Perdita della proprietà per mano pubblica: occupazione acquisitiva e limiti oggettivi del giudicato civile

Perdita della proprietà per mano pubblica: occupazione acquisitiva e limiti oggettivi del giudicato civile

Cons. Stato, Ad. Plen. 9 aprile 2021, n. 6 – Pres. Patroni Griffi, Est. Lageder

“In caso di occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a.. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001; ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto”.

Sommario: 1. Fatto storico – 2. Occupazione acquisitiva: istituto di natura pretoria – 2.1. Critiche al neonato istituto – 2.2. Superamento della occupazione acquisitiva alla luce degli orientamenti della Corte Edu – 3. Gli effetti del giudicato di rigetto e orientamenti contrastanti – 4. La soluzione offerta dalla Adunanza Plenaria – 5. Conclusioni

 

1. Fatto storico

Con la pronuncia in esame la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato il delicato tema della “occupazione acquisitiva”, soffermandosi in particolare sulla efficacia del giudicato civile che accertò l’occupazione illegittima e rigettò l’istanza di risarcimento danni presentata dal privato.

La pronuncia è di particolare interesse ed attualità poiché sebbene la figura della occupazione acquisitiva sia oggi ampiamente superata, la sentenza in commento ripercorre tutti i relativi orientamenti giurisprudenziali susseguitesi negli ultimi decenni e si occupa di chiarire quali sono gli effetti che ancora oggi permangono nella sfera giuridica dei privati allora espropriati.

Prima di entrare nel vivo della questione giuridica, pare opportuno ripercorrere brevemente il fatto storico sottoposto all’attenzione dei Consiglieri di Stato.

Con decreto del Presidente della giunta della Regione Sardegna, nel 1977 fu autorizzato l’ente ospedaliero “Ospedali Riuniti” di Cagliari ad occupare d’urgenza una serie di terreni di proprietà privata per la realizzazione del “Nuovo Ospedale Civile”, opera da considerarsi di pubblica utilità e di urgente ed indifferibile esecuzione così come emergeva dal progetto precedentemente approvato con la deliberazione del Comitato tecnico regionale.

Al decreto di occupazione di urgenza non fece mai seguito il decreto di esproprio e tuttavia i terreni in questione furono utilizzati e trasformati irreversibilmente, come attestano la conclusione dei lavori e la realizzazione dell’opera compiuta, datata 1981.

Naufragato il tentativo di raggiungere un un accordo bonario tra privati e Azienda ospedaliera, succeduta medio tempore all’ente “Ospedali Riuniti”, avente ad oggetto la cessione volontaria delle aree già occupate per la realizzazione dell’opera pubblica, i privati espropriati o in alcuni casi i loro eredi, agirono in giudizio per ottenere il risarcimento del danno subito. L’istanza fu respinta. I giudici sardi infatti, ritenuta integrata la fattispecie della cd. occupazione appropriativa o acquisitiva, giuridicamente qualificabile come fatto illecito, ritennero che il termine decadenziale per azionare il diritto al risarcimento fosse quello quinquennale e come tale, ampiamente prescritto al tempo della istanza.

La sentenza, non impugnata passò in giudicato.

Gli eredi, anche indiretti (tanto era il tempo trascorso), adirono il Tar chiedendo l’emanazione di una pronuncia che accertasse l’illegittimità della occupazione, il rilascio dei terreni nonché il risarcimento del danno subito. Il Tribunale amministrativo della regione Sardegna, considerando le domande presentate come già proposte nella causa civile, le considerò già decise poiché, essendo passata in giudicato la sentenza civile, essa copriva anche le pretese dedotte nel procedimento in corso. Inoltre, il Tar, con una motivazione in parte differente dal Tribunale ordinario, affermò la mancanza di legittimazione attiva dei ricorrenti nel chiedere il rilascio dei terreni, in applicazione dell’orientamento giurisprudenziale della c.d “rinuncia implicita alla proprietà seguita alla sola istanza risarcitoria”. In altri termini il Tribunale amministrativo, sposando l’orientamento pretorio indicato, affermò che i ricorrenti, chiedendo in prima istanza solo il risarcimento del danno avevano implicitamente rinunciato al diritto di proprietà sul bene e pertanto, non essendo più proprietari, non avrebbero potuto azionare alcuna pretesa ripristinatoria, ma allo stesso tempo era ormai preclusa qualsiasi pretesa risarcitoria data l’intervenuta prescrizione.

