Profili sostanziali e criticità del delitto di diffamazione

Profili sostanziali e criticità del delitto di diffamazione

Sommario: 1. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie ex art. 595 c.p. – 2. L’elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie – 3. I soggetti attivi e passivi della condotta criminosa –  4. Le circostanze aggravanti speciali e le cause di non punibilità ex artt. 596, 598, 599 c.p. – 5. Il difficile bilanciamento tra la diffamazione e la libertà di manifestazione del pensiero, con particolare riferimento alla giurisprudenza CEDU – 6. Il diritto di cronaca ed i suoi limiti: la verità, la pertinenza, la continenza – 7. Il diritto di critica e di satira

 

1. Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie ex art. 595 c.p.

Il Capo II del Titolo XII del Libro II del Codice penale è dedicato ai delitti contro l’onore. La Relazione al Progetto del Codice Penale definisce l’onore quale “bene individuale, protetto dalla legge per consentire all’individuo l’esplicazione della propria personalità morale, che racchiude in sé una duplice nozione”. Secondo una concezione fattuale o oggettiva 1, l’onore si apprezza come la stima di cui un soggetto gode nella comunità, ossia come “l’opinione che gli altri hanno di noi e che rappresenta (…) il patrimonio morale che deriva dall’altrui considerazione e che, con termine chiaramente comprensivo, si definisce reputazione”. Da questi brevi cenni in ordine al bene giuridico tutelato dalla fattispecie criminosa in esame è possibile rinvenire il discrimine con l’ingiuria la cui disciplina è dettata dall’art. 594 c.p.2 posta, invece, a presidio dell’onore in senso soggettivo come “il sentimento che ciascuno ha della propria dignità morale (e che) designa quella somma di valori morali che l’individuo attribuisce a sé stesso: (…) l’onore in senso stretto”. In tal senso si è espressa anche la Giurisprudenza di legittimità affermando che “oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona: il bene giuridico specifico è dato dalla reputazione dell’uomo, dalla stima diffusa nell’ambiente sociale, dell’opinione che altri hanno del suo onore e decoro”.3  La dottrina 4 più recente, contrapponendosi a quel filone interpretativo che propugnava una concezione fattuale dell’onore, ha invece proposto un’accezione unitaria di carattere normativo, la quale non prende in considerazione il dato fattuale concreto, bensì il valore astratto della personalità del singolo meritevole di tutela a prescindere dalla considerazione che lo stesso abbia di sé e che ne abbia la collettività. 5 L’onore è elevato a bene di rango costituzionale in armonia con il principio personalistico che permea la Costituzione ed in particolare l’art. 3 il quale, sancendo che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, pretende che “la società e ciascun membro di essa (…) non si elevi mai, in buona od errata fede, a giudice delle altrui indegnità e che non esprima mai con atti o con parole, direttamente o attraverso il riferimento di determinati fatti ritenuti spregevoli, valutazioni negative sulle persone”. Del resto, la Cassazione ha avuto modo di evidenziare che “esistono limiti invalicabili, posti dall’art. 2 Cost. a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l’intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate (…)”.6

