Omicidio preceduto da stalking: la parola passa alle Sezioni Unite

Omicidio preceduto da stalking: la parola passa alle Sezioni Unite

Sommario: 1. Premessa – 2. Il rapporto tra l’omicidio aggravato e il delitto di atti persecutori nel precedente orientamento della Cassazione – 3.  La nuova interpretazione della Suprema Corte – 4. La V Sezione Penale chiama a decidere le Sezioni Unite

 

1. Premessa

La Corte di Cassazione, nel novembre 2020, ha affrontato il tema del rapporto tra la fattispecie di omicidio aggravato e lo stalking che culmina con la morte della vittima. Il quesito affrontato dagli Ermellini – che tornano sull’argomento dopo solo un anno dall’unico precedente giurisprudenziale in materia- attiene alla possibilità di riconoscere la sussistenza di un concorso apparente di norme ex articolo 84 comma 1 del codice penale tra l’omicidio aggravato di cui all’art. 576 comma 1, n. 5.1 e il reato previsto e punito dall’art. 612 bis c.p. La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte – chiamata a sua volta a prendere posizione in ordine al problema sopra delineato – ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite. Oggetto del quesito a quest’ultime sottoposto è, nello specifico, <<Se, in caso di concorso tra i fatti-reato di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1, cod. pen., sussista un concorso di reati, ai sensi dell’art. 81 c.p., o un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, cod. pen., che assorbe integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa>>[1].

2. Il rapporto tra l’omicidio aggravato e il delitto di atti persecutori nel precedente orientamento della Cassazione

La giurisprudenza nel 2019, con la decisione n. 20786, aveva statuito che “il delitto di atti persecutori non è assorbito da quello di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1 c.p., non sussistendo una relazione di specialità tra tali fattispecie di reato”[2] negando dunque l’esistenza di un reato complesso e valorizzando unicamente la connotazione soggettiva della norma. La Corte, infatti, aveva sostenuto che il riferimento legislativo “all’autore del delitto previsto dall’art. 612 bis cp”, contenuto nell’art. 576 comma 1 n. 5.1, non intendeva sanzionare la condotta persecutoria sfociata poi nell’omicidio, ma la mera commissione del fatto stesso realizzata dallo stalker, per cui ha affermato che “la scelta del legislatore di porre l’accento, nella costruzione dell’aggravante in esame, sulla mera identità del soggetto autore sia degli atti persecutori che dell’omicidio e non sulla relazione tra i fatti commessi non può ritenersi frutto di una causale modalità espressiva, utilizzata, senza una finalità precisa, in luogo di quella del tipo ‘ se il fatto è commesso in connessione o in occasione’. Non può quindi leggersi la disposizione come se avesse voluto dire che il delitto di omicidio è aggravato se commesso contestualmente o in occasione della commissione degli atti persecutori”[3]. I supremi giudici sostenevano, dunque, che la scelta di ancorare l’aggravante all’identità soggettiva tra l’autore delle condotte di cui all’art. 612 bis e l’autore del delitto di omicidio non fosse figlia di una causale valutazione terminologica, ma frutto di una scelta consapevole del legislatore, interessato a porre l’accento sulla dimensione soggettiva del fatto, per cui l’elemento aggravante andava rintracciato nell’essere l’autore dell’omicidio colui che prima aveva sottomesso la vittima con condotte persecutorie. I sostenitori del predetto orientamento giurisprudenziale, per dare manforte a tale assunto volgevano l’attenzione alla disposizione aggravatrice precedente, ove il legislatore ha optato per una forma lessicale diversa, orientata a valorizzare la componente oggettiva della condotta lesiva: in tale disposizione, il disvalore aggiunto è rappresentato dall’essere l’omicidio compiuto “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572 bis, 600 bis, 600 ter, 600 quater e 600 octies c.p”.