Avverso tale sentenza proposero appello gli originari ricorrenti contestando la medesimezza dei petita proposti nei due processi.

Nella sostanza, a dire degli appellanti, mentre essi all’epoca della proposizione della domanda dinanzi al giudice civile potevano chiedere non la restituzione del bene, ma unicamente il risarcimento del danno per equivalente, al tempo del giudizio dinnanzi al Tar, stante il mutamento normativo e giurisprudenziale – di cui si dirà meglio nel prosieguo – avrebbero potuto finalmente proporre la domanda di restituzione del bene, che nulla avrebbe avuto a che vedere con quella risarcitoria proposta in sede civile, precisando altresì che la domanda restitutoria, configurandosi sostanzialmente in una azione di rivendicazione, non è soggetta ad alcun termine di prescrizione.

Gli appellanti pertanto, in riforma dell’impugnata sentenza, insistevano, previo accertamento dell’illegittima occupazione delle aree in questione, nel chiedere la condanna delle amministrazioni appellate al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio del terreno, previa rimessione in pristino ed alla corresponsione ai ricorrenti dei danni conseguenti alla illegittima occupazione.

La causa fu così rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che si pronunciò con la sentenza che qui si commenta, negando, già si anticipa, tutela reale al privato, sul presupposto della perdita del diritto di proprietà non tanto per rinuncia implicita quanto per l’operatività della occupazione acquisitiva.

Per comprendere al meglio la tematica trattata e le questioni sottoposte al collegio amministrativo pare opportuno soffermarsi sull’istituto della occupazione acquisitiva e della evoluzione giurisprudenziale che lo ha coinvolto.

2. Occupazione acquisitiva: istituto di natura pretoria

L’occupazione acquisitiva, anche detta appropriativa, era un modo di acquisto della proprietà, di matrice giurisprudenziale, oggi ampiamente superato, che ricorreva quando la PA, in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, occupava illegittimamente un suolo privato e lo trasformava in maniera irreversibile.

La illegittimità dell’occupazione era originaria, quando avvenuta in totale assenza di titolo, provvedimento autorizzativo; oppure sopravvenuta, quando il titolo autorizzativo sussisteva in origine, ma era medio tempore divenuto inefficace per decorso dei termini.

Affinché si producesse l’effetto appropriativo era necessario che sussistesse la dichiarazione di pubblica utilità del suolo occupato e la trasformazione irreversibile dello stesso. Le suddette caratteristiche consentono oggi di distinguere l’istituto in esame dalla espropriazione, che richiede la sussistenza di ulteriori requisiti quali l’apposizione del vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di esproprio, riconoscendo peraltro indennizzo al privato, nonché dalla occupazione usurpativa che ricorre quando il suolo altrui viene occupato persino in assenza di dichiarazione di pubblica utilità.

Per maggiore chiarezza espositiva giova sottolineare che il DPR 327/01 ha previsto quale modello unico la dichiarazione di pubblica utilità implicita, come tale desumibile dalla sussistenza di altri atti quali ad esempio l’approvazione di un progetto definitivo dell’opera pubblica o di qualunque altro strumento urbanistico o provvedimento cui la legge riconosca tale effetto.

Entrando nel vivo della genesi dell’occupazione acquisitiva questa fu teorizzata per la prima volta dai giudici ermellini con la sentenza delle SS.UU n. 1464/1983 ed è stata poi perfezionata grazie ai successivi interventi normativi e giurisprudenziali.

L’istituto nacque, come la maggior parte degli istituti di diritto amministrativo, per fronteggiare esigenze derivanti dalla realtà fenomenica ed in particolare per consentire al soggetto pubblico di appropriarsi di suoli privati anche al di fuori del procedimento espropriativo.