2. L’elemento oggettivo e soggettivo della fattispecie

Il delitto di diffamazione di cui all’art. 595 c.p. recita: “Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Il comma secondo, invece, prevede che “Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.” Il terzo ed il quarto comma prescrivono che Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.” Sotto il profilo oggettivo, il reato di diffamazione consta di tre elementi: l’assenza della persona offesa, l’offesa alla reputazione altrui e la comunicazione con una pluralità di destinatari. La clausola di sussidiarietà, a tenore del quale il reato di diffamazione può configurarsi “fuori dai casi previsti dall’articolo precedente“, comporta la necessità che la condotta venga posta in essere in assenza della persona offesa, assenza intesa in senso funzionale, ovvero come impossibilità per il soggetto passivo di recepirne la lesione. Trattasi di reato a forma libera 7 potendo assumere rilevanza penale qualsiasi modalità di estrinsecazione della condotta e qualsiasi mezzo adoperato per offendere la reputazione: la lesione potrà essere perpetrata attraverso parole, gesti, scritti, disegni e mediante ogni altro strumento idoneo ad arrecare offesa al soggetto passivo. 8 L’offesa, dunque, deve consistere in espressioni contenenti una carica dispregiativa che possono concretizzarsi, ad esempio, nell’attribuzione ad un soggetto di un fatto illecito o di difetti fisici, di comportamenti riprovevoli alla luce dei canoni etici vigenti nella collettività e nell’aggressione al decoro professionale. La Giurisprudenza di legittimità ha altresì precisato che l’offesa può essere arrecata anche in forma indiretta, vale a dire risultare lesiva dell’onore di una persona diversa da quella cui è apparentemente indirizzata, a patto che sussista tra le stesse uno stretto legame. 9 Occorre, inoltre, che la persona a cui è diretta l’offesa sia determinata: “non è necessario che sia indicata nominativamente, ma occorre che sia indicata in modo tale da poter essere agevolmente e con certezza individuata. La diffamazione, infatti, postula la propalazione e la diffusione di notizie lesive della reputazione di un soggetto determinato o almeno sicuramente e inequivocabilmente identificabile; ed il reato di diffamazione non sussiste quando l’atteggiamento descritto e che si ritiene diffamatorio sia riferibile non ad un determinato soggetto, ma ad una generica pluralità di soggetti non identificabili né individuabili specificamente”10. A differenza della persona offesa, non occorre che i destinatari della diffamazione siano determinabili ex ante, ex post, essendo necessario invece che gli stessi siano in grado di percepire la portata offensiva dell’esternazione, potendone, tuttavia, non apprezzarne il significato letterale, in ragione ad esempio della lingua utilizzata. A tal proposito, la Giurisprudenza di legittimità, 11 a fronte di offese pronunciate in presenza di un adulto e due minori di pochi anni, ha ritenuto sussistente il delitto in esame” quando le frasi offensive sono pronunciate alla presenza di un adulto e di minori in tenera età (…) qualora questi, pur non essendo in grado di cogliere lo specifico significato delle parole usate, ne abbiano colto la generica portata lesiva, tanto da esserne rimasti turbati e diventino potenziali strumenti di propagazione dei contenuti diffamatori“. Con riferimento alla struttura del delitto di diffamazione, una parte della dottrina 12 si è posta l’interrogativo se la percezione del significato offensivo da parte dei terzi possa qualificarsi evento del reato. La Cassazione 13 di recente ha fornito risposta positiva al seguente quesito ribadendo inoltre che, trattandosi di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono le espressioni offensive con la precisazione che “ove si tratti poi di due sole comunicazioni fatte a persone diverse in tempi successivi, poiché il reato si perfeziona soltanto con la seconda comunicazione e la punibilità dell’agente ricorre solo in concomitanza della medesima, è da quest’ultimo evento che sorge il diritto di querela in relazione ad entrambi i fatti (…)”. Quanto al locus commissi delicti, in caso di diffamazione a mezzo Internet, la Giurisprudenza 14 ha ritenuto che il reato si consumi nel luogo in cui il soggetto, dotato di hardware in grado di collegarsi alla rete, effettua l’accesso da remoto, trovando pertanto, applicazione l’art. 9 comma 1 c.p.p. Qualora, invece, il luogo di consumazione del reato non possa essere individuato, opererà il criterio suppletivo di cui all’art. 9 comma 2 c.p.p. Un problema che si profila invece, con riferimento alla diffamazione a mezzo stampa, è la difficoltà di individuare il soggetto passivo del reato. Secondo un orientamento della Giurisprudenza di legittimità 15, ai fini dell’individuazione del soggetto passivo, deve farsi riferimento alla portata dell’offesa, alla sua natura, alle circostanze narrate, ai riferimenti personali e a tutti gli altri elementi dai quali possa emergere in modo inequivocabile l’identità della persona offesa. Circa l’elemento soggettivo, la diffamazione è un reato a dolo generico consistente nella volontà di comunicare espressioni diffamatorie ad almeno due persone con la consapevolezza di ledere l’altrui reputazione. Una parte della dottrina 16 considera necessaria, oltre alla percezione dell’offesa da almeno due persone, anche la convinzione della sua comprensione, tale per cui non è possibile configurare alcun reato (per mancanza dell’elemento soggettivo) ove l’agente ignori la presenza di altre persone, ritenga per errore di non essere ascoltato oppure consideri gli interlocutori incapaci di comprenderne il significato dell’addebito offensivo. La Cassazione 17 inoltre, ha precisato che il dolo generico” può anche assumere la forma di dolo eventuale, e che comunque implica l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive (…)”. Appare superata, invece, l’opinione dottrinale secondo cui la rimproverabilità postula l’animus diffamandi, ossia l’intenzione di offendere la persona del suo onore e della sua reputazione. E ‘altresì irrilevante l’animus iocandi, vale a dire il motivo di scherzo.

