Premessi cenni sulla tutela giurisdizionale nei confronti dei regolamenti illegittimi, si affrontino i problemi della sussistenza di controinteressati e degli strumenti utilizzabili dai terzi in caso di sentenza pregiudizievole

Premessi cenni sulla tutela giurisdizionale nei confronti dei regolamenti illegittimi, si affrontino i problemi della sussistenza di controinteressati e degli strumenti utilizzabili dai terzi in caso di sentenza pregiudizievole

L’impugnazione dei regolamenti amministrativi ha posto, all’attenzione della giurisprudenza amministrativa, numerose problematiche.

In primo luogo, si è posta la questione se il regolamento, essendo atto formalmente amministrativo, debba essere impugnato nel termine decadenziale o se debba essere impugnato, posta la sua inidoneità a produrre l’immediata incisione della sfera giuridica altrui, congiuntamente al relativo provvedimento d’attuazione.

A tale ultimo riguardo, si è posta, poi, l’ulteriore questione se tale doppia impugnativa sia sempre necessaria o, sotto diverso profilo, ammissibile o se il regolamento amministrativo, posta la sua natura di fonte del diritto ed in relazione al principio iuris novit curia, possa essere disapplicato dal giudice amministrativo.

Sul piano delle conseguenze della pronuncia d’annullamento si sono poste le questioni se la stessa abbia efficacia erga omnes e le conseguenze sui provvedimenti medio tempore adottati e non autonomamente impugnati.

Sotto il profilo dell’obbligo dell’autonoma impugnativa, la giurisprudenza ha tradizionalmente distinto i regolamenti volizione preliminare dai regolamenti volizione azione in quanto tale ; mentre i primi sono insuscettibili di produrre autonome lesioni sulla sfera giuridica altrui, non dovendo formare oggetto di impugnativa autonoma nel termine decadenziale, i secondi, con riferimento alle disposizioni immediatamente lesive, dovevano essere immediatamente impugnati essendo posta, in difetto, la stabilizzazione dei relativi effetti.

In senso contrario all’ammissibilità di una disapplicazione del regolamento volizione azione in caso di mancata autonoma impugnativa, si argomentava dal rilievo dell’insussistenza di una normativa analoga a quella prevista dagli artt. 4 e 5 della L.A.C. sulla disapplicazione in materia devoluta alla competenza del G.O., dalla violazione del principio della domanda e da esigenze di certezza del diritto, ne conseguiva l’ammissibilità della disapplicazione solo nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice aministrativo.

La tesi dell’obbligo dell’impugnazione dei regolamenti volizione azione e dell’inammissibilità di una disapplicazione nell’ambito dell’ordinario giudizio di legittimità dinanzia al GA è stata oggetto di ripensamento.

In particolare la giurisprudenza del Consiglio di Stato, successivamente a più riprese confermata dai giudici amministrativi, ha affermato che il potere di disapplicare il regolamento amministrativo illegittimo discende immediatamente dall’esame delle fonti del diritto e dal principio iuris novit curia che impone al Giudice della cognizione l’esame complessivo del quadro normativo e l’applicazione della norma di diritto prevalente.

In tale prospettiva, l’eventuale illegittimità del regolamento per contrasto con una norma di legge pone, al giudice della cognizione, l’obbligo di applicare la norma di fonte legislativa, eventualmente disapplicando il regolamento illegittimo.

In tale prospettiva si è distinto il caso in cui il provvedimento sia adottato conformemente a legge ed in contrasto con regolamento illegittimo e quello in cui il provvedimento amministrativo sia attuativo di un regolamento illegittimo.

Posto, dunque, l’acquisito principio della possibilità di procedere alla disapplicazione del regolamento amministrativo illegittimo anche in difetto di autonoma impugnativa, ulteriore questione è quella se, in relazione al successivo provvedimento attuativo, sia necessaria o possibile la doppia impugnativa.

La giurisprudenza ritiene ammissibile la doppia impugnativa produttiva di possibili effetti sulla competenza territoriale, che potrebbe essere individuata nel TAR di Roma, anzichè nel TAR regionale competente per il provvedimento a valle, nonchè di effetti maggiormente satisfattori incidendo anche sull’atto presupposto del provvedimento lesivo.

Parte della dottrina esclude la possibilità d’impugnare il regolamento amministrativo in considerazione della sua natura di fonte del diritto non suscettibile di essere espunto dal mondo del diritto sulla base di una pronuncia giudiziale.

