Protezione umanitaria degli immigrati: il D.L. 113/2018 non è retroattivo

Protezione umanitaria degli immigrati: il D.L. 113/2018 non è retroattivo

La vicenda

Un cittadino bengalese proponeva ricorso al Tribunale, avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che non gli aveva riconosciuto lo status di rifugiato e la protezione internazionale.

Nel ricorso, depositato a maggio 2017 dal difensore, il bengalese esponeva di vivere in Italia dal 2016. In Bangladesh, nel villaggio di Radhar, viveva con la sua famiglia (madre, padre, fratello e sorella), non era mai andato a scuola. Il padre era un coltivatore, come anche suo cugino. I rapporti tra i due, però, non erano buoni; i motivi delle continue liti erano la proprietà e il possesso del terreno. Il padre del ricorrente, infatti, aveva ereditato il terreno da suo padre, che a sua volta l’aveva acquistato dal fratello, padre del cugino sopra menzionato. Perciò, ritenendo inoltre che il nonno del ricorrente l’avesse acquisito in maniera illegittima, il cugino del padre si riteneva proprietario del bene.

Alla morte del padre, la situazione andava peggiorando: il cugino del padre dell’odierno ricorrente perpetrava atti di violenza sui beni della famiglia dello stesso e sulla sua persona, con modi aggressivi e minacciosi. In conseguenza di tali fatti, il ricorrente si trasferiva, insieme alla madre e ai fratelli, nel villaggio vicino a Sirkhara, presso l’abitazione degli zii materni. Le condizioni economiche della famiglia nel frattempo erano peggiorate. Allora, il ricorrente si trasferiva a Dhaka, per lavorare presso una fabbrica metallurgica, come addetto al taglio barre. Tale esperienza durava solo due anni. A causa di scontri politici nella capitale, ritornava a Sirkhara, dove trovava lavoro in un negozio di alimentari, rimanendovi per cinque anni. Successivamente, i rapporti con il cugino del padre, allora sessantenne, che lo andò a trovare dopo molto tempo, si inasprivano ulteriormente, tanto che il parente minacciava di morte l’odierno ricorrente.

A febbraio 2016, il ricorrente lasciava il Bangladesh. Rimaneva quattro mesi in Libia, dove lavorava in un negozio di abbigliamento. Rischiava la vita ogni giorno: aveva sempre il timore di essere derubato, rapito o ucciso (un giorno venne derubato e picchiato duramente per la strada). Di conseguenza, una volta ottenuto il denaro dalla propria famiglia, si trasferiva in Italia e richiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato, oltre alla protezione internazionale o umanitaria, visto anche il fatto che tornando al Paese d’origine non riuscirebbe a colmare i debiti nei confronti della sua famiglia.

Le richieste del ricorrente

Il soggetto, attraverso il ricorso, richiedeva:

1) Il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’art. 1 (a) della Convenzione di Ginevra: la Commissione territoriale ha ritenuto di non riconoscere al ricorrente lo status di rifugiato, in quanto gli episodi di violenza fisica e morale da lui subiti attengono alla sfera penale ordinaria.

In realtà, il ricorrente, se rientrasse in Bangladesh potrebbe subire non solo ulteriori atti di violenza da parte del cugino del padre, ma anche persecuzioni, per la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale. In Bangladesh, infatti, i soggetti più ricchi hanno potere d’influenza e di sopraffazione nei confronti di quelli più poveri, come l’odierno ricorrente e i suoi familiari. Per tali motivi, non intende richiedere la protezione dello Stato di appartenenza, e nemmeno potrebbe ottenerla, in quanto la Polizia non è dotata di idonea organizzazione. Il Paese è caratterizzato da violenze diffuse e disordini politici. L’egemonia della classe più ricca costituisce una grave violazione dei diritti umani, che fa concepire i più poveri come diversi nella società circostante.

2) Il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14 lett. b) d.lgs. 251/2007: in Bangladesh la violenza non deriva da un conflitto armato interno o internazionale, ma dalla discriminazione in base alla classe sociale, che costituisce un trattamento inumano, ai sensi della lettera b) dell’art. 14 d.lgs. 251/2007. Le persone, in particolare i lavoratori, che lottano per rivendicare i loro diritti, vengono spesso perseguitati, fino anche a essere uccisi.

