Pene accessorie: natura, funzioni, ruolo del giudice, automatismi sanzionatori e criticità costituzionali

Pene accessorie: natura, funzioni, ruolo del giudice, automatismi sanzionatori e criticità costituzionali

Sommario: 1. Sintesi della trattazione – 2. Natura giuridica e funzioni delle pene accessorie – 3. Ruolo del giudice e automatismi sanzionatori: i limitati poteri del giudice nell’applicazione e nella commisurazione delle pene accessorie – 4. L’automatismo sanzionatorio previsto all’art. 37 c.p.: l’equiparazione di durata della pena accessoria temporanea alla durata della pena principale irrogata dal Giudice – 5. Automatismi sanzionatori, disuguaglianza e rieducazione: la incostituzionalità delle pene accessorie di durata decennale fissa previste per il delitto di bancarotta fraudolenta – 6. Il sindacato della Corte Costituzionale sulla proporzionalità della pena

 

1. Sintesi della trattazione

Le pene accessorie sono vere e proprie sanzioni penali e, come tali, perseguono finalità preventive, retributive e rieducative, al pari delle pene principali.

Tuttavia, diversamente da quelle principali, nelle sanzioni accessorie il ruolo del giudice è limitato poiché le predette sanzioni non vengono irrogate dal magistrato, ma discendono automaticamente dalla legge.

Peraltro, se di norma le pene principali sono temporanee, con una durata stabilita mediante una cornice edittale, quelle accessorie sovente sono perpetue, oppure temporanee ma con una durata stabilita in misura fissa dalla legge, senza che, quindi, il giudice possa incidere sull’an e sul quantum del trattamento sanzionatorio accessorio.

Posto che l’applicazione automatica di una sanzione (cd. automatismo sanzionatorio) non consente di diversificare l’ammontare della pena a seconda del caso concreto, si pone il rischio che a fronte di fatti con gradi di offensività diversi venga applicata la medesima sanzione, in contrasto con i principi di ragionevolezza, non discriminazione e rieducazione.

Una ipotesi particolare di automatismo sanzionatorio è prevista all’art. 37 c.p., nella parte in cui la durata della pena accessoria temporanea viene equiparata alla durata della pena principale concretamente irrogata dal giudice. In relazione all’ampiezza del campo applicativo della norma citata è sorto un contrasto giurisprudenziale, poi appianato dalle Sezioni Unite aderendo all’orientamento che fornisce una interpretazione costituzionalmente orientata della norma in parola.

Sul versante delle fattispecie di parte speciale, invece, la problematica delle pene accessorie fisse si è posta nel contesto del delitto di bancarotta fraudolenta, ove la previsione di pene accessorie aventi durata decennale fissa ha condotto ad una pronuncia di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 27 Cost..

La menzionata pronuncia è rilevante anche perché si inserisce nel filone giurisprudenziale di sentenze che si sono pronunciate sulla proporzionalità della pena e che, negli anni, hanno dimostrato che il sindacato della corte costituzionale è incrementato. Invero, la Corte, ad oggi, si ritiene legittimata a sindacare la proporzionalità delle pene, a censurare quelle sproporzionate ed a desumerne il giusto ammontare dal sistema nel suo complesso.

2. Natura giuridica e funzioni delle pene accessorie

Il sistema sanzionatorio delineato dal codice penale distingue tra pene principali e pene accessorie.

Le pene accessorie, a loro volta, si distinguono a seconda che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni, oltre ad esservi sanzioni accessorie comuni ad entrambe le tipologie di reato (artt. 19 e seguenti c.p.).

Precisamente, quelle previste per i delitti sono l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione da una professione o da un’arte, l’interdizione legale, l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro, la decadenza o la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale.
Quelle comminate per le contravvenzioni sono, invece, la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte e la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Sono, infine, pene accessorie comuni ai delitti e alle contravvenzioni la pubblicazione della sentenza penale di condanna e quelle pene accessorie, stabilite per i delitti, che vengano di volta in volta estese dalla legge penale anche alle contravvenzioni.

