Peculato d’uso e denaro: un binomio possibile?

Peculato d’uso e denaro: un binomio possibile?

1. ANALISI DELLA FATTISPECIE DELITTUOSA

Il peculato d’uso, previsto e punito dal c. 2 dell’art. 314 c.p., è un reato proprio, punibile a titolo di dolo specifico. Esso non costituisce un’attenuante del delitto di peculato di cui al c. 1, bensì un’autonoma fattispecie, ricompresa nel novero dei reati contro la Pubblica Amministrazione (sul punto, di recente, Cass. sez. VI pen., sent. n. 14040 del 29/01/2015).

Il capoverso della richiamata disposizione recita:
“Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita”.

La fattispecie in esame è stata introdotta dalla l. n. 86 del 26/04/1990. La temporaneità dell’uso e l’immediata restituzione della cosa costituiscono gli elementi di differenziazione dal peculato.

In ragione di ciò, non viene ad applicarsi, in questo caso, l’attenuante delle restituzioni di cui all’art. 62, n. 6 c.p..

Inoltre, la differenza rispetto al delitto previsto e punito dal c. 1 si apprezza anche con riguardo all’elemento soggettivo: è sufficiente difatti il dolo generico nel peculato, mentre è necessario accertare la sussistenza di un dolo specifico nel peculato d’uso, poiché si deve dimostrare che il soggetto agente si sia appropriato del bene allo scopo di farne un uso esclusivamente momentaneo.

Il reato in parola è altresì istantaneo, poiché si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione dell’oggetto materiale appartenente ad altro soggetto (denaro o cosa mobile) da parte dell’agente. L’apprensione del bene deve realizzarsi con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede la res altrui, a prescindere dal verificarsi di un danno alla pubblica amministrazione.

A seguito dell’intervento riformatore della l. n. 86/1990, l’elemento oggettivo del reato non esige più, come in passato, che il denaro o la cosa mobile appartengano alla P.A., essendo stato soppresso tale espresso requisito. Ad oggi è pertanto necessario solo che le cose oggetto di apprensione si trovino nella disponibilità del soggetto agente. Inoltre, come affermato da giurisprudenza di legittimità posteriore alla novella, non è neppure richiesto che il bene fuoriesca dalla sfera di disponibilità del proprietario, essendo sufficiente che il soggetto agente si comporti, nei confronti del bene stesso, uti dominus, realizzando fini estranei agli interessi del proprietario (cfr. Cass. sez. VI pen., sent. n. 788, 14/02/2000).

È bene chiarire come non tutte le ipotesi di utilizzo temporaneo del bene pubblico per finalità non corrispondenti a quelle istituzionali integrino la fattispecie del peculato d’uso. Difatti, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che servirsi di un bene in modo episodico ed occasionale, non idoneo – per consistenza e durata – a recare un concreto e significativo danno economico all’ente pubblico ovvero a pregiudicarne l’ordinaria attività amministrativa,  non perfeziona certamente il reato in parola (cfr. Cass. sez. VI pen., sent.  n. 7177, 27/10/2010).

Ancora, secondo un indirizzo giurisprudenziale, non può sussistere peculato se l’uso privato del bene di servizio è modesto. In tal caso, infatti, difetterebbe il requisito del valore economico della res, sufficiente per configurare il delitto di cui al c. 1 (cfr. Cass. sez. VI pen., sent. n. 41709, 19/10/2010). Deve tuttavia darsi conto di un differente e recentissimo orientamento della medesima sezione, che ha espresso la tesi secondo cui la natura plurioffensiva del peculato implica che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato (Cass. sez. VI pen., sent. n. 50198, 03/11/2017).

2. USO TEMPORANEO DELLA COSA E COMPATIBILITÀ CON IL DENARO

È opinione diffusa che il peculato d’uso sia ontologicamente incompatibile con i beni consumabili, ovverosia con i beni che esauriscono la loro utilità al momento dell’utilizzo stesso.

Quid iuris, dunque, nel caso in cui un soggetto, incaricato di pubblico servizio, sia indagato per il reato di cui al c. 1 della disposizione in esame, poiché asseritamente appropriatosi di una modesta somma di denaro che avrebbe invece dovuto versare alla Pubblica Amministrazione?

Nel suo interesse, sarebbe preferibile far ricadere la condotta nell’alveo della fattispecie prevista al c. 2 dell’art. 314, piuttosto che in quella di cui al c. 1: la differenza edittale, difatti, consentirebbe la richiesta di applicazione di non punibilità per particolare tenuità dell’offesa.

Tuttavia, per adottare questa strategia difensiva, è necessario far ricadere gli elementi fondanti la sua condotta nelle maglie del c. 2, e per far ciò è di primaria importanza qualificare correttamente la res oggetto di appropriazione come bene compatibile con la fattispecie che punisce il solo uso.

La giurisprudenza della Suprema Corte, maggioritaria e recente, sembra non deporre in senso favorevole all’integrazione della fattispecie di peculato d’uso quando la res sia costituita dal denaro, poiché risulta ancorata al concetto di “bene consumabile”. La Cassazione, difatti, ha più volte affermato che il denaro è bene che può essere utilizzato una sola volta: la qual cosa impedisce l’integrazione della fattispecie di peculato ex c. 2 art. 314.

Per tale ragione, i giudici di Piazza Cavour si sono costantemente opposti all’integrazione del peculato d’uso nelle ipotesi di materiale apprensione di denaro. Ex multis, si veda la recente pronuncia della  Cass. sez. VI pen., n. 20043, 14/05/2014, secondo la quale: “Il peculato d’uso è, infatti, configurabile solo in relazione a cose di specie e non a cose fungibili, restituibili solo nel tantundem e men che mai al denaro, menzionato in modo alternativo solo dall’art. 314 c. 1 c.p.” (dello stesso avviso: Cass. sez. VI pen. n. 12368, 17/10/2012; Cass. sez. VI pen. n. 30178, 12/07/2013; Cass. sez. VI pen. n. 34509, 08/08/2013).

