Obbligo di repêchage del lavoratore non vaccinato: lo stato dell’arte nella giurisprudenza di merito dopo la pronuncia del Tribunale di Velletri

Obbligo di repêchage del lavoratore non vaccinato: lo stato dell’arte nella giurisprudenza di merito dopo la pronuncia del Tribunale di Velletri

Negli ultimi giorni sta suscitando dibattito una recente pronuncia del Tribunale di Velletri[1] che ha statuito la reintegrazione di una lavoratrice in ambito sanitario a seguito della sua sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per violazione del disposto dell’art. 4 del decreto-legge 1° aprile 2021, n. 44, convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U. 31/05/2021, n. 128), letto in combinazione con l’art. 4-ter, il quale estende l’obbligo vaccinale per il personale sanitario a tutto il personale che svolge «a qualsiasi titolo la propria attività lavorativa nelle strutture di cui all’articolo 8-ter del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502». Tuttavia, gran parte dello scalpore che la notizia della pronuncia ha suscitato è il frutto di fallaci aspettative sorte con i continui interventi in materia di vaccinazione, ed il contrasto tra questa ed altri interventi della giurisprudenza è su molti aspetti solo apparente.

È notorio che l’anzidetta disciplina tratta dell’obbligo vaccinale del personale sanitario e parasanitario per il contrasto dell’infezione da Sars-Cov-2 e che, per il corso di tutto l’anno 2021, le problematiche sottese a tale normativa sono state oggetto di numerose statuizioni. Ma per capire meglio l’oggetto della pronuncia de qua e comprenderne la portata bisogna riportare alla mente una distinzione operata dalla giurisprudenza già dalla prima metà del corrente anno. Da una parte, infatti, bisogna porre le sospensioni operate prima dell’entrata in vigore del d.l. 44/2021; dall’altra, invece, bisogna porre le questioni sorte dopo la sua entrata in vigore e le estensioni dell’obbligo al personale dipendente di altri settori, come il personale scolastico e delle forze dell’ordine.

Nel primo ambito vanno inserite le numerose – e già note – pronunce della giurisprudenza cautelare e di merito, che hanno affermato – in forza del disposto di cui all’art. 2087 c.c. e della disciplina del titolo X del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 – il principio per cui, pur in assenza di un esplicito obbligo di legge, sarebbe possibile far discendere (almeno in ambito sanitario) un vincolo analogo dal sinallagma contrattuale del lavoro, in quanto la salvaguardia della salute dell’utenza delle strutture assistenziali rientra pienamente «nell’oggetto della prestazione esigibile», perché «fin dagli esordi del rapporto, […] si ritiene che la tutela della salute dell’utenza della RSA costituisca un elemento penetrante nella struttura del contratto, qualificando la prestazione cui le ricorrenti sono astrette»[2].

Tale indirizzo è stato a più riprese confermato facendo sempre riferimento alla collocazione concreta dei dipendenti del settore sanitario, poiché «in ragione della tipologia delle mansioni espletate […] e della specificità del contesto lavorativo e dell’utenza […] è possibile sostenere che l’assolvimento dell’obbligo vaccinale inerisca alle mansioni del personale sanitario»[3].

Tuttavia, l’orientamento appena riportato non ha inteso estendere in modo assoluto l’obbligo della vaccinazione oltre i limiti dell’obbligo di legge, in quanto prevede un notevole temperamento nell’ambito del tentativo obbligatorio di ricollocazione del dipendente risultato inidoneo ad una specifica mansione[4].

Quanto riportato, quindi, deve far ritenere che nell’ambito di intervento dell’obbligo vaccinale derivante dal contratto di lavoro, non può desumersi un’espansione astratta e generalizzata dello stesso obbligo che prescinda dalla mansione svolta. La giurisprudenza, infatti, già con le pronunce richiamate non aveva inteso rendere assoluto il “potere” del datore di lavoro di sospendere i dipendenti non vaccinati, essendo necessario osservare da disciplina di cui agli artt. 18, 25, 39, 41, 42, 271 ss del d.lgs. 81/2008.

Già in precedenti occasioni è stato sostenuto che i principi appena richiamati non possono essere estesi a tutte le categorie lavorative, dovendosi distinguere tra la mansione svolta dalla badante, dall’operaio in catena di montaggio, dal cameriere etc[5].