Dagli effetti giuridici derivanti dalle sanzioni accessorie appena elencate risulta che queste, sebbene non limitino la libertà personale o economica al pari delle pene principali, comprimono ugualmente la sfera giuridica del condannato, salvo nel caso della pubblicazione della sentenza penale di condanna, la quale produce un effetto essenzialmente infamante o di discredito sociale.

La produzione di conseguenze negative nella sfera giuridica del condannato, assieme al nomen juris e alla collocazione sistematica all’interno del Titolo dedicato alle pene, dimostra che la natura giuridica delle pene accessorie è di vera e propria sanzione penale. Del resto, nella relazione al codice si legge che “… pur conservando l’indubbio carattere di pene, dalle prime [quelle principali, ndr] si distinguono per ciò che esse non sono inflitte dal giudice  nella  sentenza  di condanna, ma conseguono di diritto alla condanna come effetti  penali di esse e presentano, quindi, la caratteristica di specie penali  non solo complementari e accessorie,  ma  altresì conseguenziali  delle pene principali.”[1].

Posta la natura giuridica di sanzione penale, si deve comprendere se le pene accessorie perseguano i medesimi fini di quelle principali.

Sul punto, in primo luogo, si è osservato che ogni singola pena accessoria persegue con diversa intensità una o più delle molteplici finalità perseguite dalle pene principali.

In ordine agli obiettivi di prevenzione, il timore dei consociati di patirne gli effetti soddisfa l’esigenza di prevenzione generale, risultando un tratto comune a tutte le pene accessorie.

La funzione di prevenzione speciale, invece, appare presente soprattutto nelle pene accessorie che privano il condannato di diritti o facoltà inerenti alla commissione del reato, ad esempio, precludendogli l’esercizio della professione che ha occasionato la condotta criminosa.

Diversamente, nelle sanzioni accessorie di tipo infamante – vedasi la pubblicazione della sentenza – può rinvenirsi un intento principalmente retributivo.

Infine, in relazione alla funzione rieducativa, taluni interpreti dubitano che l’art. 27 Cost., nel sancire la funzione rieducativa della pena in vista del reinserimento sociale, si riferisca anche alle pene accessorie.

Si ritiene, infatti, che talune pene non siano in grado di consentire il reinserimento del condannato nella società, soprattutto qualora l’effetto della pena accessoria sia l’esclusione del reo da taluni contesti sociali, interdicendolo dai pubblici uffici, precludendogli l’esercizio di una professione o di contrattare con l’amministrazione e via dicendo.

Tuttavia, in merito all’esclusione sociale del condannato, può replicarsi che questa è circoscritta solo a taluni contesti sociali, lasciandone impregiudicati altri.

Inoltre, sul piano sistematico, apparirebbe discordante un sistema sanzionatorio composto da pene principali e accessorie in cui le prime perseguano finalità differenti dalle seconde.

La funzione rieducativa, ad ogni modo, è stata anche di recente riconosciuta dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 222 del 2018, che ha censurato talune pene accessorie previste per il delitto di bancarotta fraudolenta, in quanto pene fisse e particolarmente severe, come tali non graduabili a seconda della gravità dei fatti commessi e, pertanto, incapaci di rieducare il condannato, in violazione degli artt. 3 e 27 Cost..

Sulla sentenza appena menzionata ci si soffermerà in seguito, poiché questa affronta plurime questioni coinvolgenti le pene accessorie, date dagli automatismi sanzionatori sottesi alle pene fisse e dal sindacato operato dalla Corte costituzionale sulla proporzionalità delle pene.

3. Ruolo del giudice e automatismi sanzionatori: i limitati poteri del giudice nell’applicazione e nella commisurazione delle pene accessorie

Nonostante le pene accessorie abbiano natura giuridica di sanzione penale e perseguano obiettivi di rieducazione, prevenzione e retribuzione, al pari delle pene principali, la loro disciplina codicistica tratteggia un ruolo particolarmente limitato in capo al giudice.

Il primo ambito in cui emerge la ridotta discrezionalità del giudice concerne l’irrogazione della pena.

