Organismo di diritto pubblico e principio di autovincolo

Organismo di diritto pubblico e principio di autovincolo

La nozione di organismo di diritto pubblico ha trovato la sua prima collocazione nella direttiva 89/440/CEE, come categoria di soggetti differenziata sia dagli enti pubblici sia dalle imprese pubbliche, tali che “dal punto di vista sostanziale giustificano l’applicazione della disciplina sulla evidenza pubblica” relativa alla procedura per la aggiudicazione degli appalti pubblici, lavori, forniture e servizi.

Il Codice dei contratti pubblici (D.Lgs 18 aprile 2016, n.50), uniformandosi alla disciplina europea, definisce organismo di diritto pubblico qualsiasi organismo:

– dotato di soggettività giuridica, anche in forma societaria;

-istituito per il soddisfacimento di esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;

– la cui attività finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri, dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico. Questo rapporto tra l’organismo ed un pubblico potere e più precisamente l’esistenza di una relazione organizzativa in forza della quale l’autorità pubblica possieda il controllo finanziario e amministrativo dell’organismo (Corte Giust 15.1.1998, C-44/96 Mannesmann) ha indotto il diritto europeo a esprimere la propria preoccupazione sulla possibilità che gli apparati pubblici dei diversi Stati membri possano imporre propri indirizzi politico-amministrativi a soggetti chiamati ad operare in settori aperti alla libera concorrenza, determinando pericolosi effetti anticompetitivi.

Considerata questa prospettiva, si è reso necessario l’intervento del legislatore europeo che, di fronte a persone giuridiche formalmente private ma legate agli apparati politici quanto ai finanziamenti, ai controlli e alla nomina degli amministratori, assoggetta le stesse alle normative in materia di pubblici appalti al fine di eliminarne le potenzialità anticompetitive.

Un esempio di organismo di diritto pubblico è rappresentato da Poste Italiane S.p.A.

La natura giuridica di questa Società è oggetto di un acceso dibattito dottrinale nonché di un attuale contrasto giurisprudenziale tra le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che si interrogano sulla qualificazione giuridica di Poste Italiane e, nello specifico, sulla giurisdizione operante nelle controversie in cui la medesima è coinvolta.

Secondo la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 4899/2018) è da escludere la qualificazione di Poste alla stregua di “organismo di diritto pubblico”, trattandosi di un’impresa pubblica che svolge attività di natura finanziaria espletata in regime di libera concorrenza. Da ciò consegue, ovviamente, l’affermazione della giurisdizione ordinaria nella controversie relative alle gare dalla stessa indette (v. Cass. Civ., Sez. Un., ord. 29 maggio 2012, n. 8511).

Diversa, invece, è la posizione del Consiglio di Stato il quale afferma che Poste Italiane è da ricondurre alla categoria degli organismi di diritto pubblico ravvisando nella medesima società tutti i requisiti: personalità giuridica, influenza pubblica dominante, svolgimento di attività di interesse generale, con conseguente affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo (v. Cons. Stato, Ad,. Plen., giugno 2016, n. 16).

Sulla stessa onda di pensiero si trova il giudice amministrativo di primo grado che qualifica Poste Italiane S.p.A. come organismo di diritto pubblico in virtù del rinvenirsi di tutti e tre i requisiti di cui al sopra citato art. 3, lettera d), del D. Lgs. n. 50/2016.

A sostegno di tale valutazione, il giudice amministrativo sottolinea che la società Poste Italiane S.p.A, operando, oltre che nel settore dei servizi postali, anche in ambito finanziario, assicurativo e di telefonia mobile, in regime di concorrenza, è in ogni caso concessionaria del cosiddetto servizio postale universale che implica la fornitura obbligatoria con correlativi esborsi statali a parziale copertura degli oneri.