A conferma di ciò, la stessa giurisprudenza di merito ha assunto posizioni in apparenza altalenanti nella seconda metà del 2021 – ma pur sempre in linea con l’orientamento sin qui richiamato – ammettendo la sospensione della dipendente di una struttura alberghiera valutata inidonea a svolgere altre mansioni[6] e la reintegrazione del dipendente di una cooperativa operante in ambito sanitario per omessa verifica di repêchage[7].

Tutto ciò considerato, le pronunce richiamate fino a questo momento hanno sempre omesso di pronunciarsi dall’effettiva portata dell’obbligo stabilito dal d.l. 44/2021, in quanto esso non è mai stato (almeno in quelle occasioni) oggetto di disputa. Tuttavia, l’ordinanza del 14 dicembre 2021 del Tribunale di Velletri ha aggiunto alcune interessanti considerazioni sul punto, in forza del fatto che essa tratta delle problematiche legate all’obbligo vaccinale discendente da esplicita previsione di legge. Ma l’ordinanza de qua non è il primo intervento giurisprudenziale sul tema e, pertanto, ai fini di una corretta comprensione del relativo contenuto, merita di essere inserita nel suo contesto di origine.

Per motivi di semplicità espositiva e di coerenza con il contenuto dell’ordinanza di velletrana si richiamano solamente le sentenze del TAR del Friuli-Venezia Giulia n. 251/2021 e del Consiglio di Stato n. 7045/2021, ma è d’uopo segnalare che le stesse non esauriscono il complesso di statuizioni in tema di legittimità dell’obbligo vaccinale anti-Covid19.

Riassumendo in pochi passaggi il contenuto dei due interventi giurisprudenziali è sufficiente riportare che, in entrambe le occasioni richiamate, i giudici amministrativi hanno avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità dell’obbligo stabilito dal d.l. 44/2021, statuendo che non sarebbero ravvisabili né un difetto di ragionevolezza, né un difetto di bilanciamento tra interessi costituzionalmente garantiti, né un difetto di proporzionalità dell’intervento.

Invero, il Tar del Friuli-Venezia Giulia[8] ed il Consiglio di Stato[9] espongono che proprio il limitato ambito operativo dell’obbligo (riferito al solo personale sanitario e parasanitario), il tipo di mansioni espletate dai soggetti obbligati, la previsione di casi di esenzione e la temporaneità dell’obbligo stesso siano condizioni sufficienti per ritenere costituzionalmente legittima la disciplina sopra menzionata. A supporto di tale ricostruzione entrambi gli organi giudicanti richiamano il consolidato orientamento della Consulta, che pone precisi parametri per il vaglio di costituzionalità delle leggi vertenti sulla materia che dispone un bilanciamento tra l’esigenza di rispettare l’autodeterminazione individuale e quella di tutelare le esigenze della società.

Tutto ciò premesso, è possibile addentrarsi in modo consapevole nel contenuto della pronuncia velletrana. L’ordinanza, che conferma il provvedimento d’urgenza emesso inaudita altera parte il 22 novembre 2021 – nel quale il giudice aveva già evidenziato la «rilevanza costituzionale dei diritti compromessi (dignità personale, dignità professionale, ruolo alimentare dello stipendio)» e ribadito il principio per cui «la sospensione dal lavoro può costituire solo l’extrema ratio ed evento eccezionale» – risulta non essere altro che l’ulteriore tassello nel percorso giurisprudenziale sopra descritto.

Più in dettaglio, proprio sulla scorta del fatto che anche dopo l’approvazione del d.l. 44/2021 non sarebbe affatto decaduto l’obbligo di valutare repêchage, l’organo giudicante propone una lettura costituzionalmente conforme del meccanismo di sospensione del lavoratore in ambito sanitario, ritenendo che «non in tutti i casi la prestazione degli operatori di interesse sanitario non vaccinati è vietata, ma solo laddove quest’ultima inciderebbe sulla salute pubblica e su adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». Diversamente opinando, infatti, a tenore dell’art. 3 Cost. – afferma il giudice – saremmo davanti ad una discriminazione degli operatori sanitari rispetto al personale di altri settori che svolgono prestazioni che presentano lo stesso (ed a volte un maggiore) rischio di diffusione del contagio da Covid-19. A tal proposito, quindi, richiamando il principio di ragionevolezza cui hanno fatto riferimento anche gli interventi dei giudici amministrativi, il Tribunale di Velletri evidenzia il fatto che «se in concreto questa differenza di pericolo non sussiste non può sussistere neanche la differente disciplina».