È noto, infatti, che le pene principali sono commisurate e irrogate dal giudice mentre, diversamente, le pene accessorie conseguono di diritto dalla condanna, quali effetti penali di essa (art. 20 c.p.). Quelle accessorie, quindi, costituiscono un effetto giuridico discendente dalla legge e non dai poteri del giudice, come del resto è già emerso dalla succitata relazione al codice penale, nella parte in cui si legge che le pene accessorie si distinguono da quelle principali proprio perché “…non sono inflitte dal giudice  nella  sentenza  di condanna, ma conseguono di diritto alla condanna come effetti  penali di esse…”.

Non a caso, la legge disciplina anche l’eventualità in cui il giudice non provveda in sentenza sulle pene accessorie, disponendo, ex art. 183 disp. att. c.p.p., che vi provveda il giudice dell’esecuzione, su richiesta del pubblico ministero.

Solo in talune ipotesi la legge riassegna al giudice la discrezionalità tipicamente prevista per le pene principali, affidandogli il compito di decidere sull’an dell’applicazione della pena accessoria, come avviene, ad esempio, qualora si tratti di decidere se applicare o meno la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale prevista all’art. 32, comma 3, c.p..

Altre volte, invece, il giudice è chiamato a decidere sui tempi e sui modi della pena accessoria, come accade in relazione alle modalità e alla durata del periodo di pubblicazione della sentenza di condanna ex art. 36 c.p..

Il secondo ambito disciplinare in cui emerge il predetto ruolo marginale del giudice è quello relativo alla durata e alla commisurazione delle pene accessorie.

Anche qui, è notorio che le pene principali vengono commisurate dal giudice nei limiti della cornice edittale delineata dalla legge e che hanno una durata limitata nel tempo (salvo per la pena dell’ergastolo, il cui ambito applicativo è stato comunque inciso dalle pronunce della Suprema Corte e dalla Corte Edu).

Il compito del giudice, dunque, è quello di quantificare la pena entro i limiti edittali delineati dalla legge.

Diversamente accade per le pene accessorie, per le quali la legge prevede una durata che può essere persino perpetua oppure stabilita in misura fissa, con la conseguenza che il giudice non può pronunciarsi né sull’an -poiché la pena discende automaticamente dalla condanna- né sul quantum del trattamento sanzionatorio accessorio.

In altri casi ancora, invece, ex art. 37 c.p., la durata della pena accessoria è quantificata dalla legge con un criterio per relationem, in forza del quale la durata viene equiparata a quella della pena principale irrogata dal giudice. Pertanto, solo in limitate ipotesi, qualora la legge preveda una cornice edittale o limiti di durata minimi o massimi (“non inferiore a…” “fino a…”, “non superiore a…”), il giudice riacquista il proprio potere di commisurazione, come si avrà modo di chiarire in seguito.

Sovente, dunque, l’applicazione delle pene accessorie consiste in un automatismo sanzionatorio, posto che l’an e il quantum della pena accessoria discendono automaticamente dalla singola previsione di legge, senza che il giudice possa stabilire diversamente.

Ne consegue che il regime di durata delle pene accessorie risulta particolarmente aderente al principio di legalità, soprattutto in punto di determinatezza e di prevedibilità, poiché la quantificazione della pena viene effettuata a monte dal legislatore, precludendo quasi del tutto la discrezionalità del giudice.

Tuttavia, l’osservanza del principio di legalità viene ottenuta per mezzo di un sistema basato, di frequente, su automatismi sanzionatori, con il rischio che, a fronte di fatti dotati di gradi di offensività diversi, venga applicato il medesimo trattamento sanzionatorio, ossia una pena discriminatoria e incapace di rieducare il condannato.

4. L’automatismo sanzionatorio previsto all’art. 37 c.p.: l’equiparazione di durata della pena accessoria temporanea alla durata della pena principale irrogata dal giudice

In tema di determinazione delle pene accessorie, come accennato sopra, l’art. 37 c.p. prevede un criterio di quantificazione per relationem, alla luce del quale la durata della sanzione accessoria è equiparata a quella della pena principale concretamente irrogata dal giudice.

La norma in esame infatti dispone che “Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non e’ espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato.

Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria.”.

Si ritiene pacifico che l’equiparazione prevista nella norma menzionata non si applichi qualora la pena accessoria sia perpetua (come avviene, ad esempio, agli artt. 29 e 317 bis c.p.), e che, all’opposto, si applichi qualora la legge non faccia alcun riferimento alla durata temporale della pena accessoria (come accade, ad esempio, nell’art. 609 nonies c.p.).