Escludendo qualsivoglia relazione strutturale tra le due fattispecie in commento – omicidio aggravato e atti persecutori – non può trovare applicazione il principio di specialità ex art. 15 c.p., per cui l’omicidio aggravato di cui all’art 576, comma 1, n. 5.1 non sarebbe in grado di assorbire, mancando la richiesta relazione di specialità, il reato di cui all’art. 612 bis, realizzandosi dunque un’ipotesi di concorso di reati. Si sosteneva, infatti, che tale ultimo reato si realizzasse tramite condotte di minaccia e molestia non lesive dell’integrità fisica o della vita, mentre l’omicidio, potendo prescindere da condotte di tal tipo, si qualifica soltanto per l’evento tipico della morte.

Alla luce di tali valutazioni, posto che la materia del concorso apparente si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle disposizioni normative, non si verifica l’assorbimento di un delitto nell’altro, in assenza di affinità strutturali.

3. La nuova interpretazione della Suprema Corte

Dopo solo un anno dalla pronuncia n. 20786, per sconfessare l’argomento letterale avanzato dalla tesi contrapposta, la Cassazione ha deciso di ribaltare l’orientamento che attribuiva rilevanza alla dimensione soggettiva e ha affermato che “l’infelice e incerta formulazione della norma non può giustificare un’interpretazione soggettivistica, incentrata sul tipo d’autore, senza considerare che la pena si giustifica non per ciò che l’agente è, ma per ciò che ha fatto. In altri termini, ciò che aggrava il delitto di omicidio non è il fatto che sia commesso dallo stalker in quanto tale, ma che esso sia preceduto da condotte persecutorie tragicamente culminate, appunto, con la soppressione della vita della persona offesa”[4]. E’ stata, dunque, ridimensionata la valutazione terminologica che aveva orientato la precedente interpretazione della Corte, e si è posto l’accento sulla necessità di interpretare la norma alla luce del principio di materialità, che impone di sposare una concezione oggettivistica del reato come fatto umano offensivo di un bene giuridico. L’omicidio realizzato dallo stalker non è commesso “in occasione” degli atti persecutori, ma è preceduto da questi ultimi, ne rappresenta l’antecedente causale secondo una logica di progressione. Proprio tale aspetto esprime la particolare connessione tra i fatti di reato in questione che, seppur cronologicamente separati, riflettono una stessa volontà persecutoria. Conseguenza di tali valutazioni è la configurazione di un reato complesso, nel quale la ratio dell’aggravamento di pena va rintracciata nel maggior disvalore dell’omicidio preceduto dallo stalking. Il riconoscimento del reato complesso consente di derogare alla disciplina del concorso di reati e permettere l’irrogazione di una pena più severa rispetto a quella derivante dall’applicazione delle regole ordinarie.

Tale approdo giurisprudenziale è coerente non solo con il principio di offensività, il quale richiede che ogni aumento di pena trovi la sua giustificazione nella maggiore offensività della condotta, ma anche, come detto, col principio di materialità che ancora la risposta punitiva alla commissione di un fatto percepibile all’esterno. Una diversa conclusione, ha osservato la Corte, si tradurrebbe in un’interpretatio abrogans dell’art. 84 c. 1 c.p., con contestuale violazione del principio del ne bis in idem sostanziale alla base della disciplina del reato complesso, il quale vieta che uno stesso fatto venga addossato giuridicamente due volte alla stessa persona, nei casi in cui l’applicazione di una sola norma incriminatrice assorba il disvalore del suo intero comportamento. E infatti, se si volesse sposare il precedente orientamento, gli atti persecutori sarebbero addebitati all’agente due volte: come reato autonomo, ex art. 612 bis c.p., e come circostanza aggravante dell’omicidio, ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1.