L’esigenza di teorizzare un nuovo modo di acquisto della proprietà fruibile dalla PA, emerse perché le vicende occupative, al tempo delle SS.UU (1983), ricadevano sotto la vigenza della normativa civile, pertanto il privato che vedeva occuparsi il proprio fondo e costruirci su, oltre a non perdere la proprietà terriera diveniva proprietario persino dell’opera ivi costruita in forza del principio “superficie solo cedit”. Come diretta conseguenza poteva adire il giudice ordinario mediante azione di riduzione in pristino, che si traduceva in un ordine demolitorio e pretendere altresì il risarcimento del danno, oppure, ove non fosse interessato al riottenimento del bene perché ormai irreversibilmente trasformato, poteva chiedere direttamente il solo risarcimento.

L’esperienza giurisprudenziale successiva, dimostrò una certa tendenza a negare forme di tutela reale al privato, orientandosi sempre più verso il riconoscimento del solo risarcimento del danno, con appropriazione del fondo in favore del soggetto pubblico. Fu così che nacque l’istituto della occupazione acquisitiva: quando la PA, in presenza della sola dichiarazione di pubblica utilità, occupava e trasformava irreversibilmente un fondo privato, ne diventava automaticamente proprietaria e il privato poteva ottenere la sola tutela risarcitoria.

I giudici ermellini, muovendo dal presupposto che non potevano coesistere due diritti dominicali sul medesimo bene, teorizzarono tale figura appropriativa valorizzando alcune disposizioni civilistiche e mutuando la figura della accessione invertita (art. 938 cc). Si ritenne infatti che dal combinato disposto delle norme sulla accessione, comunione e unione, fosse desumibile un principio di prevalenza funzionale della proprietà, in forza del quale, un ipotetico conflitto tra l’interesse del privato al mantenimento del diritto di proprietà sul suolo e quello della PA alla conservazione dell’opera pubblica realizzata, doveva risolversi in favore della proprietà maggiormente funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico, alla stregua di una valutazione di ordine economico sociale. Ne derivava così che il terreno del privato veniva sottoposto alla forza attrattiva esercitata dal bene di interesse pubblico realizzato sul suolo stesso e la PA acquistava la proprietà del terreno.

Contemporaneamente però fu chiarito che la condotta tenuta dalla PA e la perdita del diritto dominicale in capo al privato, integrava un illecito ad effetti permanenti che come tale faceva sorgere in favore del soggetto leso, non già un indennizzo come nella espropriazione, bensì un vero e proprio diritto al risarcimento del danno (stante la liceità della condotta espropriativa e la illiceità di quella occupativa).

Il diritto risarcitorio doveva essere esercitato esperendo la relativa azione nel termine prescrizionale di cinque anni decorrenti dalla avvenuta trasformazione del fondo (momento in cui si consumava l’illecito e si produceva l’effetto traslativo).

Successivamente fu anche precisato che la trasformazione irreversibile idonea a produrre gli effetti suindicati, doveva consistere nella modificazione della natura e consistenza originarie del fondo, con l’emersione tangibile di un bene nuovo e diverso, anche se non ultimato, quale è l’opera pubblica, incorporata inscindibilmente al suolo.

Pertanto, se nei termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità, non interveniva il decreto di esproprio e il bene subiva comunque una trasformazione di tal fatta, si verificava contestualmente l’estinzione del diritto di proprietà in capo al privato e la acquisizione a titolo originario della proprietà da parte della PA occupante. L’eventuale decreto di esproprio emesso dopo l’acquisizione sarebbe stato inefficace.

2.1. Critiche al neonato istituto

Numerose e pregnanti furono le critiche mosse alla illustrata ricostruzione delle Sezioni Unite. Anzitutto si riteneva scorretto il riferimento ai principi sottesi all’istituto civilistico della accessione invertita, a supporto della teorizzazione dell’occupazione acquisitiva, stante la rimarcata diversità tra i due istituti.

Infatti, mentre la accessione invertita presuppone la buona fede dell’occupante e l’inerzia del proprietario del fondo occupato, l’occupazione acquisitiva, integrando un illecito aquiliano, presuppone la assenza della buona fede ed opera a prescindere da una manifestazione contraria da parte del privato. Inoltre, lo stesso effetto traslativo si ricollega a fattori diversi dato che nell’istituto civilistico è il giudice che esercitando un potere discrezionale compie una valutazione comparativa tra due interessi economici diversi trasferendo in capo ad un soggetto il diritto di proprietà; nell’occupazione acquisitiva il trasferimento della proprietà si verifica per effetto della sola trasformazione del fondo, dovendosi riconoscere alla pronuncia giudiziale la sola natura dichiarativa (questione peraltro affrontata nella sentenza in commento come si avrà modo di approfondire più avanti).