3. I soggetti attivi e passivi della condotta criminosa

La diffamazione è un reato comune in quanto può essere commesso da chiunque. Controversa è, invece, la delimitazione dei soggetti passivi: una questione che si è posta all’attenzione della dottrina è se il delitto in esame possa essere commesso nei confronti dei soggetti privi di una buona reputazione e nei confronti delle persone giuridiche. Quanto al primo profilo, secondo la concezione fattuale poc’anzi citata, la lesione della reputazione si configura soltanto in relazione a soggetti passivi la cui reputazione non risulti già compromessa. A soluzione opposta giunge la concezione personalistica, condivisa anche da buona parte della giurisprudenza di legittimità 18, la quale, a più riprese, ha ribadito di poter configurare la fattispecie a prescindere dall’esistenza effettiva di una buona reputazione. Nell’alveo dei soggetti tutelati dalla norma incriminatrice rientrano anche i minori, gli infermi di mente, gli ubriachi, i sordi, i ciechi e, da ultimo, anche i concepiti, in considerazione della tutela che l’ordinamento giuridico riconosce agli stessi ancor prima della nascita. Dal novero dei soggetti passivi è escluso, invece, il defunto e le categorie collettive rispetto alle quali non sia possibile individuare un preciso destinatario delle espressioni denigratorie. Più problematico risulta il secondo profilo riguardante la possibilità di considerare soggetti passivi del reato anche le persone giuridiche. Sul punto la Giurisprudenza ha evidenziato che “le entità giuridiche, associazioni, enti di fatto privi di personalità giuridica, quali partiti, fondazioni, comunità religiose, corpi amministrativi e giudiziari sono anch’essi titolari dei beni dell’onore e della reputazione, che si concretizzano nella considerazione esterna che la collettività loro riconosce. Di conseguenza, tali entità possono essere destinatarie di un’attività diffamatoria come tali e, quindi, avere la capacità di divenire soggetti passivi del delitto di diffamazione e di attivarsi attraverso i propri legali rappresentanti per la loro tutela”.19 In tal senso milita anche l’ultimo comma dell’art. 595 c.p. prevedendo un’aggravante nel caso in cui l’offesa sia rivolta “ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad un’autorità costituita in collegio”.