Invece, è sorto un contrasto interpretativo in merito al significato da attribuire alle parole “non è espressamente determinata”: in quali casi può affermarsi che la durata della pena accessoria non sia espressamente determinata?

In particolare, ci si chiede se la pena accessoria sia o meno determinata qualora la durata non venga stabilita in misura fissa ma, ciononostante, la legge delinei una cornice edittale o limiti minimi o massimi.

Secondo un primo indirizzo interpretativo, la pena è determinata esclusivamente nei casi in cui la legge ne indichi la durata in misura fissa, applicandosi invece, in tutti gli altri casi, l’equiparazione prevista dall’art. 37 c.p., che – lo si ricorda – consiste in un automatismo sanzionatorio, poiché la pena accessoria viene automaticamente pareggiata a quella principale.

L’indirizzo interpretativo opposto sostiene che la pena deve ritenersi determinata anche qualora la legge delinei una cornice edittale o tracci limiti minimi o massimi di durata; in tali ipotesi, di conseguenza, non trova applicazione l’equiparazione di cui all’art. 37 c.p., dovendo essere il giudice a commisurare la pena secondo i parametri previsti agli artt. 132 e 133 c.p..

Sul punto è intervenuta una prima sentenza a Sezioni Unite, la n. 6240 del 2015, che, incidentalmente, ha precisato che, qualora la legge indichi solo una forbice edittale oppure preveda solo un limite minimo o massimo, la pena accessoria non può ritenersi determinata e pertanto, come professa il primo indirizzo interpretativo, deve trovare applicazione l’art. 37 c.p..

La giurisprudenza successiva si è conformata a tale assunto e, in molteplici casi, ha applicato l’equiparazione prevista dall’art. 37 c.p., come accaduto nel contesto dei reati tributari (art. 17 d.lgs n. 74/00), degli stupefacenti (art. 85 d.P.R. n. 309/90), dei delitti contro la libertà personale (art. 609 nonies, comma 1, n. 4, c.p.), oltre che nell’ambito della fattispecie di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 l.f., sulla quale ci si soffermerà nel prossimo paragrafo.

Successivamente, tuttavia, una seconda pronuncia a sezioni unite, la n. 28910 del 2019, ha superato la soluzione appena esposta, affermando che “La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.”.

La pronuncia da ultimo citata supera le osservazioni svolte da S.U. n. 6240/14 con gli argomenti di seguito tratteggiati.

Innanzitutto, non viene condivisa l’affermazione secondo cui la pena accessoria deve ritenersi determinata solo qualora la legge ne indichi la durata in misura unica, fissa, invariata ed invariabile. A rigore, infatti, vi è una determinazione espressa della pena anche qualora sia prevista una cornice edittale, un limite minino o un limite massimo.

Sul punto, l’art. 183 disp. att. c.p.p. è neutro, nel senso che non può essere richiamato per affermare che la pena accessoria è determinata solo qualora sia individuata in misura fissa.

Inoltre, l’ultimo periodo dell’art. 37 c.p. non dimostra che la pena accessoria sia determinata solo se unica. La norma in parola, infatti, serve ad assicurare il mancato superamento dei limiti di durata indicati in linea generale dal codice penale, agli artt. 28-36, per ciascuna specie di pena accessoria, sulla premessa che la singola fattispecie, inserita nel codice o nelle leggi speciali, non li contempli.

Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza n. 222 del 2018, ha ulteriormente stigmatizzato la fissità delle pene accessorie, ergo l’art. 37 c.p. deve essere interpretato in senso costituzionalmente conforme, riducendone l’ambito applicativo, poiché esso consiste in un automatismo sanzionatorio.

Sempre in tema di interpretazioni costituzionalmente conformi, la Corte rileva che le pene accessorie, soprattutto quelle interdittive e inabilitative, assolvono alle funzioni di prevenzione speciale e di rieducazione personale, in quanto “allontanano” il soggetto dal contesto in cui si è verificato il fatto criminoso; sorge, così, l’esigenza che non siano fisse, ma vadano commisurate a seconda delle peculiarità del caso concreto, ai sensi degli artt. 132 e 133 c.p..