4. La V Sezione Penale chiama a decidere le Sezioni Unite

Nel sottoporre a vaglio critico i predetti orientamenti, la V Sezione Penale della Cassazione rintraccia due aspetti interpretativi di rilievo, dei quali il secondo – si legge nell’ordinanza – «rappresenta l’esito della risoluzione della prima questione, ma ne costituisce contemporaneamente anche il presupposto logico»[5]: a) il rapporto astratto tra le fattispecie in esame, concernente l’applicabilità dell’art. 84 c.p; b) l’interpretazione dell’aggravante di cui all’art. 576 c. 1 n. 5.1. c.p.

Per quanto concerne il primo profilo, l’ordinanza mette in luce che il caso in esame non attiene a un unico fatto, ma a due episodi penalmente rilevanti contenuti in diverse norme incriminatrici, quali l’omicidio e gli atti persecutori. Tale valutazione consente di escludere l’utilizzo dell’art 15 c.p. come strumento di risoluzione del conflitto tra norme, posto che il criterio della specialità contenuto nello stesso articolo impone, invece, che un identico fatto sia suscettibile di una plurima qualificazione normativa. Questa considerazione, secondo la Corte, svuota di credibilità l’argomentazione avanzata dalla Prima Sezione nella sentenza n. 20786/2019 che sosteneva l’assenza di interferenza tra le fattispecie di omicidio aggravato e di atti persecutori. La disciplina di riferimento andrebbe difatti individuata non nell’art. 15 c.p., ma nell’art. 84 c.p.: in assenza dell’art. 576 c. 1 n. 5.1. c.p. i delitti di omicidio e atti persecutori potrebbero pacificamente concorrere, «ciò che rileva è la formulazione, a livello di fattispecie astratta, di un’aggravante del delitto di omicidio che racchiude la tipizzazione del delitto di atti persecutori»[6].

Concentrandosi sul significato da attribuire all’art 576 c. 1 n. 5.1, la V Sezione Penale ritiene di non aderire all’interpretazione soggettivistica proposta nel 2019, atteso che la stessa si scontrerebbe con i principi costituzionali di offensività e materialità che riflettono una impostazione oggettivistica della materia penale: l’art. 25 comma 2 cost, ponendo a base della responsabilità penale un “fatto”, impone che la risposta punitiva dello Stato avvenga per la condotta tenuta e non per una qualità personale. Inoltre, non costituirebbe idonea argomentazione contraria neanche la diversità terminologica tra il punto 5.1 e quello precedente nello stesso comma 1. Si osserva infatti, come sottolineato in precedenza,  che l’omicidio commesso dallo stalker ai danni della propria vittima piuttosto che essere commesso “in occasione” o contestualmente” agli atti persecutori è, di solito, preceduto e “preparato” da quest’ultimi, secondo una logica di progressione: ed in questo risiede la particolare connessione tra i fatti di reato in questione, i quali, anche se separati sul piano cronologico, costituiscono espressione della medesima volontà persecutoria, che, secondo la valutazione politico-criminale del legislatore basata su fondamenti criminologici, spinge l’autore del reato prima a commettere le reiterate condotte di minaccia o molestia e poi, da ultimo, alla condotta omicida. Poste tali considerazioni e alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’art. 576, comma 1, n. 5.1 andrebbe considerato quale reato complesso cd. del secondo tipo, figlio dell’unificazione normativa di due reati in una forma aggravata di uno solo di essi.

La V Sezione Penale, alla luce del contrasto giurisprudenziale -seppur iniziale- sorto in materia, ha ritenuto di rimettere il ricorso al supremo consesso in seno alla Cassazione, che avrà il compito di chiarire il problema della riscontrabilità nell’art. 576 c. 1 n. 5.1. c.p. di un reato complesso.

 

 

 

 

 


[1] Cass., Sez. V, ord. 1 marzo 2021 (dep. 20 aprile 2021), n. 14916, Pres. Bruno, Rel. Riccardi
[2] Cass. Pen., Sez I., 14 maggio 2019, n. 20786
[3] Sent n. 20786, cit
[4] Cass. Pen., Sez III., 6 novembre 2020, n. 30931.
[5] Ord n. 14916, cit
[6] Ord n. 14916, cit

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