4. Le circostanze aggravanti speciali e le cause di non punibilità ex artt. 596, 598, 599 c.p.

L’art. 595 c.p. contempla tre circostanze aggravanti. La prima è applicabile nel caso in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato. La ratio dell’aumento di pena è rinvenibile nel maggior disvalore che connota il fatto in ragione della specificità dell’addebito, che secondo una parte della dottrina, deve risultare storicamente individuabile, sul piano temporale, delle modalità e del luogo in cui è avvenuto. Il comma terzo dell’art. 595 c.p. prevede, invece, l’aggravante dell’aver commesso il fatto “con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”. La ratio di questa seconda aggravante è da ravvisarsi nella maggiore potenzialità offensiva di tale strumento sia sul piano temporale, in quanto le nuove tecnologie a disposizione dell’agente nell’attuale momento storico consentono la conservazione e la ripetizione del contenuto diffamatorio, sia perché la stampa e gli altri mezzi di pubblicità sono idonei a raggiungere un vasto numero di destinatari. L’art. 1 della L. n. 47 del 1948 detta una definizione di stampa e stampati disponendo che “sono considerati stampa e stampati (…) tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione.” 20 Sussiste l’aggravante in esame anche nelle ipotesi di diffamazione a mezzo Internet e di diffusione di messaggi diffamatori mediante pubblicazione su bacheca Facebook. Nel concetto di stampa non rientrano invece i nuovi mezzi telematici quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pena altrimenti un’applicazione analogica della disposizione incriminatrice. In ordine alla nozione di atto pubblico, una parte della dottrina lo qualifica come qualsiasi atto destinato alla pubblicità di cui chiunque può averne contezza. Il sistema delle circostanze aggravanti è completato dalla cosiddetta ”diffamazione corporativa“ di cui al comma 4 a mente del quale “se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate” dovendosi intendere per “corpi politici” gli organi costituzionali (Parlamento, Governo, Assemblee regionali), per “corpi amministrativi” le autorità collegiali che svolgono funzioni prevalentemente amministrative ( Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consiglio Superiore della Magistratura) e per “corpi giudiziari” tutti i collegi investiti di giurisdizione ordinaria o speciale. Infine, le “autorità costituite in collegio” sono tutti gli altri uffici che funzionano collegialmente. Affinché il delitto di diffamazione risulti perfezionato è necessario che l’espressione offensiva non risulti pronunciata in presenza di tali Autorità, configurandosi altrimenti le più gravi fattispecie di oltraggio ex artt. 342 ss. c.p. Il legislatore, agli articoli 596, 598, 599 c.p. ha previsto alcune cause di non punibilità del delitto di diffamazione. Viene in rilievo, innanzitutto, l’istituto della prova liberatoria di cui all’art. 596 commi 2 e 3 c.p. ( derogando al divieto di exceptio veritatis di cui al comma 1 dello stesso articolo secondo cui “ il colpevole (…) non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità e la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”) i quali ammettono la prova liberatoria qualora l’agente abbia attribuito alla persona offesa un fatto determinato, consentendo così al soggetto attivo e al soggetto passivo, prima del passaggio in giudicato della sentenza, di deferire a un giurì d’onore il giudizio sulla verità del fatto, purché vi sia accordo tra le parti. Ai sensi del terzo comma è ammessa sempre la prova liberatoria se “1) la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni; 2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tutt’ora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale; 3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto attribuito.” La prova del fatto è ammessa, dunque, nei soli tre casi indicati dall’art. 596 comma 3 c.p., il primo dei quali è legata alla funzione rivestita dalla persona offesa, posto che deve trattarsi di fatti inerenti alle funzioni svolte, il fatto diffamatorio deve essere oggetto di un procedimento penale pendente e, da ultimo, deve essere la persona offesa a chiedere di accertare la verità e la falsità del fatto alla stessa attribuito. La seconda esimente prevista per il delitto di diffamazione è disciplinata dall’art. 598 c.p. che prende in considerazione le “offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative” la quale recita: “non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’autorità giudiziaria ovvero dinanzi ad un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo. Il giudice, pronunciando nella causa può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la sospensione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Qualora si tratti di scritture per le quali la sospensione o cancellazione non possa eseguirsi, è fatta sulle medesime annotazioni della sentenza”. La ratio della disposizione in esame è da rinvenirsi nella necessità di salvaguardare il diritto di difesa al fine di garantire alle parti e ai loro patrocinatori la libertà di discussione e di libera partecipazione al procedimento, come confermato dalla Giurisprudenza di legittimità 21 secondo cui la non punibilità presuppone che le espressioni offensive “attengano all’oggetto della controversia in modo diretto ed immediato ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta”. Siffatta causa di non punibilità è stata qualificata da parte della dottrina 22 come una causa di giustificazione ponendosi in un rapporto di specialità rispetto all’art. 51 c.p. dal momento che disciplina il diritto di difesa della parte in giudizio ovvero il diritto a partecipare al procedimento amministrativo. A tale indirizzo si è contrapposta la Giurisprudenza 23 sostenendo che l’art. 598 c.p. disciplina, in realtà, una causa di non punibilità in senso stretto che trova legittima applicazione quando il difensore esorbiti i limiti dell’esercizio di difesa ma il legislatore non ritiene opportuno irrogare alcuna sanzione, ferma tuttavia la responsabilità civile e disciplinare. Da tale qualificazione ne deriva l’impossibilità di un’estensione in via analogica dell’operatività dell’art. 598 c.p. all’atto di citazione. Di recente, tuttavia, la Corte di Cassazione, con sentenza del 2009 n. 155525 ha mutato il proprio orientamento sostenendo la possibilità di escludere la punizione delle offese contenute in un atto di citazione. Nell’ambito delle esimenti speciali, infine, è possibile ricondurre l’art. 599 c.p.,  rubricato “Provocazione” secondo cui “non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’art. 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. Dal dato testuale emerge un nucleo di elementi in comune con la circostanza attenuante dell’art. 62 n. 2 c.p. Presupposto per l’applicazione della norma è il verificarsi di un fatto ingiusto, vale a dire di un fatto contrario alle norme giuridiche o sociali, idoneo a provocare uno stato di turbamento nell’uomo medio, valutato in base a parametri oggettivi. Rileva, pertanto, uno stato d’ira permanente cagionato da un fatto ingiusto altrui in grado di comportare la perdita dei poteri di controllo e dei freni inibitori. Pur non essendo richiesta la proporzionalità tra le offese, il carattere eccessivo della reazione esclude il collegamento col fatto ingiusto del provocatore. Occorre inoltre, che la condotta diffamante si verifichi “subito dopo”: l’immediatezza va intesa nel senso di contestualità anche se non necessariamente come contemporaneità. Tuttavia, il decorso di un notevole lasso di tempo esclude il nesso di causalità con la condotta offensiva, ricollegando quest’ultima piuttosto ad un sentimento di odio, di rancore e, pertanto, non rientrante nell’ambito applicativo dell’art. 599 c.p. 