Pertanto, secondo il Tar Lazio non può non ritenersi che la società in questione, dotata di personalità giuridica, sia stata istituita per soddisfare interessi generali, a carattere non industriale o commerciale, direttamente riconducibili alla libertà di corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, garantiti dall’art. 15 della Costituzione e sanciti anche a livello comunitario (requisiti sub 1 e 2 degli organismi di diritto pubblico).

Aggiunge, inoltre, che la Società in questione, oltre all’assetto proprietario di maggioranza, che fa capo al Ministero dell’Economia, che nomina il Consiglio di Amministrazione, è soggetta al controllo e la vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico e della Corte dei Conti.

Sulla base di tali stringenti considerazioni secondo il TAR Lazio sussistono sul piano soggettivo, sufficienti elementi per qualificare la società Poste Italiane come organismo di diritto pubblico, come definito dal già ricordato art. 3, comma 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (ora art. 3, comma 1, lettera “d” del d.lgs. n. 50 del 2016).

Tuttavia, al fine di ottenere l’interpretazione da parte dello stesso  sulla qualificabilità di Poste Italiane S.p.A come organismo di diritto pubblico  il giudice amministrativo ha disposto il rinvio pregiudiziale al Giudice della Corte di Giustizia dell’UE.

Dall’organismo di diritto pubblico si distingue la figura dell’impresa pubblica nei confronti della quale i poteri pubblici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante.

L’ organismo di diritto pubblico ed impresa pubblica rispondono a logiche diverse: il primo intende soddisfare bisogni generali a carattere commerciale o non industriale; la seconda è una vera e propria impresa, avente il compito di porre in essere un’attività economica a carattere imprenditoriale, che agisce in normali condizioni di mercato, persegue uno scopo di lucro e assume il relativo rischio.

Le imprese pubbliche sembrano essere disciplinate anche nell’art. 41, 3° comma Cost come quelle che, al pari delle imprese private, possono essere assoggettate a programmi e controlli perché la relativa attività “possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La dizione “fini sociali” (che compare in Costituzione, solo nell’art. 41), da ritenere sostanzialmente coincidente con quella di “utilità sociale” di cui allo stesso art. 41, nonché con quella di “utilità generale” di cui all’art. 43, indica nozioni e oggetti diversi tra loro, nella cui determinazione il legislatore è vincolato da altre norme costituzionali (e adesso dai principi dell’ordinamento europeo). Indica anche i fini che caratterizzano le attività di servizio pubblico, intendendosi con questa espressione le attività ritenute in un determinato momento storico e in un determinato contesto sociale, necessarie nell’interesse della collettività al di là di quelle ascritte alla pubblica amministrazione in senso stretto.

Accanto alle tradizionali amministrazioni pubbliche, agli organismi di diritto pubblico e alle imprese pubbliche sono contemplati i soggetti privati che godono di diritti di esclusiva. Con tale espressione si intende qualunque forma di attività, dalla quale derivi l’attuazione di fini pubblici, esercitata da privati ossia da persone fisiche che non si configurano come organi di enti statali né facciano parte di enti pubblici ma che sono titolari di una qualche potestà. L’ art. 106, paragrafo 1 del TFUE estende alle imprese titolari di diritti esclusivi e di diritti speciali il regime previsto per le imprese pubbliche. Anche queste entità economiche, difatti, si trovano in una posizione di subordinazione rispetto allo Stato, il quale, pur non esercitando un controllo diretto su di esse, è pur sempre in grado di influenzarne il comportamento attraverso la possibilità di ritirare i diritti di cui esse sono titolari. Diversamente dalle imprese pubbliche, in cui il legame tra Stato ed impresa è di tipo soggettivo, dal momento che il primo opera nel mercato attraverso il controllo degli organi dell’impresa, nelle imprese titolari di diritti speciali o esclusivi il controllo pubblico riguarda l’attività svolta dall’operatore economico. Si tratta di una forma di controllo indiretta da parte dello Stato. Infatti, le imprese titolari di diritti speciali o esclusivi, pur essendo strutturalmente autonome rispetto all’amministrazione statale, costituiscono, grazie alla concessione dei predetti diritti, uno strumento attraverso cui lo Stato controlla una determinata attività.