Infine, quanto alle conseguenze patrimoniali, solo nella accessione invertita l’occupante è condannato a pagare una somma pari al doppio del valore venale della superficie occupata, acquisendo un carattere più propriamente sanzionatorio, mentre nella occupazione acquisitiva la PA si limita a corrispondere al privato un risarcimento pari al valore venale del bene, salvo la prova di ulteriori danni.

Le suesposte critiche bastarono a ripudiare l’istituto acquisitivo fino al 1988 quando le Sezioni Unite ne ristabilirono l’operatività chiarendo che l’opera pubblica una volta realizzata costituisce un nuovo bene immobile che, anche se realizzato su suolo originariamente privato, lo attrae nella propria disciplina giuridica privandolo della sua connotazione originaria ed imprimendogli quella stessa qualificazione di “pubblico” che accede all’opera nella sua unità. Ciò, del resto, non potrebbe accadere senza la propagazione del titolo di appartenenza allo Stato o all’ente pubblico in generale.

2.2. Superamento della occupazione acquisitiva alla luce degli orientamenti della Corte Edu

Il diritto di proprietà assume diverso rilievo a seconda che lo si consideri dal punto di vista dell’ordinamento interno o sovranazionale: mentre nel nostro ordinamento, sebbene sia costituzionalmente tutelato il diritto dominicale non rientra nel novero dei diritti fondamentali dell’uomo, il Protocollo addizionale alla CEDU lo annovera tra i diritti primari dell’individuo (art.1). E’ in ragione di tale peculiare rilievo riconosciuto in sede internazionale, che la Corte Edu ha più volte sollecitato l’Italia ad intervenire e modificare quelle normative particolarmente lesive e restrittive del diritto di proprietà (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle pronunce con cui la Corte di Strasburgo ha censurato i criteri di calcolo dell’indennizzo da riconoscere al privato espropriato, in osservanza delle quali l’Italia in definitiva accolse il criterio del valore venale del bene).

Con riferimento all’istituto della occupazione acquisitiva, varie furono le critiche mosse dalla Corte Edu che comportarono il definitivo superamento dell’istituto (si veda in particolare le pronunce Belvedere Alberghiera s.r.l c. Italia e Carbonara e Ventura c. Italia).

Anzitutto la Corte ne ravvisava un contrasto con il principio di legalità inteso come principio di prevalenza della legge.

Il principio di legalità, che con riferimento al procedimento espropriativo è sancito direttamente nella Carta costituzionale (art. 42 Cost.) e nel Protocollo summenzionato (art.1) impone che l’agere amministrativo sia sempre assistito da una copertura legislativa. La legge infatti non solo conferisce il potere alla PA, finalizzandolo al soddisfacimento dell’interesse pubblico, ma talvolta fissa in modo chiaro e preciso le regole della attività stessa, ciò al fine di garantire certezza giuridica e prevedibilità e, in ambito dominicale, tutela il privato dall’ingerenza dei pubblici poteri.

Stante, dunque, la necessaria preesistenza di una legge che autorizzi la PA a porre in essere un determinato comportamento, la Corte Edu sottolineava la contrarietà della occupazione acquisitiva al principio de quo poiché alcuna norma italiana conferiva tale potere alla PA, ossia il potere di appropriarsi della proprietà altrui mediante la sola dichiarazione di pubblica utilità, l’occupazione del fondo e la trasformazione irreversibile di questo. Infatti, il fenomeno espropriativo previsto dalla legge, consentiva alla PA di divenire proprietaria di suoli altrui, ma richiedeva anche il decreto di esproprio entro 5 anni dalla dichiarazione.

Pertanto, la principale doglianza avanzata dalla Corte EDU riguardava proprio la assenza di copertura legislativa della occupazione acquisitiva, che si traduceva dunque in una attività illegale e consentiva alla PA di divenire proprietaria di suoli altrui mediante un illecito.