5. Il difficile bilanciamento tra la diffamazione e la libertà di manifestazione del pensiero, con particolare riferimento alla giurisprudenza CEDU

L’imposizione di sanzioni civili, amministrative e finanche penali per le condotte diffamanti a mezzo stampa rappresenta un’ingerenza nella libertà di manifestazione del pensiero disciplinato dall’art. 21 della Carta Costituzionale, incompatibile con l’art. 10 della CEDU. Come ribadito a più riprese dalla Corte Edu nella sentenza 27 marzo 1996, caso Goodwin contro Regno Unito, la stampa svolge l’essenziale ruolo di “cane da guardia della democrazia”. Gli Stati hanno la facoltà e, in alcuni casi, il dovere, di disciplinare l’esercizio della libertà di espressione in modo da garantire una tutela adeguata della reputazione altrui. Secondo la Corte di Strasburgo, il timore di sanzioni detentive produrrebbe un effetto dissuasivo rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti, ed in particolar modo, rispetto allo svolgimento delle loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle indagini, necessario affinché la collettività possa essere informata degli avvenimenti maggiormente rilevanti. La Corte, dunque, ha ritenuto che “l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali sono stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio o di istigazione alla violenza”. Il combinato disposto tra l’art. 595 c.p. e l’art. 13 legge 8 febbraio 1948, n. 47, nella parte in cui impone al giudice penale l’irrogazione di una pena detentiva in via cumulativa rispetto alla pena pecuniaria, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, è stata ritenuta da parte della Corte Edu rispettivamente nelle sentenze Belpietro c. Italia, Ricci c. Italia e Sallusti c. Italia, contrastante con l’art. 117 Cost. e con l’art. 10 CEDU. D’altra parte, numerosi sono i documenti degli organi politici del Consiglio d’Europa che raccomandano agli Stati membri di rinunciare alle sanzioni detentive per il delitto di diffamazione, allo scopo di tutelare la libertà di espressione dei giornalisti e il diritto dei cittadini di essere adeguatamente informati. Ad ogni modo, anche risarcimenti e sanzioni pecuniarie per il reato di diffamazione a mezzo stampa devono essere proporzionati alla violazione dei diritti e della reputazione delle persone offese evitando l’irrogazione di sanzioni detentive, salvo che per casi di gravi violazioni dei diritti fondamentali. Nella risoluzione 24 gennaio 2013, n. 1920, alla luce di una condanna a pena detentiva irrogata ad un giornalista e confermata dalla Cassazione, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha richiesto alla Commissione Europea per la democrazia attraverso il diritto (Commissione di Venezia) di predisporre un parere sulla conformità della normativa italiana all’art. 10 CEDU. Parere, del resto, conclusosi con l’affermazione che la vigente normativa italiana non risulta pienamente in linea con i parametri del Consiglio d’Europa in materia di libertà di espressione. Si è pertanto, ritenuto necessario un bilanciamento tra gli interessi in gioco, vale a dire tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione altrui: la libertà di stampa, stante il suo ruolo essenziale svolto nell’ordinamento democratico, impone di salvaguardare l’attività del giornalista contro ogni forma di coartazione ma richiede, al contempo, anche un bilanciamento con altri interessi di pari rango costituzionale 24, primo tra tutti la reputazione della persona che costituisce un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 8 CEDU e che trova, altresì, un espresso riconoscimento all’art. 17 del Patto internazionale dei diritti civili e politici. Spetta, in primo luogo, al legislatore individuare adeguate strategie sanzionatorie in modo da poter coniugare l’esigenza di garanzia giornalistica (evitando, in tal modo, un’intrusione indebita nello svolgimento della loro attività) con l’effettiva tutela della reputazione delle vittime da illegittime aggressioni alla loro sfera personale 25. 

