avrebbe potuto alienare a terzi l’edificio abusivo o dividerlo con un eventuale comproprietario, così gli eredi (che acquistano, con la comunione ereditaria, il fabbricato abusivo nel medesimo stato di fatto e di diritto in cui era posseduto dal defunto) non possono alienare a terzi o dividere il bene finchè l’abuso non venga sanato o materialmente eliminato.

Altro argomento a supporto della tesi della non soggezione dell’atto di scioglimento della comunione ereditaria, avente ad oggetto un edificio abusivo o parti di esso, alle disposizioni di cui agli articoli 46 del D.P.R. n. 380/2001 e 40 della l. n.47/1985 è quello della efficacia retroattiva della divisione.

Ai sensi dell’articolo 757 cod. civ., il singolo erede è considerato proprietario esclusivo del bene assegnatogli in sede di divisione con efficacia ex tunc, ovvero fin dal momento dell’apertura della successione, come se non fosse stato oggetto di comunione tra gli eredi. Il legislatore ha inteso ricondurre gli effetti dell’atto di assegnazione dei singoli beni, oggetto di comunione, al momento dell’apertura della successione al fine di assicurare la continuità della titolarità dei beni tra il defunto e l’erede. Tuttavia, la vis retroactiva non cancella gli altri effetti della comunione e le situazioni attive e passive acquisite dal condividente o dai terzi durante la comunione (si pensi ai frutti naturali della cosa comune, già separati al momento della divisione, che restano oggetto di comunione e non spettano, invece, all’assegnatario del bene che li ha prodotti).

Tali argomentazioni offrono alle Sezioni Unite l’occasione per affrontare la questione della natura (dichiarativa o costitutiva) della divisione. Infatti, la dottrina tradizionale e la giurisprudenza hanno desunto, dall’efficacia retroattiva della divisione, la natura dichiarativa della stessa, in quanto, in forza dell’articolo 757 cod. civ., ciascun erede acquista direttamente dal defunto e non dagli altri condividenti. Riconducendo l’efficacia traslativa al momento dell’apertura della successione, verrebbe a trovare conferma la tesi della natura di atto mortis causa.

In primo luogo, le Sezioni Unite evidenziano che non possono retroagire gli effetti di un atto che si limita a dichiarare o accertare la situazione giuridica già esistente; viceversa, possono retroagire gli effetti di un atto che modifica la realtà giuridica. Ne consegue la stretta relazione tra l’efficacia retroattiva di un negozio e il suo carattere traslativo, costitutivo. Relazione inesistente in caso di carattere meramente dichiarativo.

Giova sottolineare che quanto appena detto trova conferma proprio nello stesso articolo 757 cod. civ., che, infatti, prevede la retroattività anche per i beni pervenuti al coerede “per acquisto all’incanto”, atto, questo, con effetti costitutivi-traslativi.

In secondo luogo, lo scioglimento della comunione, affermano le Sezioni Unite, modifica la realtà giuridica: ogni condividente perde la comproprietà sul tutto e, al contempo, acquista la proprietà individuale ed esclusiva sui beni assegnati. Deve desumersi che la divisione abbia una natura attributiva, che implica la qualifica di atto ad efficacia costitutiva e traslativa.

Se non vi fosse l’articolo 757 cod. civ., il bene acquisito mediante divisione sarebbe sottoposto alle ordinarie regole di ogni contratto traslativo e, pertanto, produrrebbe i propri effetti dal perfezionamento dell’atto di divisione. Il legislatore, per assicurare continuità tra la posizione giuridica del defunto e quella dell’erede assegnatario, fa retroagire gli effetti della divisione al momento dell’apertura della successione. Retrodazione limitata ai soli effetti della divisione, come si desume dalla stessa lettera della norma (ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota), ma non incide sulla natura dell’atto di divisione, che rimane costitutiva.