Tale assunto non può che essere condiviso dallo scrivente, in quanto è opinione granitica in giurisprudenza costituzionale che solo in presenza di situazioni oggettivamente diverse sarebbero giustificabili trattamenti normativi diversi, ma corre l’obbligo di rammentare che un diverso orientamento dovrebbe tener conto anche di altri punti fissi che la Consulta ha più volte ribadito in tema di tutela della salute. È notorio, infatti, che quando il legislatore si trova nella situazione di dover porre in essere una limitazione delle libertà individuali deve realizzare «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali», perché «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona»[10]. E ciò vale anche in tema di diritto alla salute, in quanto «l’aggettivo “fondamentale”, contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un “carattere preminente” del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione […] dell’ambiente e della salute come “valori primari” (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali»[11]. Ciò rileva che, anche sul profilo della proporzionalità, una sospensione automatica e aprioristica del lavoratore non vaccinato sarebbe plausibilmente discriminatoria.

Questi elementi ed il continuo reiterarsi degli interventi di proroga dello stato emergenziale, appaiono idonei a smentire – almeno in parte – le statuizioni della giurisprudenza amministrativa e, pertanto, meriterebbero una più adeguata analisi da parte del giudice delle leggi.

A ciò si aggiunga che, anche sulla scorta della sopra citata pronuncia del Tribunale di Milano[12], il tentativo di ricollocamento del lavoratore valutato inidoneo ad una mansione non può prescindere dalla grandezza dell’organizzazione in cui è inserito e dall’ampia composizione del relativo organico. Tali elementi, infatti, rendono apprezzabile il discrimine tra piccole imprese con oggettiva difficoltà a ricollocare un lavoratore e grandi strutture organizzative che potrebbero agevolmente affidare al lavoratore dipendente mansioni con un minore indice di rischio. Dello stesso avviso è stato il Tribunale di Velletri lo scorso 14 dicembre, ritenendo che una grande struttura organizzativa come quella dell’ASL di Roma – che occupa migliaia di dipendenti – «non può non essere in grado di ricollocare la netta minoranza non vaccinata», e non può addurre a motivo di impossibilità del repêchage dalla sola mancata vaccinazione, in quanto essa in alcun modo può determinare un’effettiva impossibilità di reperire compiti privi di rischio specifico di diffusione del SARS-CoV-2. Una siffatta argomentazione, infatti, oltre a non avere fondamento giuridico sarebbe «un’indebita compromissione dei diritti dei singoli», posto che – di solito – il settore sanitario ha scoperture di organico e tante assenze per malattia, aspettative e ferie. Secondo il giudice, poi, va rilevata la circostanza per cui l’assegnazione del lavoratore non vaccinato a compiti meramente amministrativi (o allo smart-working) sarebbe la via più idonea per assicurare il fine voluto dal legislatore.

Infine, pur ordinando la reintegrazione della dipendente sospesa, il giudice non ha trascurato di mettere in evidenza la circostanza per cui – nonostante rischio di mettere a repentaglio la salute della società risulti di uguale tenore tra chi viene esentato dalla vaccinazione e chi, per convinzione personale, non intende sottoporvisi – vi sono evidenze che non possono non determinare una ragionevole distinzione tra le due categorie. Infatti, mentre chi non può ricevere la vaccinazione per motivi di salute andrebbe sempre tutelato, chi ha scelto di non vaccinarsi può essere adibito anche a mansioni inferiori, con possibili ricadute sul piano retributivo.

Da quanto si apprende, quindi, la pronuncia dello scorso 14 dicembre è solo un ulteriore passaggio logico di un lungo percorso interpretativo dei giudici del lavoro che – da tempo – cercano di ritrovare un punto di equilibrio nel complesso normativo in tema di rapporti tra obbligo vaccinale e diritto al lavoro.  Per queste ragioni, è opinione dello scrivente guardare a pronunce di questo tipo nel più ampio contesto delle sentenze sulla tematica (come avvenuto all’inizio di queste pagine), al fine di cogliere appieno il senso delle singole statuizioni in esame.