6. Il diritto di cronaca ed i suoi limiti: la verità, la pertinenza, la continenza

Il diritto di cronaca giornalistica nel nostro ordinamento è riconosciuto all’art. 21 Cost. costituendo un’estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di stampa. Il diritto di cronaca, per quanto di rilevanza costituzionale, non può però essere esercitato illimitatamente in quanto il bene ad esso contrapposto, l’onore individuale, è anch’esso di rango costituzionale. Da qui l’esigenza di un bilanciamento con l’apposizione di tre limiti che vengono individuati dalla giurisprudenza nella verità della notizia pubblicata, la quale, oltre che vera, deve essere accertata seriamente con effettivo riscontro tra fatti accaduti e quelli oggetto di cronaca; la pertinenza, vale a dire un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti e la continenza, ossia un’obiettiva e serena esposizione della notizia, scevra da offese inutili e gratuite. Rispettati i summenzionati limiti, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi prevale il diritto di cronaca. Quanto al primo requisito, non può ritenersi sussistente un interesse della collettività a conoscere notizie false. La verità è intesa in senso oggettivo, ossia quella che emerge dall’indagine giornalistica: il giornalista ha infatti il dovere di controllare non solo l’attendibilità della sua fonte ma anche l’esattezza della notizia non potendo invocare l’esercizio del diritto di cronaca se prima non abbia adottato un’adeguata diligenza nello scegliere le fonti informative e nel vagliarne la loro attendibilità. La verità attiene al nucleo centrale della notizia non venendo meno qualora la stessa dovesse contenere inesattezze su aspetti di marginale importanza. Una questione di particolare rilievo su cui sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione 26 ha avuto ad oggetto la pubblicazione da parte di un giornalista di un’intervista contenente affermazioni diffamatorie: il problema posto all’attenzione della giurisprudenza è se il limite della verità fosse ristretto soltanto alla veridicità dell’intervista. Nel risolvere il suddetto quesito, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la scriminante del diritto di cronaca solo se l’intervistatore assume una posizione neutrale e se le dichiarazioni, rilasciate da un soggetto con una preminente posizione nella collettività, sono rivolte nei confronti di un altro personaggio di pari rilievo pubblico, imponendosi, allo stesso tempo, una valutazione del contesto in cui sono state rilasciate le dichiarazioni al fine di verificare se il giornalista abbia tenuto o meno una posizione neutrale, ossia di mero osservatore dei fatti.  Come poc’anzi accennato, il limite della continenza impone un concreto interesse del fatto narrato per la collettività rimanendo escluse la divulgazione di notizie offensive, il mero pettegolezzo o notizie attinenti alla vita privata (ad eccezione del caso in cui il personaggio in questione rivesta una particolare funzione pubblica). Infine, il limite della continenza impone una moderazione nella scelta dei termini da adoperare nella narrazione dei fatti in modo tale da evitare toni lesivi dell’onore della persona interessata. Sul punto, la Cassazione 27 ha precisato che il requisito della continenza impone di rimanere nei “giusti limiti della più serena obiettività”. 