Inoltre, le Sezioni Unite osservano che l’efficacia retroattiva, sancita dalla norma codicistica, trova pacifica applicazione anche agli atti di scioglimento della comunione ordinaria, in ordine ai quali non vi è dubbio che siano sottoposti alla nullità sancita dall’articolo 46 del D.P.R. n. 380/2001. Ne consegue che non possa invocarsi l’efficacia retroattiva della divisione per sottrarre l’atto di scioglimento della comunione ereditaria alla medesima nullità.

In conclusione, l’atto di divisione determina un mutamento della sfera giuridica del condividente, logicamente e cronologicamente precedente e indipendente rispetto all’effetto retroattivo, che conferma come l’atto non abbia causa ricognitiva di effetti giuridici già verificatisi, ma al contrario natura costitutivo-traslativa. Il condividente diviene unico titolare del bene ricadente in comunione solo in forza di un procedimento, contrattuale o giudiziale, che abbia determinato, con effetti costitutivi, lo scioglimento della comunione.

Come tale è quindi assimilabile a quelli (aventi appunto natura traslativa) per i quali la L. n. 47/1985 e il D.P.R. n. 380/2001 comminano la sanzione della nullità, se hanno ad oggetto edifici abusivi o parti di essi.

In tal senso depongono sia la lettera dell’articolo 46 del D.P.R. n. 380/2001, che prevede espressamente la nullità dell’atto di scioglimento della comunione avente ad oggetto edifici abusivi, senza distinguere tra comunione ordinaria ed ereditaria, sia la considerazione che il legislatore, quando ha voluto sottrarre le divisioni ereditarie all’applicazione della normativa dettata in tema di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, lo ha previsto espressamente (si pensi all’articolo 30 del D.P.R. n. 380/2001).

Non sussistono, quindi, ragioni per sottrarre lo scioglimento della comunione ereditaria alla comminatoria di nullità di cui all’articolo 46 del D.P.R. n. 380/2001 e all’articolo 40 della l. n. 47/1985, in linea con l’intento del legislatore di contrastare gli abusi edilizi, colpendo la negoziabilità dell’immobile con la nullità.

Sulla base di quanto osservato, le Sezioni Unite risolvono il secondo quesito con l’enunciazione del seguente principio di diritto: “Gli atti di scioglimento della comunione ereditaria sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità, prevista dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, (già L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 17) e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o a loro parti dai quali non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria”.

Per una disamina completa della sentenza n. 25021/2019, occorre fare accenno, altresì, agli ulteriori principi di diritto enunciati in essa. Difatti, le Sezioni Unite si soffermano sulle implicazioni che le conclusioni, cui si è giunti in tema di scioglimento della comunione ereditaria, hanno in punto di divisione giudiziale dell’eredità.

La prima questione da analizzare è l’applicabilità del regime previsto per la divisione convenzionale alla divisione giudiziale dell’eredità.

La Corte risolve in senso affermativo, rammentando che già in passato aveva chiarito che la norma di cui all’articolo 17, primo comma, della l. n. 47/198 (l’attuale articolo 46, primo comma, del D.P.R. n. 380/2001) si applica sia alle divisioni contrattuali sia a quelle giudiziali, consentendo, concludendo diversamente, l’elusione della norma imperativa, mediante il ricorso al giudice. La regolarità edilizia dell’edificio è posta a tutela dell’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio e, pertanto, si pone come presupposto giuridico tanto della divisione convenzionale quanto della divisione giudiziale.

Ne segue il seguente principio di diritto: “Quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio”.

La seconda questione da esaminare attiene alla possibilità di procedere ad una divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, escludendo il cespite abusivo. Ciò, ad una prima analisi, parrebbe escluso, stante il principio di universalità della divisione ereditaria, secondo cui essa deve comprendere tutti i beni che fanno parte dell’asse ereditario. Principio, questo, non espressamente sancito, ma desumibile dal sistema e che trova la sua giustificazione nell’esigenza di garantire agli eredi l’attribuzione di porzioni tra loro omogenee e proporzionali ai valori delle rispettive quote di partecipazione alla comunione.