 

 

 

 


[1] Trib. di Velletri, sez. lav., ord. 14 dicembre 2021, la cui massima recita che «deve essere revocato il provvedimento di sospensione adottato dall’azienda sanitaria nei confronti del collaboratore professionale sanitario che non ha adempiuto l’obbligo vaccinale contro il Covid-19 e ordinarsi all’amministrazione datrice di affidare al lavoratore lo svolgimento di compiti compatibili per il tipo o per le modalità di svolgimento con l’esigenza di tutelare la salute pubblica e adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza con obbligo della corresponsione della retribuzione sino all’individuazione di tali compiti, dovendosi osservare che una lettura costituzionalmente orientata – e dunque obbligata – induce a ritenere che non in tutti i casi la prestazione degli operatori di interesse sanitario non vaccinati sia vietata, ma solo laddove quest’ultima inciderebbe sulla salute pubblica e su adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, e che una grande azienda non possa ritenere non proficuamente utilizzabile una prestazioni anche amministrativa del lavoratore», in https://www.ilmerito.it/bancadati/index.php?pag_id=40&view=1&mid=187914.
[2] Trib. di Modena, sez. civ. III, 19 maggio 2021.
[3] Trib. di Modena, sez. lav., 23 luglio 2021, n. 2467.
[4] «Si è già avuto modo di evidenziare che la mancata sottoposizione al trattamento sanitario vaccinale […] comporta ipso iure, senza bisogno di accertamenti ulteriori, l’irricevibilità della prestazione originaria. Con conseguente adibizione a mansioni diverse da quelle pattuite e sino ad allora espletate oppure, ove ciò non è possibile (come nel caso di specie), con conseguente sospensione del rapporto», Trib. di Modena, 19 maggio 2021 cit.; conformi Trib. di Belluno, 06 maggio 2021, n. 328; Trib. di Verona, sez. lav., 24 maggio 2021, n. 446.
[5] Flaminio S., Vaccini e lavoro: obbligo generale o valutazione in concreto?, in Salvis Juribus, 15 agosto 2021; cfr. anche Flaminio S., Illegittimità della sospensione indiscriminata dal lavoro per mancata vaccinazione: la sentenza milanese, in Salvis Juribus, 26 settembre 2021.
[6] Trib. di Roma, sez. lav. II, 28 luglio 2021, n. 18441.
[7] «Cionondimeno, rappresentando la sospensione del lavoratore senza retribuzione l’extrema ratio, vi è un preciso onere del datore di lavoro di verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non prevedenti contatti interpersonali con soggetti fragili o comportanti, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. L’onere probatorio che grava sul datore di lavoro in caso di sospensione del rapporto per impossibilità temporanea della prestazione è, dunque, analogo a quello previsto per il caso di licenziamento per impossibilità definitiva della prestazione», Trib. di Milano, sez. lav., 15 settembre 2021, n. 2316.
[8] «Non si ravvisa, in ogni caso, alcun difetto di ragionevolezza della disposizione. Del tutto giustificata appare l’individuazione dei soggetti cui l’obbligo è riferito: “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” entrano quotidianamente in relazione con una collettività indifferenziata, composta anche di individui fragili o in gravi condizioni di salute, che non può scegliere di sottrarsi al contatto, né informarsi sullo stato di salute dei sanitari e sulla loro sottoposizione alla profilassi vaccinale. Quanto al bilanciamento di interessi sotteso alla misura, si ritiene che la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici, imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene (art. 2 della Cost.). Dal punto di vista della proporzionalità, si evidenzia che l’art. 4 del d.l. 44 del 2021 prevede comunque un meccanismo di esenzione dall’obbligo vaccinale, per i casi di “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, e che la sospensione, anche nelle ipotesi di permanente e ingiustificato inadempimento, ha natura temporanea, estendendosi “fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. Le conseguenze negative derivanti dall’inadempimento dell’obbligo vaccinale, dunque, sono scongiurate in caso di accertata impossibilità di sottoporsi al vaccino e, in ogni caso, temporalmente predeterminate. […] Le condizioni necessarie all’imposizione di una profilassi vaccinale obbligatoria sono state di recente ribadite dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5), che ha dichiarato la conformità a Costituzione delle dieci vaccinazioni imposte ai minori fino a sedici anni di età con il d.l. 73 del 2017 (convertito in l. 119 del 2017). Secondo la Corte, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990)”. Tutti e tre i presupposti sussistono nel caso in esame. […] La menzionata sentenza 5 del 2018 riconosce dunque il preminente rilievo del diritto alla salute nella sua dimensione collettiva, rispetto alla libertà di autodeterminazione dei singoli», TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10 settembre 2021, n. 251.