In relazione all’eventuale impugnativa diretta del regolamento amministrativo, ove ammessa, si è posta la questione se sia necessaria la notificazione del ricorso ai controinteressati.

La giurisprudenza, salvo il caso in cui essi, controinteressati, in considerazione della particolare natura dell’impugnato regolamento, siano individuabili, esclude tale obbligo; ove essi non siano individuabili e non evocati in giudizio avranno a disposizione lo strumento di tutela dell’opposizione di terzo.

Sotto il profilo degli effetti della pronuncia di annullamento di un regolamento amministrativo illegittimo, si è sottolineato come essa, in considerazione della portata generale ed astratta dei regolamenti, produca effetti erga omnes.

L’annullamento del regolamento amministrativo illegittimo, non produce effetti sui provvedimenti a valle non impugnati i cui effetti, scaduto il termine decadenziale, si consolidano a prescindere dal venir meno della fonte normativa sulla base della quale essi sono stati adottati, per altra tesi, invece, l’annullamento del regolamento produrrebbe immediati effetti caducanti sui provvedimenti a valle.

Relativamente ai terzi controinteressati si è espressa la giurisprudenza dell’adunanza plenaria per verificare la tutela del terzo nei confronti della d.i.a., oggi della s.c.i.a., di cui all’art. 19 della legge 241/1990 secondo una analisi che ricostruisce preliminarmente l’istituto di riferimento e i relativi problemi ermeneutici.

La d.i.a. non è atto amministrativo, ma non è neppure una richiesta di provvedimento; di conseguenza, dalla presentazione della denuncia non può maturare alcun silenzio assenso, di per sé impugnabile.

Inoltre il decorso del termine per l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’amministrazione comporta una decadenza ; di conseguenza non è prospettabile neppure un silenzio inadempimento, nei cui confronti il terzo avrebbe potuto promuovere l’azione nei confronti del silenzio.

Infine al decorso del termine sopravvivono in genere poteri d’intervento dell’amministrazione: si tratta però, di regola, di poteri sanzionatori o di poteri subordinati a valutazioni di autotutela, e perciò non idonei per la tutela del terzo.

Le considerazioni svolte dall’adunanza plenaria sono puntuali e danno conto della diversità di logica e di prospettiva che vale nel caso di una d.i.a. rispetto al caso di un provvedimento amministrativo.

Nel caso della d.i.a. manca un atto che costituisca il titolo giuridico dell’attività : la legittimazione deriva direttamente dalla legge .

La d.i.a. identifica un modello diverso, in cui la determinazione dell’effetto giuridico, come la possibilità di svolgere un’attività, di realizzare un’opera, non dipende da un intervento dell’amministrazione.

Il distacco dal regime provvedimentale non è puramente formale come invece vale per il silenzio assenso, che è istituto inserito pur sempre in una logica provvedimentale, ma è sostanziale.

In particolare una critica è rivolta alla soluzione che costruisce la tutela del terzo sulla base di un ricorso indirizzato rispetto all’esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione.

Questa soluzione viene respinta con l’argomento che non coglie nel segno perché non è idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del terzo.

In passato la giurisprudenza aveva sostenuto che per individuare gli strumenti di tutela che il terzo può attivare, si doveva partire da una premessa di fondo, che scaturisce dal principio costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale : la sostituzione del provvedimento espresso con la denuncia di inizio attività non può avere l’effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo controinteressato, e sulla base di questa premessa la giurisprudenza aveva poi elaborato una soluzione fondata sull’esperimento di un’azione di accertamento.

Ci si deve invece interrogare proprio sulla validità di argomenti del genere.

Gli strumenti di tutela giurisdizionale sono strettamente legati alla configurazione degli istituti nel diritto sostanziale: questo profilo è sottolineato per altri versi proprio dall’adunanza plenaria, per esempio quando invoca la tesi dell’atipicità delle azioni nel processo amministrativo.

Il legame stretto del diritto processuale al diritto sostanziale comporta però, innanzi tutto, che le utilità conseguibili dal processo debbano essere coerenti con il diritto sostanziale.

Non esiste un nucleo assoluto di utilità che il terzo possa conseguire dal ricorso giurisdizionale, ma le utilità conseguibili col ricorso sono definibili solo in base al diritto sostanziale.

Infatti la pretesa della parte che trova tutela nel processo è la pretesa configurata dal diritto sostanziale ; il processo non può produrre figure o pretese giuridiche che non esistono nel diritto sostanziale.