Poiché, inoltre, il parallelismo di cui all’art. 37 c.p. pone spesso molteplici problematiche applicative – che, al contrario, non si porrebbero qualora la pena accessoria venisse commisurata dal giudice -risulta preferibile il criterio di commisurazione di cui agli artt. 132 e 133 c.p.

Da ultimo, e sotto un profilo sistematico più generale, si rileva che sin dagli anni sessanta la giurisprudenza della Corte costituzionale ha affermato che gli automatismi sanzionatori si pongono in contrasto con i principi di uguaglianza, legalità, personalità della responsabilità e della finalità rieducativa della pena, ex artt. 3, 25, 27 Cost. Pertanto, ogni automatismo sanzionatorio, poiché sottrae alla giurisdizione il compito di apprezzare la specificità del caso e di offrirvi risposta adeguata e differenziata, va scongiurato perché in contrasto con il “volto costituzionale” (Corte Cost. n. 222 del 2018) della repressione penale e con la funzione rieducativa e di reinserimento sociale della punizione, i quali richiedono, invece, che la pena sia proporzionata al fatto di reato, alla sua offensività e alla personalità del reo.

Alla luce di quanto esposto, qualora la durata della pena accessoria sia stabilita tramite una cornice edittale, oppure con l’indicazione di limiti minimi o massimi, questa deve essere commisurata secondo i criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p., così come avviene per le pene principali.

5. Automatismi sanzionatori, disuguaglianza e rieducazione: la incostituzionalità delle pene accessorie di durata decennale fissa previste per il delitto di bancarotta fraudolenta

Nei precedenti paragrafi è emerso che sovente la durata delle pene accessorie è determinata dalla legge in misura fissa, non consentendo così al giudice di commisurare il trattamento sanzionatorio accessorio a seconda delle peculiarità del caso concreto.

Quanto precede può tradursi in una violazione dei principi costituzionali in materia penale, qualora il medesimo trattamento sanzionatorio venga applicato a fatti-reato di offensività diversa.

La questione appena accennata si è concretamente posta nell’ambito del delitto di bancarotta fraudolenta, ove, all’art. 216, ultimo comma, l.f., si legge che “Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità’ per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.

La previsione indiscriminata di pene accessorie della durata fissa di dieci anni, per tutte le ipotesi di reato di cui all’art. 216, ha portato a dubitare della legittimità costituzionale della norma. Sollevando questione di legittimità costituzionale si è, quindi, richiesto al giudice delle leggi di aggiungere alla norma in esame le parole “fino a”, di modo che la pena avesse una durata fino a dieci anni, con conseguente possibilità di essere commisurata dal giudice.

La predetta soluzione, nonostante “…l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma…”, è stata dapprima esclusa dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato che “Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Pertanto, deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.” (cfr. Corte Cost., sentenza n. 134 del 2012).

Coerentemente con quanto precede, la Suprema Corte, negli anni a venire, ha più volte ritenuto manifestamente infondata la questione sopra esposta, precisando altresì che la individualizzazione del trattamento sanzionatorio può sussistere anche in presenza di una pena accessoria fissa, qualora la pena principale sia dotata di una forbice edittale[2]. In questa evenienza, infatti, il giudice, potendo commisurare la pena principale, è in grado di predisporre un trattamento sanzionatorio che, nel suo complesso, risulta individualizzato.

La questione di legittimità costituzionale di cui sopra è stata nuovamente sollevata, e, questa volta, accolta, con la sentenza n. 222 del 2018 della Corte Costituzionale, a seguito della quale l’art. 216, ultimo comma, l.f. deve oggi essere letto nel senso che «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».

Il giudice delle leggi ha innanzitutto deciso di superare la posizione assunta con la sentenza n. 134/12, che riteneva la Corte costituzionale non legittimata a pronunciarsi sulla questione, poiché questa non sarebbe stata risolvibile mediante “una soluzione costituzionalmente obbligata” e comunque ineriva ad aspetti appartenenti alla discrezionalità del legislatore. Trattasi della questione, che verrà approfondita infra, del sindacato di costituzionalità in punto di proporzionalità della pena.

