Prostituzione minorile e pedopornografia: punibilità del “cliente” e distinzione tra distribuzione di materiale pedopornografico e cessione dello stesso ad altri

Prostituzione minorile e pedopornografia: punibilità del “cliente” e distinzione tra distribuzione di materiale pedopornografico e cessione dello stesso ad altri

Nell’ambito dei delitti contro la personalità individuale assumono particolare rilievo le fattispecie incriminatrici previste dagli articoli 600 bis e 600 ter del codice penale, le quali disciplinano, rispettivamente, il delitto di prostituzione minorile e il reato di pornografia minorile. Nella trattazione che segue si procederà, in prima battuta, con una disamina della prima delle due figure criminose citate, al fine di determinare se l’azione delittuosa dell’agente, consistente nella promessa o dazione di denaro o altra utilità al minore per indurlo ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il reo, ricada nell’ambito applicativo del 1° o del 2° comma della disposizione di cui all’art. 600 bis c.p. In secondo luogo, con riferimento al reato ex art. 600 ter c.p., si traccerà una linea di demarcazione tra la condotta di diffusione di materiale pedopornografico di cui al comma 3° e quella di offerta o cessione ad altri di detto materiale, descritta al comma 4° della stessa norma, ponendo particolare attenzione ai destinatari cui lo stesso è indirizzato.

In via preliminare occorre rilevare, innanzitutto, come entrambi i reati menzionati siano stati introdotti nel nostro sistema penale in seguito all’approvazione della Legge n. 269 del 1998, la quale ha abrogato la precedente Legge Merlin (L. n. 75 del 1958), durante la cui vigenza la minore età della vittima rilevava solo quale mera circostanza aggravante, così allineando il nostro ordinamento ai principi sanciti dalla Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre del 1989 e ratificata dall’Italia con la legge n. 176 del 1991.

In ordine al reato di prostituzione minorile, la norma di cui all’art. 600 bis c.p. è stata in seguito completamente riscritta ad opera della Legge n. 172 del 2012 la quale, nell’ottica di proteggere i minori di età contro ogni forma di sfruttamento e di violenza sessuale, ha permesso di delineare due differenti ipotesi criminose, previste rispettivamente al 1° e al 2° comma della suddetta disposizione. In particolare, al primo comma dell’art 600 bis c.p. viene configurata un’ipotesi delittuosa più grave che punisce coloro che inducono i minori alla prostituzione, intrattenendoli in tale attività e traendone vantaggio.

Il secondo comma, invece, descrive una fattispecie di minor gravità che prevede la punibilità di chiunque compia atti sessuali con soggetti di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o altra utilità, anche solo promessi, indipendentemente dal fatto che i minori nella fattispecie siano o meno già dediti all’attività di prostituzione.

In merito al delitto de quo sono sorti due distinti orientamenti giurisprudenziali rispetto all’ipotesi specifica in cui il soggetto minorenne intrattenga rapporti sessuali esclusivamente con l’agente, il quale gli abbia promesso o dato denaro per convincerlo a mercificare il proprio corpo.

In particolare, ci si è chiesti se detta fattispecie sia da inquadrare nell’ambito di applicazione del primo o del secondo comma della disposizione di cui all’art. 600 bis c.p.

Secondo un primo orientamento, l’agente che paghi un minore affinché ponga in essere atti sessuali con lui, contestualmente lo indurrebbe alla prostituzione e, pertanto, dovrebbe rispondere del reato di cui al comma 1° dell’art. 600 bis c.p., potendo la condotta induttiva posta in essere dal reo consistere anche solo nel mero pagamento di un corrispettivo che sia in grado di persuadere la vittima ad acconsentire agli atti sessuali (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 33470 del 2006). In sostanza, anche la semplice dazione di denaro sarebbe idonea a configurare la fattispecie di induzione alla prostituzione, nel momento in cui convinca il soggetto passivo a mercificarsi, ricomprendendo anche tutte quelle ipotesi in cui vi sia una ripetuta dazione o offerta di denaro o altra utilità, che di per sé considerata, abbia spinto il minore al meretricio (Cass. pen., sentenza n. 4235 del 2011).