In altre parole, se il legislatore, per intenti di semplificazione, modifica in profondità il regime di un’attività, sottraendola a un titolo provvedimentale e utilizzando il modello della d.i.a. o della s.c.i.a., ciò incide di riflesso anche sui contenuti della tutela giurisdizionale del terzo e il mutamento non può ritenersi per ciò stesso lesivo della garanzia del diritto d’azione.

Il punto di partenza del ragionamento non deve essere una tutela del terzo in termini equivalenti a quelli configurabili nei confronti di un provvedimento amministrativo che non esiste più, ma deve essere semmai la disciplina sostanziale dell’istituto.

La d.i.a. o la s.c.i.a. è strumento di liberalizzazione, in forza della quale la posizione giuridica del privato che avvia l’attività si qualifica essenzialmente come diritto soggettivo ; nei confronti dell’esercizio di un tale diritto, la tutela del terzo presuppone che egli assuma essere stato leso in un proprio diritto, e una tutela del genere, che inerisce a un rapporto fra privati, è demandata al giudice ordinario.

L’esclusione di qualsiasi titolo amministrativo per l’attività privata muta dunque radicalmente il quadro degli strumenti di tutela del terzo.

In questo modo, però, non vi è alcuna contraddizione rispetto ai principî costituzionali sulla tutela giurisdizionale: infatti il risultato processuale è conseguenza del modello sostanziale introdotto dal legislatore.

Tutto ciò non esclude che, in talune ipotesi, possa porsi un problema, non di lesione del diritto alla tutela giurisdizionale, ma di irragionevolezza grave, tale da determinare dubbi di legittimità costituzionale.

La d.i.a. e identiche considerazioni valgono oggi anche per la s.c.i.a. è istituto che ha le sue radici nell’esercizio di diritti e che si adatta bene solo in situazioni rispetto alle quali il rapporto con l’amministrazione sia essenzialmente bilaterale.

L’introduzione di termini perentori per l’intervento dell’amministrazione può pregiudicare i terzi, sul piano dei rimedi processuali.

La giurisprudenza del consiglio di stato dà rilievo decisivo alla previsione di un termine perentorio per l’esercizio del potere inibitorio dell’amministrazione ; tale previsione si riscontra nella normativa generale, ma anche in varie disposizioni speciali, come in materia edilizia nell’art. 23 d.p.r. 6 giugno 2001 n. 380.

La critica alla soluzione accolta precedentemente si fondava su questa previsione : una volta scaduti i termini per l’esercizio del potere inibitorio, non ha senso una domanda di accertamento, perché l’amministrazione comunque non potrebbe più esercitare il suo potere inibitorio.

La sentenza di accertamento non può creare ex novo un dovere di provvedere che, in base alla legge, l’amministrazione non ha più.

Lo stesso rilievo era stato espresso da autorevole dottrina secondo cui, dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento, non si può prendere in considerazione anche il silenzio diniego e su questa base, si era espressa la convinzione che la tutela del terzo non potesse che essere costitutiva : solo una pronuncia di annullamento produceva un effetto retroattivo e poteva giustificare l’esercizio di un potere inibitorio anche se sia già scaduto il termine.

A questo fine, autorevole dottrina, aveva proposto la qualificazione della scadenza del termine come silenzio diniego, rispetto all’esercizio del potere inibitorio.

L’adunanza plenaria identifica nella scadenza del termine un provvedimento tacito e introduce nei confronti di esso un’azione di annullamento.

La soluzione, però, rimane problematica.

La scadenza di un termine perentorio per l’esercizio di un potere comporta semplicemente una decadenza, esattamente come era già stato ampiamente rilevato in passato dalla giurisprudenza amministrativa a proposito della decorrenza del termine per i controlli sugli atti regionali e locali: si tratta dunque di un fatto e non di un atto.

A tale fatto la legge non riconduce alcun effetto provvedimentale e l’istituto, nel suo assetto sostanziale, non lo postula neppure.

Fra l’altro, le ipotesi di silenzio c.d. significativo nel nostro ordinamento riguardano essenzialmente procedimenti a iniziativa di parte, mentre nel caso in esame si tratta di verifiche che l’amministrazione avvia d’ufficio, e non perché richiesta da una parte.

Di conseguenza si fatica ad ammettere una domanda di annullamento, dato che non esiste alcun provvedimento da annullare, né vi è un effetto giuridico equipollente a quello di un provvedimento che possa giustificare un annullamento come invece si ha nel silenzio assenso.

La soluzione del provvedimento tacito è forzata e non ha di per sé fondamento ; semplicemente è un espediente per introdurre nei confronti della d.i.a. una tutela equivalente a quella prevista nei confronti di un provvedimento.