Il principio di autovincolo per le imprese aggiudicatrici

Di fronte al dilagare di questi nuovi apparati di natura incerta, non riconducibili agli schemi tradizionali dell’organizzazione amministrativa, la giurisprudenza europea è riuscita a coniare una nozione funzionale di amministrazioni aggiudicatrici, delimitando l’applicazione uniforme della disciplina sugli appalti pubblici in tutti i peculiari ordinamenti degli Stati membri dell’Unione. In particolare, in materia di contratti pubblici l’ordinamento comunitario si è posto l’ulteriore obiettivo di garantire la par condicio, tra le imprese operanti all’interno del proprio territorio, evitando forme di elusione della normativa in materia di affidamento causata da possibili condizionamenti esterni.

In particolare, il D.Lgs 50/2016 si pone come obiettivo quello di soddisfare l’esigenza di fornire una risposta concreta alle sempre più pressanti necessità di dematerializzazione, trasparenza e lotta alla corruzione. Per questo motivo, il legislatore all’art.4 del Codice dei contratti pubblici detta i principi generali applicabili all’affidamento dei contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture stabilendo che lo stesso debba avvenire nel rispetto dei principi di “evidenza pubblica” ossia dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento e pubblicità.

Considerata la regolamentazione della materia sulla base di questo assetto normativo, la giurisprudenza si è domandata se, la stazione appaltante potesse comunque decidere, in via di autovincolo, di applicare ulteriori e diverse disposizioni rispetto a quelle previste dal Codice dei contratti pubblici.

La risposta positiva sulla adozione di questa soluzione permetterebbe all’ente di intraprenderebbe un’autonoma scelta di procedimentalizzazione a contrarre perfettamente conforme con i principi di imparzialità e trasparenza, predisponendo dei documenti di gara (lex specialis) che regolano nello specifico la singola procedura concorsuale, rendendo noto ai terzi la volontà di affidare un contratto pubblico, laddove in caso di attività svolte nell’interesse pubblico, si renda necessaria la partecipazione di più soggetti in concorrenza tra loro.

In tal modo, le prescrizioni stabilite nella lex specialis vincolerebbero non solo i concorrenti ma anche la stessa amministrazione appaltante che non conserva alcun margine di discrezionalità nella loro concreta attuazione né può disapplicarle, neppure nel caso in cui alcune di tali regole risultino inopportunamente o incongruamente formulate, salva la possibilità di procedere all’annullamento del bando nell’esercizio del potere di autotutela (Consiglio Stato , sez. V, 30 settembre 2010 , n. 7217 e 22 marzo 2010 , n. 1652). L’Amministrazione non può, quindi, fornire in corso di gara una interpretazione tale da violare i principi sanciti dalla disciplina di evidenza pubblica tra i quali il legittimo affidamento dei concorrenti e il principio della parità di trattamento. Con una recente sentenza, la giurisprudenza amministrativa (Tar Lazio, Sez III, sentenza n. 8556/2018) ha ritenuto illegittima l’aggiudicazione del contratto in favore del concorrente primo classificato che aveva, nel corso della procedura, modificato la propria originaria offerta con assunzione da parte di quest’ultima di impegni non conformi a quanto dichiarato in sede di offerta tecnica. Il Collegio nel merito, infatti, ha riscontrato una violazione del principio della non modificabilità dell’offerta, la cui rideterminazione si traduce in oggettiva alterazione della par condicio dei concorrenti e della certezza delle situazioni giuridiche, oltre a compromettere l’imparzialità e la trasparenza dell’operato della stazione appaltante ad assicurare la correttezza nella scelta del contraente da parte dell’Amministrazione e la par condicio tra gli aspiranti aggiudicatari della stessa nonché la tutela giurisdizionale erogabile in caso di illegittimità dei procedimenti in materia.


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