Tuttavia, a ben vedere, il legislatore prevede espresse eccezioni al suddetto principio (si vedano gli articoli 713, comma 3, 720, 722 e 1112 cod. civ.), nonché lo stesso può essere derogato dall’accordo unanime dei condividenti. Difatti, la norma di cui all’articolo 762 cod. civ. sancisce la piena validità ed efficacia della divisione parziale, laddove dispone che l’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma comporta unicamente il dover poi procedere ad un supplemento della stessa.

Sulla base di tali considerazioni, la giurisprudenza di legittimità già da tempo ritiene possibile una divisione parziale dei beni ereditari, sia laddove vi sia un apposito accordo tra tutti i coeredi, sia allorquando venga richiesta da uno dei coeredi e gli altri non chiedano, a loro volta, la divisione dell’intero asse ereditario (Cass., Sez. Un., n. 1323/1978; Cass., Sez. Un., n. 1145/1977). In caso di divisione parziale, quanto viene assegnato a ciascun condividente ha natura di acconto sulla porzione spettante in sede di divisione definitiva, mentre i restanti beni rimangono in comunione.

Deve concludersi, dunque, per l’ammissibilità della divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario con esclusione dell’immobile abusivo, su concorde volontà di tutti i coeredi; esclusione che rende l’atto di scioglimento della comunione conforme alle disposizioni di cui agli articoli 46, D.P.R. n. 380/2001 e 40, l. n. 47/1985.

Resta da stabilire se uno dei coeredi possa validamente opporsi alla domanda di divisione giudiziale parziale dell’asse ereditario, che vede l’esclusione dell’immobile abusivo, proposta da un altro coerede.

Sul punto le Sezioni Unite affermano che, quando tutti i beni ereditari sono giuridicamente divisibili, il diritto di ciascun coerede di chiedere la divisione parziale dei beni comuni debba essere conciliato con il diritto degli altri coeredi di ottenere la divisione dell’intera eredità. È dal diritto di ciascuno a ottenere la divisione di tutto quanto ricade in comunione che consegue l’ammissibilità della divisione parziale, solo su concorde volontà di tutti i coeredi.

Tuttavia, diverso è il caso in cui, tra i beni ereditari, vi sia un edificio abusivo. In tale ipotesi, la domanda di divisione parziale non è dettata da una scelta di convenienza del singolo coerede, ma intende adeguarsi alla normativa che ne vieta la negoziabilità. Pertanto, non può riconoscersi rilevanza alla volontà del coerede che si oppone alla domanda di divisione dell’eredità, che esclude il bene abusivo. Ne consegue una compressione del diritto del coerede di scioglimento della comunione circoscritta al solo bene abusivo, ma non riguarda gli altri beni, per i quali il coerede ha diritto di chiedere e ottenere il suddetto scioglimento (ai sensi dell’articolo 713, comma 1, cod. civ.).

Sul punto la Suprema Corte statuisce quindi il seguente principio di diritto: “allorquando tra i beni costituenti l’asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, ai sensi dell’art. 713 c.c., comma 1, di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l’intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, anche ove non vi sia il consenso degli altri condividenti“.

Dai principi enunciati ne discende, altresì, che l’atto di scioglimento della comunione ereditaria è incluso negli atti tra vivi per i quali gli articoli 46, D.P.R. n. 380/2001 e 40, l. n. 47/1985 prevedono la sanzione della nullità.

Infine, l’odierna pronuncia si sofferma sull’ultima censura sollevata dalla curatela fallimentare, ovvero l’erronea interpretazione, fatta dalla Corte territoriale, delle disposizioni in esame, laddove esse sottraggono, alla sanzione di nullità, gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali.