Ad avviso della Corte peraltro, neppure l’origine pretoria bastava a legalizzare il suddetto modo di acquisto della proprietà perché sebbene l’ordinamento internazionale consideri legge anche gli orientamenti giurisprudenziali, devono considerarsi tali solo quegli orientamenti consolidatisi nel tempo, idonei dunque ad ossequiare i principi di certezza e prevedibilità. Nel caso dell’occupazione acquisitiva la giurisprudenza che ne aveva dato vita non poteva considerarsi consolidata e ciò esponeva i privati a esiti imprevedibili e arbitrari idonei a ledere i principi di certezza e garanzia dei diritti.

Nel tentativo di adeguarsi ai principi esposti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che escludono la configurabilità di una espropriazione indiretta in assenza di un idoneo titolo legale, nel 2001 il legislatore del Testo Unico espropri disciplinò la c.d acquisizione sanante all’art. 43 T.U (poi dichiarato incostituzionale e sostituito dall’attuale art. 42bis T.U), sancendo così il definitivo superamento della occupazione acquisitiva.

Una volta superato e ripudiato l’istituto della occupazione acquisitiva, si pose il problema di capire quali fossero le sorti dei suoli allora espropriati, gli effetti di quelle pronunce che, basandosi su questo istituto, avevano rigettato le istanze risarcitorie avanzate dai privati e soprattutto se fosse possibile oggi, a distanza di molti anni, riottenere il bene esperendo l’azione di risarcimento in forma specifica, previa rimessione in pristino del fondo.

3. Gli effetti del giudicato di rigetto e orientamenti contrastanti

Il Consiglio di Stato nella sua composizione più autorevole ha pronunciato la sentenza in commento al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto per risolvere i quesiti suesposti: due in particolare erano gli orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento, di segno positivo, sarebbe da ritenere ammissibile una domanda restitutoria dei terreni illegittimamente espropriati dalla PA. Ciò in ragione del fatto che non avendo la PA proposto, neppure in via riconvenzionale, una domanda di accertamento dell’acquisto della proprietà, non può dirsi formato il giudicato sul regime proprietario dei beni, lasciando così aperto il dubbio se la mera pronuncia di rigetto sulla domanda di risarcimento per equivalente, sulla quale si è formato il giudicato, sia di per sé idonea a determinare il passaggio della proprietà in capo all’amministrazione per “accessione invertita” con la conseguenza che andrebbe ritenuto tuttora persistente l’illecito. Secondo tale orientamento dunque la domanda di restituzione, proposta successivamente alla formazione del giudicato che abbia respinto la domanda risarcitoria per prescrizione dell’azione, dovrebbe essere considerata ammissibile, con l’ulteriore conseguenza che potrebbero ritenersi sussistenti i presupposti per l’esercizio del potere-dovere di effettuare la scelta disciplinata dall’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.

Secondo l’orientamento prevalente invece, alcuna domanda ripristinatoria potrebbe oggi trovare accoglimento. Anzitutto perché significherebbe applicare “ora per allora” un diverso orientamento giurisprudenziale e un antitetico quadro legislativo introdotto dal legislatore nazionale solo successivamente ai giudicati in questione e sotto la spinta della Corte EDU.

Ma soprattutto perché i casi oggetto della presente pronuncia sono già stati definiti con sentenze passate in giudicato che attestavano la avvenuta acquisizione del fondo privato in favore dell’ente pubblico, seppur in maniera implicita. Pertanto, accordare oggi una tutela reale al privato espropriato, significherebbe violare il principio di intangibilità e irretrattabilità del giudicato, espressione del generalissimo principio di certezza dei rapporti giuridici.

4. La soluzione offerta dalla Adunanza Plenaria

Il Consiglio di Stato, nella sua composizione più autorevole, risolve la questione dibattuta sposando quest’ultimo orientamento e dunque negando la ammissibilità di una tutela restitutoria postera, valorizzando preminenti ragioni di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici.

I giudici argomentano la posizione assunta a partire dai limiti oggettivi del giudicato civile e concentrandosi sulla portata della sua estensione.