Diversamente opinando, tuttavia, può riconoscersi che il denaro è sì bene consumabile (perché per utilizzarlo occorre spenderlo), ma anche fungibile, dal momento che, essendo un bene generico, può essere scambiato con altro dello stesso tipo. Di conseguenza, in teoria sarebbe configurabile il peculato d’uso perché, anche se il bene in questione è consumabile, il soggetto può restituirlo (e la restituzione è elemento fondamentale nella fattispecie in esame).

D’altro canto, giova rilevare che un’impostazione sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità meno recente ritiene, in senso contrario a quanto affermato dalla corrente maggioritaria, che il peculato d’uso sia configurabile anche in relazione a cose fungibili e quindi anche in riferimento al denaro (Cass. sez. VI pen., sent. n. 4195, 14/03/1995).

Ciò sulla scorta dell’opinione per cui la norma in esame non pone alcuna distinzione tra i tipi di “cosa”, nonché del fatto che la condotta appropriativa in essa configurata è per intero mutuata dal peculato ordinario, che può avere ad oggetto anche beni fungibili.

Inoltre, perché si realizzi tale ipotesi criminosa è necessario che l’agente, subito dopo l’uso, ponga in essere l’attività diretta a procurarsi il denaro ed operi quindi la restituzione senza soluzione di continuità.

Si riporta, per una migliore comprensione, la massima della pronuncia citata: “è ipotizzabile la figura del peculato d’uso anche in relazione a cosa fungibile – e quindi al denaro –  in quanto la condotta appropriativa nel peculato d’uso è mutuata per intero dal peculato ordinario, che è relativo ad ogni tipo di cosa (fungibile o infungibile), mentre il comma 2 dell’art. 314 c.p. si limita ad indicare solo la condotta susseguente idonea a degradare il reato senza alcuna limitazione alle sole cose infungibili”.

Essendo la restituzione un elemento caratterizzante la tipicità di tale fattispecie delittuosa, a fini difensivi si rende necessario individuare degli argomenti che possano provare l’avvenuta riconsegna del denaro da parte dell’incaricato di pubblico servizio.

3. PECULATO D’USO IN RAPPORTO ALL’ABUSO D’UFFICIO

Una fattispecie delittuosa simile al peculato, ma più mite nel trattamento sanzionatorio, è rappresentata dall’abuso d’ufficio, previsto dall’art. 323 c.p..

Tale disposizione incrimina la duplice condotta antidoverosa del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, secondo l’intenzione, e nello svolgimento delle funzioni o del servizio, procuri a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero procuri ad altri un danno ingiusto.

Il delitto in esame condivide con il peculato la soggettività ristretta, nonché il tipo di dolo specifico o “intenzionale”. La cornice edittale prevede la reclusione da 1 a 4 anni.

Per l’integrazione di tale fattispecie, a mente dell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, non è sufficiente che “il soggetto attivo agisca con dolo diretto, cioè che si rappresenti l’evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né che agisca con dolo eventuale, nel senso che accetti il rischio del suo verificarsi, ma è necessario che l’evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessori di questa” (cfr. Cass. sez. VI pen, sent. n. 4979, 08/02/2010).

Pertanto appare evidente come, per l’accertamento di detto reato, all’esito di un eventuale dibattimento debba risultare provata non solo la condotta illecita, ma anche la verificazione dell’evento offensivo, individuabile nella “oggettiva deviazione della funzione o del servizio rispetto alla causa tipica” (cit. LICCI, Abuso d’ufficio. Analisi di un enunciato normativo, in Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, 497).

Tornando all’esempio dell’incaricato di pubblico servizio asseritamente appropriatosi di modesta quantità di denaro, potrebbe prospettarsi, a fini difensivi, la possibilità di far ricadere la condotta nel peculato d’uso. Tale tentativo, tuttavia, potrebbe essere rigettato dal giudice, in quanto frutto di interpretazione ancorata a un indirizzo giurisprudenziale indubbiamente valido, ma minoritario.

In subordine, pertanto, potrebbe richiedersi la derubricazione in abuso d’ufficio.

Ciò presenterebbe dei vantaggi: dal momento che la cornice sanzionatoria è inferiore a quella di cui all’art. 314 c.p., e rientra nelle maglie dell’art. 131 bis c.p., il difensore potrebbe richiedere l’applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Vieppiù, come si è visto, per l’integrazione di detta figura criminosa è necessario che il giudice accerti, oltre ogni ragionevole dubbio, che sussista la c.d. “doppia ingiustizia”, riferita sia all’antidoverosità della condotta (posta in essere in violazione di legge o di regolamento o dell’obbligo di astensione), sia all’evento di danno o di vantaggio patrimoniale non spettante, e costituente elemento essenziale al perfezionamento del reato (per costante giurisprudenza: cfr. Cass. sez. VI pen., sent. n. 36125, 25/08/2014; Cass. sez. I pen., sent. n. 1733, 16/01/2014; Cass. sez. VI pen., sent. n. 27936, 24/04/2008).

Di conseguenza, dovendosi effettuare tale delicato duplice accertamento, potrebbero figurarsi più probabilità, almeno statisticamente, di assoluzione dell’indagato in un eventuale dibattimento.


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Avv. Ilaria Romano

Avvocato del Foro di Lecce. Specializzata con menzione in diritto penale. Docente a contratto di Diritto Processuale Penale presso la SSPL "V. Aymone" di Lecce.

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