8. Il diritto di critica e di satira

Il diritto di critica rappresenta una particolare forma di manifestazione del pensiero che si sostanzia in un’attività valutativa volta a comunicare giudizi su fatti, avvenimenti, idee contribuendo, pertanto, alla formazione dell’opinione pubblica e consentendone il confronto dialettico. Trattasi di un giudizio valutativo e dunque di carattere soggettivo: ciò ha indotto sia la dottrina che la giurisprudenza a individuare limiti più ampi rispetto al diritto di cronaca. Il limite della verità impone che la valutazione soggettiva non si spinga fino al punto da ammettere ricostruzioni false del fatto criticato; del pari, il giudizio, con riferimento al requisito della pertinenza, deve essere utile ai fini della formazione dell’opinione pubblica. Da ultimo, con riferimento alla continenza, si ritengono leciti anche toni aspri, purché il linguaggio non trasmodi in un attacco personale o in contumelia. Con il termine satira si intende, invece, l’alterazione e l’esagerazione dei tratti somatici e comportamentali di una persona rappresentati in modo sarcastico e rivolte a persone dotate di notorietà. La satira è una forma di aspra critica che produce una distorsione della realtà al fine di prendere in giro chi esercita il potere o di irridere una determinata situazione. Un importante limite della satira è rappresentato dal rispetto dei diritti fondamentali della persona: anche la satira più dissacrante non può sfociare in un attacco personale e il linguaggio utilizzato non può mai trasmodare in disprezzo e dileggio gratuito o in espressioni volgari. 

 

 

 

 

 


1 Si veda in questo senso F. ANTOISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, Giuffrè, Milano, 1986, vol. I, p. 153; V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Utet, Torino, 1964, pp. 475 ss.
2 La fattispecie è stata oggi depenalizzata in forza dell’art. 1 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 cui oggi
conseguono esclusivamente sanzioni pecuniarie civili.
3 In tal senso si veda Cass. Pen. Sez. V, 28 febbraio 1995, n. 3247 e ancora Cass. Pen. Sez. V, 21 settembre 2012, n.
43184.
4 Sul punto si veda F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto penale parte speciale, Dike Giuridica, p. 340
5 In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità nella sentenza del 9 aprile 2002 n. 13543 che ha ritenuto l’offesa all’onore configurabile anche in danno di soggetti la cui moralità si presenta già compromessa.
6 Si veda Cass. Pen. Sez. V, 22 marzo 2013 n. 25563 e ancora Cass. Pen. 2015, n. 19070.
7 In questo senso si è espressa di recente la Cass. Pen. Sez. V, 13 maggio 2016, n. 32789.
8 Si veda al riguardo Cass. Pen., Sez. V, 2020, n. 17944 e ancora Cass. Pen. Sez. V, 18 ottobre 2016, n. 50659.
9 In questo senso si è espressa la Cass. Pen. Sez. V. 16 settembre 2009, n. 35874.
10 Così si è espressa la Cass. Pen. 7 ottobre 1972, ord. n. 466; si veda in tal senso anche la Cass. Pen. 26 gennaio 2018, n. 3809.
11 Sul punto è di rilevante interesse la sentenza della Cass. Pen. Sez. V. 16 giugno 2004, n. 31728.
12 In questo senso si veda Cass. 30 marzo 2017, n. 16108.
13 In questo senso si veda M. FRATINI- L. FIANDACA, Manuale sistematico di diritto penale, parte speciale, Academia del diritto, p. 639.
14 Per un maggiore approfondimento si veda Cass. Pen. 6 giugno 1969, n. 495.
15 Si veda Cass. Pen. Sez. V, 19 maggio 2015, n. 31677.
16 In questo senso si veda Cass. Pen. Sez. V, 8 luglio 2008, n. 33442.
17 Così F. MANTOVANI, Diritto penale parte speciale, I, Padova, 2005.
18 Cass. Pen. 21 febbraio 2014, n. 8419.
19 In questo senso si veda Cass. Pen. Sez. V. 2008, n. 35032.
20 Su punto si veda la Cass. Pen. 26 ottobre 2001, n. 1188.
21 Sul punto si veda Cass. Pen. Sez. V., 16 ottobre 2012, n. 44980 e ancora Cass. Pen. Sez. V., 14 novembre 2016, n. 4873.
22 In questo senso si veda Cass. Pen. Sez. V, 2019, n. 8421.
23 Per un ulteriore approfondimento si veda VERZURA, Le immunità giudiziali, in Diritto e Formazione, 8-9/2004, p. 1194.
24 In tal senso si veda Cass. Pen. Sez. V. N. 14542 del 2017.
25 Sul necessario bilanciamento di interessi, per un‘ulteriore riflessione si veda ordinanza n. 132/2020.
26 Per un ulteriore approfondimento sul punto si veda la nota del 22 giugno 2021 della Corte Costituzionale.
27 Si veda a tal proposito Cass. Pen. Sez. Un., 16 ottobre 2001, n. 37140.

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