[9] «In merito alla dedotta irragionevolezza della disposizione, infatti, si è già ampiamente chiarito che i quattro vaccini sono efficaci e sicuri, allo stato delle conoscenze acquisite e delle sperimentazioni cliniche eseguite (c.d. trials), e rispondono pienamente allo scopo perseguito dal legislatore […] di evitare la diffusione del contagio tra la popolazione, con particolare riferimento […] ai pazienti a gli utenti del sistema sanitario, pubblico e privato, tendenzialmente più esposti al rischio di infezione nei luoghi di cura e assistenza, dove sono ospitati numerosi pazienti o transitano numerosi utenti bisognosi di cura, e per definizione più vulnerabili. In merito alla dedotta mancanza di proporzione, ancora, occorre rilevare che le evidenze registrate negli ultimi mesi, a vaccinazione avviata, e oggetto di studi […] dimostrano come solo la vaccinazione stia producendo il risultato di limitare la diffusione del contagio, in generale, e nelle strutture sanitarie, ospedaliere e residenziali, in particolare, impedendo che la trasmissione avvenga proprio nei luoghi di cura, a danno dei soggetti più fragili (malati e anziani), proprio per via del personale medico o infermieristico non vaccinato, in quanto le altre misure, indicate dall’appellante, per quanto utili e raccomandate non sono state decisive nel limitare il contagio, come dimostrano la prima e la seconda ondata della pandemia.42.7. Quanto alla natura discriminatoria della previsione, infine, il carattere selettivo della vaccinazione obbligatoria è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2Cost. ), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia.42.8. Non può essere seguita la tesi degli appellanti, quando invocano la prevalenza del diritto di autodeterminazione, pur fondamentale nel nostro ordinamento, come si è detto, in quanto diretta espressione della dignità della persona, a scapito dell’interesse pubblico alla vaccinazione obbligatoria degli operatori sanitari, poiché quella stesso valore supremo nella gerarchia dei principî costituzionali e, cioè, la dignità della persona (v., sul punto, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258) – di ogni persona e non di un astratto, intangibile, invulnerabile, inafferrabile soggetto di diritto – esige la protezione della salute di tutti, quale interesse collettivo, conformemente, del resto, al principio universalistico a cui si ispira il Servizio sanitario in Italia (art. 1 della l. n. 833 del 1978 ), e in particolare la tutela primaria delle persone più vulnerabili, che entrano, lo si ribadisce, in una relazione di cura e di fiducia – art. 2, comma 1, della l. n. 219 del 2017 – con il personale sanitario.42.9. La logica dei cc.dd. diritti tiranni e, cioè, di diritti che non entrano nel doveroso bilanciamento con eguali diritti, spettanti ad altri, o con diritti diversi, pure tutelati dalla Costituzione, e pretendono di essere soddisfatti sempre e comunque, senza alcun limite, è del resto estranea ad un ordinamento democratico, perché «il concetto di limite è insito nel concetto di diritto» (Corte cost., 14 giugno 1954, n. 1) ed è stata espressamente sempre ripudiata anche dalla Corte costituzionale che, come noto, ha chiarito che tutti i diritti tutelati dalla Costituzione – anche quello all’autodeterminazione – si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri perché, se così non fosse, si verificherebbe «la illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»(Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85)», Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045.
[10] C. cost, sent. 9 maggio 2013, n. 85.
[11] Idem.
[12] Trib. di Milano, sez. lav., 2316/2021 cit.

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