Probabilmente un’applicazione rigorosa della legge avrebbe dovuto portare a soluzioni diverse. Innanzi tutto, la tutela del terzo va ambientata primariamente nella tutela civilistica del diritto soggettivo in una controversia fra privati, che si svolge davanti al giudice ordinari..

Se si faccia riferimento invece all’esercizio dei poteri inibitori dell’amministrazione, la tutela del terzo non può che essere condizionata alla configurazione positiva di tali poteri.

Di conseguenza va ammesso il ricorso sul silenzio, nei casi in cui il potere inibitorio non sia assoggettato a termini perentori ; scaduto il termine perentorio, la tutela si attua ancora con il ricorso sul silenzio, con riferimento però ai poteri di autotutela, fermo restando che essi implicano margini di discrezionalità, o con riferimento ai poteri sanzionatori, fermo restando che essi non comportano sempre un risultato ripristinatorio.

A quest’ultimo proposito, si ricordi che, d’altra parte, in materia edilizia anche all’annullamento del titolo abilitativo non segue, necessariamente, l’eliminazione delle opere eseguite : l’art. 38 t.u. 6 giugno 2001 n. 380 ammette una misura pecuniaria alternativa e il giudice amministrativo ha avuto modo di precisare che essa è prioritaria rispetto all’ordine di riduzione in pristino delle opere eseguite.

Né pare che in questo modo l’amministrazione possa porsi al riparo da responsabilità per eventuali omissioni, infatti, il terzo può pretendere il risarcimento del danno dall’amministrazione che non abbia esercitato tempestivamente il suo potere inibitorio.

La soluzione accolta dall’adunanza plenaria non è condizionata dall’adesione alla tesi della atipicità delle azioni, per costruire un’azione di adempimento complementare a quella di annullamento ; anzi, se si accoglie la logica della pronuncia, l’azione di adempimento in questo caso appare di scarsa utilità pratica, perché il risultato che ad essa, azione di adempimento, viene attribuito è di imporre all’amministrazione di esercitare il potere inibitorio che in realtà avrebbe potuto essere ricondotto in modo piano anche all’effetto conformativo della sentenza di annullamento.

In seguito alle modifiche introdotte in sede di conversione dalla l. 14 settembre 2011 n. 148, si prevede comma 6 bis e viene disciplinata la tutela del terzo avanti al giudice amministrativo ferma restando quella civilistica interprivata avanti al giudice ordinario.

La tutela del terzo prescinde da qualsiasi qualificazione, come silenzio significativo, della scadenza del termine per l’esercizio del potere inibitorio : la soluzione dell’adunanza plenaria viene dunque disattesa.

La tutela si attua invece con una estensione del giudizio sul silenzio all’inerzia dell’amministrazione dopo una richiesta del terzo interessato di procedere alle opportune verifiche.

E la legge di conversione ha precisato che tale modalità, nel processo amministrativo, non ammette alternative, in questo modo testimoniando anche la volontà di superare la decisione dell’adunanza plenaria.

La nuova previsione è compatibile con l’assetto attuale dei poteri inibitori definito dall’art. 19 l. 241/90.

Fin nella prima fase applicativa, l’adunanza generale sostenne che la verifica, da parte dell’amministrazione, della regolarità della d.i.a. avesse carattere di doverosità ; precisò, però, che la verifica di una eventuale irregolarità non avrebbe comportato l’obbligo per l’amministrazione di vietare la prosecuzione dell’attività, dovendosi applicare i canoni sull’autotutela.

Gli interventi legislativi più recenti sembrano aver seguìto proprio questo indirizzo.

La disposizione processuale di cui all’art. 117 del d.lgs 204/2010, pertanto, non tramuta la disciplina sostanziale e non rende doveroso l’esercizio del potere inibitorio, una volta che sia scaduto il termine perentorio.

Comporta invece che, se l’amministrazione non compie le verifiche richieste, il terzo che le abbia sollecitate può agire in giudizio, con le modalità previste per l’azione nei confronti del silenzio, per ottenere l’effettuazione di tali verifiche.

E se in esito alle verifiche accerta una irregolarità, l’amministrazione deve procedere a tutte le conseguenti valutazioni: ciò non significa, però, che debba adottare comunque una misura inibitoria, perché, se non ricorrano le condizioni stabilite dall’art. 21 nonies l. 241/90, l’amministrazione può non adottarla, ferma restando la necessità di provvedere motivatamente.


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