Con preciso riferimento, invece, alla illegittimità delle pene accessorie previste per il delitto di bancarotta fraudolenta, in prima istanza, la Corte evidenzia che qualsiasi pena fissa è indiziata di incostituzionalità, salvo che la struttura della fattispecie la renda proporzionata ai comportamenti sanzionati.

Nella specie, i comportamenti sanzionati dall’art. 216 l.f. esprimono, già in astratto, gradi di offensività diversi, come dimostrato dalla differente entità delle pene principali comminate. Ne discende che la fissità delle pene accessorie, a fronte di pene principali diverse, non è in grado di determinare un trattamento sanzionatorio proporzionato.

Del pari, anche i fatti di reato concretamente riconducibili nella fattispecie in esame possono esprimere offensività diverse e, in merito, si pensi alle condotte che concretamente possono integrare le ipotesi di bancarotta fraudolenta per distrazione, documentale o preferenziale.

Per di più, le pene accessorie aventi durata fissa decennale non variano neppure in presenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con la conseguenza che, anche di fronte a evenienze che rendano il reato più o meno grave, l’entità del trattamento sanzionatorio non varia.

Per le ragioni esposte, la Corte ha affermato che la norma in parola vìola i principi di uguaglianza, di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, di cui agli artt. 3 e 27 Cost.

Alla luce della declaratoria di incostituzionalità appena esposta e della succiata pronuncia a sezioni unite del 2019 sulla interpretazione dell’art. 37 c.p., le pene accessorie previste per il delitto di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216, ultimo comma, ultimo periodo, l.f., devono essere commisurate ex artt. 132 e 133 c.p., e non già ex art. 37 c.p., così come avviene per le pene principali. Ciò nonostante, come precisato da Cass. Pen, n. 37201/2019, la commisurazione delle citate pene accessorie di cui all’art. 216 l.f., operata dal giudice del merito ex art. 37 c.p. anziché ex art. 133 c.p., non dà luogo ad una pena illegale, in quanto trattasi di pena comunque ricompresa nei limiti edittali risultanti dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 222 del 2018. Ne discende che, in mancanza di specifico motivo di ricorso, il vizio non può essere rilevato d’ufficio dalla Corte di Cassazione.

6. Il sindacato della Corte Costituzionale sulla proporzionalità della pena

Come osservato nel paragrafo precedente, la Corte Costituzionale, inizialmente, non si è pronunciata sulla proporzionalità delle pene accessorie previste per il delitto di bancarotta, ritenendo la questione non risolvibile mediante “una soluzione costituzionalmente obbligata” (cfr. sentenza n.  134/2012) e comunque inerente aspetti riservati alla discrezionalità del legislatore.

Tale questione si inserisce nel più ampio dibattito riguardante i limiti entro i quali il giudice delle leggi possa stabilire se una pena – principale o accessoria – sia o meno proporzionata alla offensività del fatto e quale sia l’ammontare di pena che invece debba ritenersi proporzionato.

Stando alla principale giurisprudenza formatasi sul punto, si può notare che con il trascorre degli anni il sindacato della Corte costituzionale è divenuto sempre più intenso.

Idealmente, è possibile rappresentare questa evoluzione giurisprudenziale tracciando un percorso scandito da tre pronunce cardine.

La prima è la sentenza n. 341 del 1994, con la quale la Corte Costituzionale è giunta a definire sproporzionato il minimo edittale comminato per il delitto di oltraggio a P.U., di cui all’art. 341, comma 1, c.p., ritenendo necessario desumere tale sproporzione da un parametro esterno alla norma sospettata di incostituzionalità, nella specie dato dalla pena comminata per il delitto di ingiuria.

Come osservato dalla Corte, “la manifesta irragionevolezza della norma impugnata [l’art. 341/1 c.p., ndr] emerge anche dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 594 del codice penale.

La plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione.

Ciò non toglie però che nei casi più lievi, il prestigio e il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben altri comportamenti, appaiono colpiti in modo così irrisorio da non giustificare che la pena minima debba necessariamente essere dodici volte superiore a quella prevista per il reato di ingiuria. Anzi in questi casi è più che mai evidente l’irragionevole bilanciamento tra la tutela dell’amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore della libertà personale.”.