Per teoria generale del diritto, il giudicato che si è formato su una sentenza civile pronunciata a definizione di un giudizio ordinario di cognizione, non si limita a coprire solo le questioni dedotte, ma si estende fino a quelle deducibili, pur rimanendo nei limiti della controversia svolta.

In particolare, al fine di comprendere il deducibile oggetto di giudicato, occorrerà porre l’attenzione non solo sul dispositivo della sentenza, ma anche sulla sua motivazione. Il giudicato sostanziale infatti, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto che si pongano come fondamento logico-giuridico della pronuncia finale.

Il giudicato dunque spiega la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd. giudicato esplicito), ma si estende agli accertamenti che formano il presupposto per la decisione e dai quali questa non può prescindere. Il giudicato che si forma su tutto ciò che rappresenta il fondamento logico-giuridico della statuizione finale è detto “implicito”.

Per comprendere dunque il perché venga negata oggi la tutela reale occorre fare un ragionamento a ritroso.
Nel caso sottoposto alla attenzione della Adunanza Plenaria in commento, la sentenza passata in giudicato era quella di rigetto dell’istanza risarcitoria. Il rigetto era dovuto alla intervenuta prescrizione della relativa azione, per decorso dei 5 anni ed il termine era quello quinquennale perché scaturente da un fatto, ossia l’occupazione illegittima, qualificato come illecito dalla stessa giurisprudenza genitrice.

Nel momento in cui la sentenza civile nega il risarcimento per intervenuta prescrizione, statuisce basandosi sul presupposto della verificazione del fatto illecito e cioè della concretizzazione dell’occupazione acquisitiva.
Una volta divenuta inoppugnabile la sentenza e dunque formatosi il giudicato, questo fa stato, come sopra evidenziato, sia sul dedotto, che nel caso di specie è rappresentato dal risarcimento del danno, sia sul deducibile e cioè su tutto ciò che rappresenta il presupposto logico giuridico prodromico alla decisione di rigetto, che in questo caso è la verificazione della occupazione acquisitiva.

Ne consegue che, essendosi formato il giudicato implicito sul presupposto (occupazione acquisitiva, modo di acquisto della proprietà), questo giudicato statuisce implicitamente anche sul regime proprietario affermando in obiter dictum che la proprietà sui beni è ormai della PA e che dunque il privato non ha oggi la possibilità di recuperarla.

Occorre tuttavia precisare che non si tratta di una sentenza c.d costitutiva, ossia che costituisce, produce l’effetto traslativo, poiché la proprietà sui terreni non è passata al soggetto pubblico per effetto della sentenza stessa, ma si era trasferita al momento della trasformazione irreversibile del fondo ed il giudicato implicito che lo attesta ha funzione meramente dichiarativa.

5. Conclusioni

In conclusione pertanto la sentenza in commento chiarisce che il privato espropriato per effetto della occupazione acquisitiva, che non abbia presentato istanza risarcitoria entro 5 anni dalla trasformazione del proprio fondo, non può oggi ambire ad alcuna tutela né risarcitoria, ovviamente, né reale. A nulla rileva che l’istituto della occupazione acquisitiva, in forza del quale il privato ha perso la proprietà del fondo, è istituto oggi ampiamente superato. Il giudicato che si è formato sulla pronuncia di rigetto del risarcimento per prescrizione dei termini, implicitamente statuisce anche sul regime proprietario poiché si basa sul presupposto dell’avvenuto trasferimento della proprietà in capo alla PA e quel presupposto è anch’esso oggetto di giudicato, sebbene implicito, che per ragioni di stabilità e certezza dei rapporti giuridici non può oggi essere travolto in favore del privato.

Da ciò deriva, come diretta conseguenza, l’impossibilità per il privato allora espropriato di sollecitare il potere di cui all’art. 42bis T.U, poiché presupposto indefettibile per sollecitare la PA a provvedere è che questa non sia proprietaria (mentre si è visto esserlo diventata) e di conseguenza neppure l’azione avverso il silenzio inadempimento (art. 31 cpa) esperibile a fronte dell’inerzia del soggetto pubblico.

Infine, avendo il privato perso il diritto dominicale saranno precluse anche tutte le azioni civilistiche poste a tutela della proprietà.


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