Tale impostazione trarrebbe origine da un’interpretazione del concetto di “induzione” comprensiva, dunque, di qualsiasi azione idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, influenzando la sua libertà di autodeterminazione rispetto al compimento di atti di natura sessuale. Nell’ambito di tale prospettiva, pertanto, il delitto sussisterebbe anche nel caso in cui il minore compia tali atti soltanto con chi l’abbia indotto a ciò attraverso l’offerta di una controprestazione, ponendo in essere un comportamento atto ad incidere sul suo processo volitivo. Di contro, si configurerebbe l’ipotesi meno grave di cui al comma secondo dell’art. 600 bis c.p., solo ove il minorenne si sia determinato al compimento di atti di prostituzione in modo autonomo e senza che ci sia stata alcuna influenza o sollecitazione da parte dell’agente per indurlo a compiere detti atti con controprestazione.

In base ad un opposto orientamento giurisprudenziale, invece, affinché possa parlarsi di induzione alla prostituzione del minore, la semplice dazione di denaro non sarebbe di per sé sufficiente a convincere il soggetto passivo a compiere atti mercificatori del proprio corpo, essendo necessarie ulteriori condotte capaci di esercitare una pressione fisica o psicologica sulla vittima, tali da vincere ogni resistenza morale o di altro tipo che trattenga la persona dal porre in essere l’attività di prostituzione (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 26216 del 2010).

Sul punto è intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite la quale, nel chiarire che la prostituzione di un soggetto minore di età sia del tutto differente dall’ipotesi in cui a prostituirsi sia una persona adulta, ha prima di tutto sottolineato come il compimento di un atto di natura sessuale da parte di un minore sia raramente riconducibile ad una libera scelta del medesimo e che, anche laddove detta scelta vada esente da forme di condizionamento di tipo esterno, sia comunque da ritenere ragionevole  il divieto posto dall’ordinamento in ordine all’acquisto di prestazioni sessuali presso soggetti che per la loro minore età non siano completamente capaci di valutare con piena consapevolezza la natura, la portata e le conseguenze di determinate azioni (Cass. Pen., Sez. Unite, sentenza 14 aprile 2014, n. 16207).  Le Sezioni Unite, poi, risolvendo il contrasto giurisprudenziale poc’anzi delineato, hanno affermato che la condotta consistente nella promessa o nella dazione di denaro o altra utilità , attraverso cui si convinca il minore a compiere atti sessuali, una o più volte, esclusivamente con il soggetto agente, integri la fattispecie incriminatrice di cui al comma 2° dell’articolo 600 bis c.p. e non quella, più grave, di cui al primo comma della medesima norma, non potendo ravvisare un’attività induttiva alla prostituzione nella sola condotta di chi domanda una prestazione sessuale ad un minore come “cliente” dandone o promettendone il pagamento.

In altri termini, nella fattispecie di induzione alla prostituzione, la condotta criminosa prescinde dal compimento dell’atto sessuale con il soggetto agente e assume rilevanza penale nel momento in cui determini la vittima a prostituirsi non esclusivamente con il soggetto che lo ha indotto a ciò, ma con terzi, che possono identificarsi anche in una singola persona, purché diversa dall’induttore.

In tale fattispecie induttiva, in definitiva, le condotte poste in essere dal reo si inseriscono nel versante dell’“offerta” della prostituzione altrui e non in quello della “domanda”, al quale più correttamente va ricondotto il cosiddetto “fatto del cliente”, ossia il compimento da parte del reo di atti sessuali con un minore come fruitore di una prestazione dietro corrispettivo, punito dal secondo comma dell’art. 600 bis c.p.