Dunque, in questa prima pronuncia, la Corte ha ritenuto che per poter affermare la sproporzione della pena fosse necessario un raffronto con una fattispecie analoga a quella sospettata di incostituzionalità e che fosse in grado di far emergere la sproporzione medesima, nel caso di specie raffrontando i trattamenti sanzionatori previsti per i delitti di ingiuria e di oltraggio a P.U..

Con la sentenza successiva, invece, la Corte ha ammesso che il giudizio sulla proporzionalità della pena può prescindere da un parametro esterno, affermando che il trattamento sanzionatorio può essere ritenuto anche intrinsecamente irragionevole, secondo una valutazione di “ragionevolezza intrinseca” che prescinda da raffronti con fattispecie diverse da quella di dubbia costituzionalità.

Così, nella sentenza n. 236 del 2016, il giudice delle leggi ha affermato la sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di alterazione di stato, di cui al comma 2 dell’art. 567 c.p., senza ritenere indispensabile il raffronto con il regime sanzionatorio della fattispecie di cui al comma 1 della medesima norma, discorrendo più volte di “ragionevolezza intrinseca” del trattamento sanzionatorio.

Sul punto, la Corte ha osservato che “Rimane fermo che le questioni all’attuale esame sollecitano, prima di tutto, un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata, alla luce dei principi costituzionali evocati (artt. 3 e 27 Cost.), non già una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche, lamentato attraverso la mera identificazione di disposizioni idonee a fungere da tertia comparationis.

Piuttosto, nella prospettazione del giudice a quo, l’esito negativo di un tale controllo, in termini di manifesta irragionevolezza per sproporzione tra cornice edittale, da un lato, e disvalore della condotta, dall’altro, viene a disvelarsi «anche» alla luce del più mite trattamento riservato ad altre fattispecie, tra cui, in particolare, quella del primo comma del medesimo art. 567 cod. pen.

Una censura di violazione del solo art. 3 Cost., incentrata sul supposto diverso trattamento sanzionatorio rispettivamente previsto dai due commi dell’art. 567 cod. pen., è stata rigettata da questa Corte (ordinanza n. 106 del 2007), che – pur riconoscendo come entrambe le fattispecie tutelino il medesimo bene giuridico, cioè l’interesse del minore alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza – ritenne non illegittimo tale diverso trattamento, essendo distinte le condotte descritte nei due commi della disposizione in questione.

Come chiarito, il diverso esito delle questioni all’attuale esame è sollecitato dall’aver il giudice a quo richiesto uno scrutinio di costituzionalità imperniato sulla manifesta irragionevolezza intrinseca della risposta sanzionatoria stabilita dalla norma censurata, sotto il profilo della proporzionalità tra severità della cornice edittale e disvalore della condotta, con ulteriore riferimento alla vanificazione, determinata dall’entità eccessiva della sanzione, della finalizzazione rieducativa della pena, ai sensi dell’art. 27 Cost.”.

Ad ogni modo, il paragone con la pena prevista da una fattispecie differente e affine a quella di sospetta costituzionalità (nella specie, quella di cui al comma 1°) rimane un elemento necessario per stabilire quale debba essere l’ammontare di pena che possa ritenersi proporzionato.

Pertanto la Corte, da un lato, è legittimata a stabilire se una pena sia o meno intrinsecamente irragionevole, senza che per tale giudizio sia dirimente un raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto da una fattispecie affine, dall’altro lato, tuttavia, la pena prevista da una fattispecie affine a quella incostituzionale rimane necessaria per stabilire quale debba essere il trattamento sanzionatorio proporzionato da applicare in sostituzione di quello sproporzionato. In questo modo, la pena conforme a costituzione non viene decisa arbitrariamente dalla Corte ma discende univocamente dalla legge, in conformità al principio di legalità.

Invero, la Corte ha ritenuto che “Per non sovrapporre la propria discrezionalità a quella del Parlamento rappresentativo, finendo per esercitare un inammissibile potere di scelta (sentenza n. 22 del 2007) in materia sanzionatoria penale, la valutazione di questa Corte deve essere condotta attraverso precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo. Anche nel giudizio di “ragionevolezza intrinseca” di un trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità, è infatti essenziale l’individuazione di soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata…”, ritenendo, dunque che “… l’unica soluzione praticabile consiste nel parificare il trattamento sanzionatorio delle due fattispecie nelle quali si articola l’unitario art. 567 cod. pen., trattandosi, appunto, di utilizzare coerentemente «grandezze già rinvenibili nell’ordinamento »”.

