Parcella professionale esorbitante: quando configura il reato di circonvenzione di incapace?

Parcella professionale esorbitante: quando configura il reato di circonvenzione di incapace?

Nota a Cassazione Penale, Sez. VI , 29 settembre 2017, n. 45116

L’art. 643 c.p. disciplina il reato di circonvenzione di incapace che punisce “chiunque, per procurare a sè o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, della passione o dell’inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso“.

In dottrina, si sono contrapposti due diversi orientamenti in merito alla natura del bene giuridico tutelato: secondo la tesi personalistica il bene giuridico coinciderebbe con la libertà di autodeterminazione del soggetto incapace; secondo la tesi contrapposta, invece, il bene giuridico da tutelare sarebbe il patrimonio danneggiato dell’incapace.

Relativamente alla figura dell’incapace la norma attiene ai soggetti non necessariamente incapaci di intendere e di volere, ma minori, infermi e con una minorata capacità psichica.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria il reato di circonvenzione di incapace configura un reato contratto e non un reato in contratto: pertanto, gli atti e i contratti posti in essere dagli incapaci devono essere considerati nulli e non semplicemente annullabili, in quanto l’inosservanza del precetto integra la violazione di una norma imperativa a tutela di un interesse pubblico, come desumibile dall’art. 1418 c.c..

Dunque, ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice devono concorrere i seguenti requisiti: 1) una minorata condizione di autodeterminazione del soggetto passivo in ordine ai suoi interessi patrimoniali; 2) una condotta di induzione a compiere atti che comportino, per il soggetto passivo e/o per terzi, effetti giuridici dannosi di qualsiasi natura; l’induzione deve consistere in un’attività di apprezzabile pressione morale e di persuasione  che sia alla base dell’atto dispositivo compiuto (in rapporto di causa ad effetto); 3) l’approfittamento dello stato di vulnerabilità del soggetto passivo che si verifica quando l’agente, ben consapevole della condizione di debolezza del soggetto passivo, la sfrutta per procurare a sè o ad altri un profitto.

In tema di circonvenzione di incapace, la Suprema Corte si è di recente espressa partendo dal caso di specie di due professionisti che chiedevano ad un’anziana cliente circa 77.000 euro come onorario per la difesa in un giudizio tributario e venivano denunciati per circonvenzione di incapace, per aver raggirato la donna al fine di farle esborsare una somma esorbitante rispetto all’attività professionale svolta. I Supremi Giudici statuivano che, nel caso in cui il risultato illecito della condotta consista nel pagamento di un compenso per prestazioni professionali, il reato non può configirarsi facendo ricorso esclusivamente al criterio del superamento del massimo previsto dalla tariffa professionale e, quindi, avendo necessariamente riguardo al solo importo eccedente tale misura, ma  è necessario fare una valutazione circa la necessaria sussistenza di  una condotta di induzione che abbia determinato lo squilibrio tra prestazione e compenso. Inoltre, perchè tale condotta sia riscontrabile non è necessario l’impiego di artifici o raggiri, ma è sufficiente un comportamento idoneo a determinare nella vittima una pressione psicologica che lo induca a compiere l’atto dannoso e che non può essere integrata dal mero compimento di un atto giuridico come il pagamento di una parcella, anche se contenente una somma esorbitante rispetto all’attività professionale svolta (Cass. Pen., Sez. VI, 29 Settembre 2017, n. 45116).


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