In ordine, ora, al reato di pornografia minorile, di cui all’art. 600 ter c.p., prima di esaminare le fattispecie disciplinate dal terzo e dal quarto comma della disposizione in esame, giova innanzitutto precisare che per materiale pedopornografico, oggetto dell’azione criminosa, si intende tutto ciò che è atto a ritrarre o a rappresentare visivamente un soggetto minore di anni diciotto, coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, reale o simulata, per scopi sessuali, non assumendo rilevanza, invece, la mera rappresentazione della nudità in sé e per sé considerata, ossia sganciata totalmente dalla sfera sessuale.

La definizione di pornografia minorile inserita nell’art. 600 ter c.p. dalla L. n. 172 del 2012 si caratterizza, dunque, per un maggior rigore rispetto a quella precedente, in quanto è sufficiente la rappresentazione “per scopi sessuali” degli organi genitali del minore, non essendo più necessaria l’esibizione lasciva degli stessi (Cass., Sez. III, sentenza 20 novembre 2013, n. 3110).

Quanto alla condotta stigmatizzata al comma terzo dell’art. 600 ter c.p., essa punisce chiunque con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza il materiale pedopornografico di cui al primo comma della norma di cui si tratta, ovvero distribuisce o divulga notizie e informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori di anni diciotto. Il successivo quarto comma, invece, prevede la punibilità di coloro che offrono o cedono ad altri, anche a titolo gratuito, il suddetto materiale.

Nel delitto di diffusione di materiale pedopornografico ex art. 600 ter, comma 3°, c.p., l’azione criminosa posta in essere dall’agente è destinata a raggiungere una serie indeterminata di persone, attraverso mezzi di comunicazione accessibili ad una pluralità di soggetti, come ad esempio le chat-line, che sono sistemi di comunicazione in tempo reale in cui diversi soggetti possono dialogare. È punibile del delitto anche chi scarichi pedopornografia da internet e inserisca i relativi file in un’apposita cartella destinata alla condivisione con altri utenti e sia consapevole di ciò.

La divulgazione e la pubblicizzazione di materiale pedopornografico rappresenta un delitto a carattere residuale rispetto alle disposizioni di cui all’art. 600 ter, 1° e 2° comma, c.p., dal momento che l’agente è del tutto estraneo alla realizzazione del materiale pedopornografico o al commercio del medesimo.

Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi delittuosa meno grave prevista al comma quarto dell’art. 600 ter c.p., essa si caratterizza per il fatto che la cessione del materiale è indirizzata ad un soggetto determinato o ad una cerchia ristretta di persone, per esempio mediante l’invio di una e-mail a pochi destinatari ben specifici. Il discrimen tra le due fattispecie in esame risiede, infatti, proprio nell’attitudine del mezzo adoperato per la trasmissione del materiale pedopornografico al raggiungimento di una platea indeterminata di soggetti oppure solo di precisi destinatari ben individuati.

Pertanto, occorrerà accertare di volta in volta, a seconda della fattispecie concreta oggetto di analisi, quando il canale comunicativo utilizzato dall’agente per trasmettere il materiale pedopornografico produca la divulgazione dello stesso in termini considerevoli, indirizzandosi a una serie indefinita di persone, come ad esempio nell’ipotesi in cui venga adoperato un programma di file sharing. I programmi di file sharing, come E-Mule, infatti, sono software che permettono agli utenti di condividere file sul web o all’interno della medesima rete, secondo un sistema peer to peer che consente a ciascuno di scaricare e condividere a sua volta il materiale.

È evidente che tali mezzi, se utilizzati per lo scambio di materiale pedopornografico, comportino il concreto rischio della divulgazione del medesimo ad un numero indeterminato di persone, così potendo configurare il reato previsto all’art. 600 ter, comma 3°, c.p., non solo laddove l’agente abbia l’intenzione di diffondere il suddetto materiale, ma anche quando, pur non avendo tale intento, scaricando i file tramite programmi di condivisione, abbia di fatto accettato il rischio della loro divulgazione (Cass. Pen., Sez III, sentenza 26 marzo 2018, n. 14001).


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