Nella terza tappa, rappresentata dalla succitata sentenza n. 222 del 2018, si assiste, infine, ad un ulteriore ampliamento del sindacato della Corte Costituzionale.

In questa sede viene precisato che l’individuazione della pena preposta a sostituire quella sproporzionata, come tale incostituzionale, non è necessario che si presenti come l’unica soluzione desumibile dalla legge, essendo sufficiente che tale soluzione discenda dal sistema normativo nel suo complesso, anche se dovesse integrare una delle molteplici soluzioni costituzionalmente conformi.

In merito, è utile riportare per intero il passaggio motivazionale in cui la Corte ha esplicitato il traguardo a cui è giunta, anche rimeditando la posizione espressa nella propria sentenza n. 134 del 2012 (cit. supra), nella parte in cui non si era ritenuta legittimata ad operare un sindacato sulla proporzione delle pene accessorie previste per il delitto di bancarotta.

 “Rimeditazione che, da un lato, non può non tener conto della circostanza che – a tutt’oggi – il legislatore non ha provveduto a quella «riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma», auspicata da questa Corte nella sentenza n. 134 del 2012; e che, dall’altro, non può non considerare l’evoluzione in atto nella stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sindacato sulla misura delle pene.

Questa Corte ha avuto recentemente occasione di stabilire che, laddove il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per una determinata figura di reato si riveli manifestamente irragionevole a causa della sua evidente sproporzione rispetto alla gravità del fatto, un intervento correttivo del giudice delle leggi è possibile a condizione che il trattamento sanzionatorio medesimo possa essere sostituito sulla base di «precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo», intesi quali «soluzioni [sanzionatorie] già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata» (sentenza n. 236 del 2016).

Tale principio deve essere confermato, e ulteriormente precisato, nel senso che – a consentire l’intervento di questa Corte di fronte a un riscontrato vulnus ai principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio – non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte «precisi punti di riferimento» e soluzioni «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016) – esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non “costituzionalmente obbligate” – che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima; sì da consentire a questa Corte di porre rimedio nell’immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia. Resta ferma, d’altra parte, la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali.

Tutto ciò in vista di una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero di rimanere senza possibilità pratica di protezione laddove l’intervento di questa Corte restasse vincolato, come è stato a lungo in passato, ad una rigida esigenza di “rime obbligate” nell’individuazione della sanzione applicabile in luogo di quella dichiarata illegittima.”.

L’ampliamento del sindacato, dunque, viene imposto dalla necessità di evitare che un sindacato limitato dal criterio delle “rime obbligate” possa determinare lesioni ai diritti fondamentali coinvolti nelle scelte sanzionatorie del legislatore.

Del resto, è ragionevole ritenere che a sostituire una pena sproporzionata, e quindi incostituzionale, possa essere anche uno dei molteplici trattamenti sanzionatori desumibili dall’ordinamento, posto che rimane integra la possibilità per il legislatore di intervenire prevedendo un trattamento sanzionatorio diverso da quello individuato dalla Corte Costituzionale ma del pari costituzionalmente conforme.

 

 

 

 

 


Bibliografia orientativa
Mantovani F., Diritto Penale, Parte Generale, VIII ed., Cedam.
Padovani T., Diritto Penale, XI ed., Giuffrè.
Giovagnoli R., Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, 2019, ItaEdizioni.
Giordano L., La Determinazione della durata delle pene accessorie, in Rassegna di giurisprudenza di legittimità, gli orientamenti delle Sezioni Penali, Corte di Cassazione (Ufficio del Massimario), vol. 1, anno 2019.
Relazione per l’approvazione del testo definitivo del codice penale.

 


[1]     Relazione per l’approvazione del testo definitivo del codice penale, punto n.4.
[2]     In questo senso, vedasi Cass. Pen., n. 33880/2018.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti