Pensione di reversibilità: nella ripartizione con il coniuge divorziato attenzione ai diritti della nuova moglie ex badante del de cuius

Pensione di reversibilità: nella ripartizione con il coniuge divorziato attenzione ai diritti della nuova moglie ex badante del de cuius

Cass. civ., Sez. I, Ord. 25 maggio 2021, n. 14383

La Corte di Cassazione ha stabilito che “la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale”.

Con questa interessante ordinanza la Corte Suprema conferma e ribadisce i criteri in forza dei quali occorre procedere alla ripartizione della pensione indiretta o di reversibilità tra il coniuge divorziato e quello superstite (sul tema si veda Roberta Conti “La ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge e l’ex coniuge”, in questa Rivista, Famiglia, 23 gennaio 2021) e soprattutto evidenzia, anche sotto un profilo squisitamente pratico e probatorio, l’attenzione da riporre nel rapporto intercorso tra il defunto ed il coniuge superstite, a maggior ragione quando quest’ultimo abbia svolto per conto del primo un’attività di assistenza domiciliare.

Si tratta, come possiamo vedere ed intuire, di una fattispecie quanto mai ricorrente poiché i casi di collaboratrici familiari (badanti) che convolino a nuove nozze con il proprio assistito sono frequenti ed in queste ipotesi la corretta ridistribuzione del vitalizio pensionistico di reversibilità in favore di esso coniuge in una a quello divorziato impone ai Giudici di merito un delicato quanto sapiente lavoro di interpretazione e di valutazione del dato probatorio loro offerto in fase dibattimentale.

Il principio, pertanto, sancito dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza in commento, sulla base di un proprio orientamento che viene non a caso espressamente richiamato (Cass., 26 febbraio 2020, n. 5268; Cass., 7 dicembre 2011, n. 26358), è chiaro ed esaustivo nell’affermare che “la ripartizione del trattamento di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, entrambi aventi i requisiti per la relativa pensione, va effettuata, oltre che sulla base del criterio della durata dei matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto, tra i quali la durata delle convivenze prematrimoniali, dovendosi riconoscere alla convivenza “more uxorio” non una semplice valenza “correttiva” dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, bensì un distinto ed autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato provi stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale“.

La Corte oltretutto opportunamente precisa come ai fini della giusta ed equa ripartizione del trattamento di reversibilità vadano considerati pure l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due aventi diritto e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali ed evidenzia, però, come non si debba mai confondere la durata della convivenza con quella del matrimonio cui si riferisce il criterio legale, né che si debba individuare nell’entità dell’assegno divorzile un limite legale alla quota di pensione attribuibile all’ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa in tal senso.

In conclusione, dunque, secondo gli Ermellini il giudice deve in ogni caso tenere conto dell’elemento temporale del rapporto matrimoniale, sia pregresso che ultimo, in quanto elemento di fatto e di diritto la cui valutazione non può mai mancare ma esso non deve assurgere ad unico ed esclusivo presupposto del suo apprezzamento poiché, anche sulla base della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 419 del 4 novembre 1999, egli nell’assolvimento del suo potere-dovere decisorio non può mai prescindere da ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due beneficiari e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali.

Come è noto, infatti, questa pronuncia costituzionale ha rappresentato la prima, vera, significazione in sede giurisprudenziale dell’elemento temporale nelle delicate questioni di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniugi aventi diritto poiché essa, in particolare, ha postulato la necessità di dover “tener conto” della durata dei rispettivi rapporti matrimoniali ex art. 9, comma 3, della Legge n. 898 del 1970, secondo un significato, però, diverso da quello testuale e letterale dal momento che se per un verso la valutazione di detto elemento temporale non può in nessun caso mancare al punto da assumerne valore preponderante ed il più delle volte decisivo, per altro verso esso non può mai assurgere a fattore esclusivo nell’apprezzamento del giudice al punto da ridurne la valutazione ad un mero calcolo aritmetico.

I Giudici costituzionali, più esattamente, hanno escluso che detta ripartizione si possa attuare unicamente sulla base di  una mera proporzione matematica relativa alla durata dei matrimoni dei coniugi beneficiari e tale prescrizione è stata poi ripetutamente ribadita anche dalla Corte Suprema oltre a trovare conferma già nella scelta adottata dal legislatore di voler investire il tribunale per la decisione caso per caso sulla ripartizione in questione, altrimenti non comprensibile se si dovesse trattare, appunto, di una statuizione priva ab origine di ogni elemento valutativo e con un criterio automatico eseguibile direttamente dall’ente erogatore della pensione, come avviene in altri casi normativamente previsti di aliquote fissate direttamente dal legislatore (si pensi, ad esempio, all’indennità di fine rapporto che viene, invece, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo sia coinciso con il matrimonio ex art. 12-bis della Legge n. 898 del 1970).

In definitiva, dunque, l’insegnamento che ci è pervenuto sin da allora dai Giudici Costituzionali è quello di evitare che la mancata considerazione di qualsiasi correttivo nell’applicazione del criterio matematico di ripartizione renda possibile, paradossalmente, che il coniuge superstite consegua una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita, mentre l’ex coniuge possa conseguire una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto, senza che il tribunale tenga conto di altri criteri per ricondurre ad equità la situazione.

Nell’ordinanza oggi in commento, quindi, la Corte di Cassazione, oltre come detto a ribadire tali concetti, individua altresì, sia pure in maniera sintetica e quanto mai lapidaria, un criterio metodologica cui debba attenersi il giudice di merito poiché sottolinea come non tutti i sopradetti elementi di fatto debbano necessariamente concorrere né essere valutati in egual misura tra loro, rientrando nell’ambito del prudente apprezzamento di esso giudice la determinazione della loro rilevanza in concreto, come tale ovviamente non contestabile in sede di legittimità se adeguatamente sorretta da motivazione, nel rispetto dei principi generali di diritto (Cass. Civ. n. 18461/2004, Cass. Civ. n. 6272/2004, Cass. Civ. n. 26358/2011 e Cass. Civ. n. 16093/2012).

Ancora una volta, quindi, il punto focale, ma come detto non esclusivo, della valutazione rimessa al Giudice diventa quello della durata del rapporto affettivo, sia esso prematrimoniale o di convivenza more uxorio ovvero matrimoniale, intercorso tra il soggetto deceduto ed il coniuge divorziato e quello superstite, in perfetta analogia con quanto prescritto, in linea generale, dall’art. 438 comma 2 del Codice Civile ( in materia di “Misura degli alimenti” testualmente prevede che “Essi possono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale”).

In realtà, il criterio legale della durata del matrimonio da equilibrarsi con l’indice correttivo della convivenza prematrimoniale, nel significato più autentico che quest’ultimo termine assume nel nostro sistema giuridico, costituisce una prerogativa della giurisprudenza di legittimità già largamente acquisita prima dell’ordinanza oggi in esame (Cass. Civ. – Sez. Lavoro – ord. n. 8263 del 28 aprile 2020 e, conformi, Cass. Civ. n. 11226/2003, Cass. Civ. n. 17636/2012, Cass. Civ. n. 25174/2011, Cass. Civ. n. 23670/2011 e Cass. Civ. n. 25564/2010).

Piuttosto, nel determinare esattamente i contorni di questo elemento ciò che rende particolare la pronuncia in commento è la circostanza che la moglie superstite del defunto pensionato abbia fondato la propria richiesta di quota di pensione di reversibilità anche sulla durata della convivenza prematrimoniale avuta con il marito, come risultante da relativa certificazione anagrafica attestante la sua coabitazione per un periodo di tempo di gran lunga maggiore rispetto a quello del matrimonio poi contratto con il de cuius, sebbene esulando da quei connotati di affettività e di emotività che il Legislatore espressamente prescrive al riguardo.

Sullo specifico punto, infatti, in maniera a nostro parere giuridicamente corretta ed ineccepibile, è significativa la posizione assunta dai Giudici di legittimità nell’aver ritenuto la convivenza, addotta dalla moglie superstite a supporto della propria richiesta, irrilevante ai fini della determinazione nel quantum della quota di pensione in quanto contraddistinta, per un lungo periodo di tempo, dal rapporto di lavoro dipendente da collaboratrice familiare che la stessa aveva contratto con il marito defunto e che risultava dimostrato in atti da apposito estratto contributivo INPS nonché dalla regolare retribuzione percepita e dai relativi contributi assicurativi e previdenziali versati.

La Corte Suprema, infatti, ha fatto perno sulla circostanza, decisiva sotto un profilo squisitamente processuale, che la coniuge superstite non avesse “articolato delle prove dirette a dimostrare che il rapporto tra le parti avesse assunto già prima del matrimonio una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa”.

In definitiva, quindi, da questa condivisibile impostazione possiamo anzitutto dedurre come, anche con riguardo alla problematica in esame, vi sia l’ennesima conferma di quell’incessante processo di equiparazione della convivenza more uxorio rispetto all’istituto del matrimonio che risponde alle prescrizioni di cui all’art. 1 comma 65 della Legge n. 76/2016, meglio conosciuta come “Legge Cirinnà“ dal nome della sua prima firmataria.