La Corte di Appello nega la divisione dell’edificio abusivo chiesta dalla curatela, nell’interesse dei creditori, poiché ritiene che non rientri tra “gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari individuali o concorsuali”, che si riferirebbero esclusivamente alle vendite. Oltretutto, trattandosi di norme eccezionali, è esclusa l’interpretazione estensiva o analogica.

Ad avviso della curatela, invece, la divisione dei beni del fallito è atto derivante dalla procedura esecutiva immobiliare (individuale o concorsuale), non essendovi ragioni per sottoporre la divisione richiesta dal curatore fallimentare (avente ad oggetto il bene abusivo appartenente al fallito in comunione indivisa) ad un regime giuridico diverso da quello previsto per le vendite disposte nell’ambito delle procedure esecutive.

Le Sezioni Unite ritengono che la divisione di un edificio abusivo, che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione individuale di beni indivisi (divisione endoesecutiva), e quella chiesta in seno alla procedura fallimentare o altre procedure concorsuali (divisione endoconcorsuale) vadano ricomprese tra gli atti sottratti alla sanzione di nullità, in quanto in entrambi i casi la divisione è strutturalmente funzionale all’espropriazione forzata della quota (la liquidazione della quota di comproprietà indivisa su di un bene avviene proprio tramite lo scioglimento della comunione su quel bene). Difatti, giova evidenziare che il legislatore, con le disposizioni di cui agli articoli 46, D.P.R. n. 380/2001 e 40, l. n. 47/1985, vuole esentare dalla comminatoria di nullità tutti gli atti volti a portare a termine la procedura esecutiva immobiliare, individuale o concorsuale. Ragionando diversamente la nullità non svolgerebbe la sua tipica funzione di sanzione nei confronti del proprietario del bene abusivo, ma, al contrario, finirebbe per avvantaggiarlo in pregiudizio dei creditori. Tra i suddetti atti, dunque, vanno ritenuti inclusi sia la divisione dell’edificio abusivo, di cui il debitore sia comproprietario pro quota, da attuarsi con apposito giudizio divisorio, comunque inserito nel processo di espropriazione individuale, sia gli atti di divisione, contrattuali o giudiziali, richiesti dal curatore fallimentare.

Così intese, le disposizioni eccettuative sono in linea con la ratio posta a fondamento della comminatoria di nullità e, oltretutto, sono pienamente conformi con i principi generali dell’ordinamento giuridico (la possibilità di espropriare i fabbricati abusivi, nell’ambito delle procedure esecutive individuali e concorsuali, assicura ai creditori di chi è proprietario unicamente di beni abusivi la stessa tutela giurisdizionale dei diritti che è garantita ai creditori di chi è proprietario, invece, di edifici urbanisticamente legittimi, nel rispetto degli articoli 3, comma 1, e 24 della Costituzione).

In ultimo, le argomentazioni delle Sezioni Unite evidenziano che anche la lettera delle disposizioni in esame depone per la medesima conclusione.

Ne segue il seguente principio di diritto: “in forza delle disposizioni eccettuative di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, comma 5 e al L. n. 47 del 1985, art. 40, commi 5 e 6, lo scioglimento della comunione (ordinaria o ereditaria) relativa ad un edificio abusivo che si renda necessaria nell’ambito dell’espropriazione di beni indivisi (divisione c.d. “endoesecutiva” o nell’ambito del fallimento (ora, liquidazione giudiziale) e delle altre procedure concorsuali (divisione c.d. “endoconcorsuale”) è sottratta alla comminatoria di nullità prevista, per gli atti di scioglimento della comunione aventi ad oggetto edifici abusivi, dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46, comma 1, e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2″.


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Francesca Di Mezza

Laureata in Giurisprudenza presso l’Università “Federico II” di Napoli con votazione 110/110, discutendo una tesi in procedura penale dal titolo “L’uso processuale dell’interrogatorio dell’indagato”. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli e ha conseguito il titolo di avvocato. Ha frequentato corsi di approfondimento post lauream.

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