Eppure, proprio in questo lodevole ennesimo riconoscimento giuridico della convivenza more uxorio vi è la giusta affermazione di quel fondamento dello stesso che, come è noto, risiede proprio nell’unione stabile e continuativa di fatto di due persone maggiorenni, senza distinzione alcuna di sesso, caratterizzata da un legame affettivo di coppia e da una reciproca assistenza morale e materiale e che, quindi, presuppone, come è giusto che sia, che il rapporto di convivenza o di coabitazione sia contraddistinto da una “finalità di solidarietà” reciproca tra le due persone e non già da una relazione lavorativa o comunque di mera assistenza, come invece sarebbe emerso nel caso di specie.

Il messaggio, dunque, che la Corte di Cassazione intende chiaramente diffondere con l’ordinanza in commento è quello di voler dare rilevanza, ai fini del diritto a prestazioni pensionistiche strettamente connesse alla persona del de cuius, unicamente a rapporti affettivi conclamati ed accertati e che rechino in sé quell’intento solidaristico che sta alla base del beneficio previdenziale in questione, probabilmente anche per evitare possibili intenti fraudolenti tesi a consentire la percezione di tali emolumenti in misura maggiore rispetto a quella effettivamente spettante.

Occorre, infatti, sempre considerare che solo la durata, effettiva e reale, della convivenza prematrimoniale o more uxorio, assimilabile a quella da rapporto matrimoniale, può assumere rilievo nella determinazione del quantum della pensione di reversibilità spettante al coniuge, dal momento che, come opportunamente già precisato dalla stessa Corte Suprema (cit. Cass. Civ. – Sez. Lavoro – ord. n. 8263 del 28 aprile 2020), essa non può essere parcellizzata nel caso in cui coincida, anche in parte, con il periodo di separazione legale con l’altro coniuge, dovendo al contrario essere valutata “quale indice sintomatico della funzione di sostegno economico assolta dal dante causa nel corso della propria vita mediante la condivisione dei propri beni con la persona poi divenuta coniuge”.

Si tratta, invero, come possiamo vedere, di affermazione di principio che non è volta a negare in alcun modo l’esistenza del vincolo matrimoniale durante la separazione, considerata soltanto l’attenuazione e non lo scioglimento dello stesso, ma che mira ad attribuire alla convivenza prematrimoniale propriamente intesa quella fondamentale funzione di indice correttivo da inserire all’interno del complessivo ed articolato giudizio che deve condurre alla corretta ripartizione del trattamento pensionistico in parola.

Da un punto di vista strettamente semantico, forse, qualche dubbio potrebbe essere generato dall’utilizzo, nell’ordinanza in commento come in precedenti pronunce della Corte di Cassazione (v. per tutte Cass. Civ. – Sez. Lavoro – ord. n. 8263 del 28 aprile 2020), della locuzione “convivenze prematrimoniali” che, in quanto inspiegabilmente generica ed oltretutto spiegata al plurale, potrebbe anche far intendere come non ci si voglia riferire soltanto a quelle “more uxorio”, in tal modo lasciando aperte possibili strategie processuali e di difesa, come appunto quella riscontrata nel caso in esame, che ritengano plausibile la considerazione di periodi di coabitazione o di co-residenza anagrafica ai fini della determinazione della quota di reversibilità.

In effetti, fa riflettere il fatto che nella parte motiva della più volte citata ordinanza n. 8263 del 28 aprile 2020 la Corte Suprema testualmente attribuisca alla “convivenza prematrimoniale (e non semplicemente more uxorio)” la “funzione di indice correttivo da inserire all’interno del complessivo ed articolato giudizio che deve condurre alla adeguata determinazione delle quote”, quasi ad alimentare inevitabilmente queste incertezze interpretative.

In realtà, però, in una visione del problema più ampia e scevra da meri tatticismi processuali, non possiamo certamente non evidenziare come la volontà del Legislatore e, dobbiamo affermare, anche della giurisprudenza di legittimità sia orientata ormai nel senso di ritenere come detta convivenza sia tale solo in quanto contrassegnata da quelle “stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale” e da quella funzione solidaristica che contraddistinguono la pensione indiretta o di reversibilità (Cass. Civ. n. 16093/2012) e che sono riscontrabili unicamente in quella “more uxorio”, sola ed autentica forma di condivisione, non solo abitativa ma di vita e di intenti, suscettibile di rilevanza per la determinazione dell’assegno di reversibilità.


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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento. All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo. Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.

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