Il ricorrente, avanti la Commissione territoriale, riferiva sia gli episodi di violenza familiare, sia il fatto che per lui e la sua famiglia era impossibile rivolgersi alla Polizia, in quanto persone meno abbienti.

La Commissione territoriale, nell’emettere il provvedimento, avrebbe dovuto valutare le dichiarazioni rese dell’odierno ricorrente anche sulla base del livello scolastico, che in tal caso è praticamente nullo. Il provvedimento poteva essere emesso anche sulla base delle sole dichiarazioni del richiedente o su elementi indiziari, attestanti la grave situazione personale. Da un lato, è pienamente possibile che un giovane possa essere intimorito da minacce di morte da parte di un parente dell’età di circa sessant’anni, anche per il fatto che è quasi inevitabile incontrarlo al ritorno nella madrepatria.

Dall’altro lato, se il ricorrente non ha dato piena prova del fumus persecutionis nel Paese d’origine, la Commissione avrebbe dovuto valutare la condizione di persecuzione di opinioni, abitudini e pratiche, sulla base di informazioni oggettive relative alla situazione del Paese.

Il ricorrente poteva trasferirsi in un’altra zona del proprio Paese, per evitare di subire violenze o sopraffazioni, ma ciò non è rilevante per il nostro ordinamento. Il d.lgs. 251/2007, infatti, non ha recepito l’art. 8 della direttiva 2004/83/ CE, che prevede l’impossibilità di ottenere la protezione internazionale in un altro Stato, se in una determinata parte del Paese d’origine non esistono pericoli di persecuzione o rischi di ulteriori danni.

3) Il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 32 c.3 d.lgs. 25/2008 e art. 5 c.6 d.lgs. 286/1998

La situazione del Bangladesh è ingravescente, tanto da provocare un effetto simile a quello di un conflitto armato, e quindi da giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria. Lo Stato in oggetto, infatti, è caratterizzato da una grave instabilità politica e da un insufficiente rispetto dei diritti umani.

Il ricorrente aveva lasciato il Bangladesh e si era recato in Libia, altro Paese che presenta problemi in ambito politico-sociale, e in cui si verificano spesso episodi di violenza e intimidazione. Di conseguenza, era costretto a emigrare altrove. Giunto in Italia, aveva effettuato un percorso di alfabetizzazione e di educazione civica, per l’inserimento nella realtà locale e in un’attività lavorativa, elementi fondamentali per il rilascio del permesso di soggiorno.

La disposizione dell’art. 5 c.6 d.lgs. 286/1998, relativa al permesso di soggiorno per motivi umanitari, non dà una definizione specifica di “seri motivi”. Tale espressione, comunque, deve essere interpretata in modo ampio, ricomprendendo situazioni soggettive, come bisogni di protezione a causa di particolari situazioni personali e familiari, e situazioni oggettive, come l’instabilità politico-sociale del Paese di provenienza. La disposizione, quindi, va interpretata alla luce della clausola di salvaguardia di cui all’art. 2 Cost. e art. 3 CEDU.

La decisione

All’udienza di comparizione, il ricorrente è stato interrogato dal giudice, coadiuvato da un’interprete, e ha dichiarato di lavorare in un ristorante.

Il difensore, prima della successiva udienza di discussione del ricorso, ha depositato la documentazione relativa ai contratti di lavoro stipulati dal cittadino bengalese.

Il giudice non ha riconosciuto al ricorrente lo status di rifugiato, in quanto non ha ritenuto sussistente un fondato timore di persecuzione; né ha riconosciuto la protezione sussidiaria, in quanto non sussiste un effettivo e concreto rischio di subire un grave danno, come previsto dalle norme sopra menzionate.

Ha riconosciuto solamente il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nel frattempo, era entrato in vigore il D.L. 113/2018, che prevede la protezione umanitaria in casi tassativi, a differenza dell’art. 5 c.6 d.lgs. 286/1998, che non disciplina ipotesi tassative, ma si riferisce solo a “seri motivi”.

Il giudice, in questo caso, ha sottolineato che la situazione del giovane bengalese non trovava corrispondenza in fattispecie astratte previste dalla normativa sopravvenuta. Il richiedente, però, ha dimostrato di essersi inserito nel mondo del lavoro e di aver frequentato corsi di lingua italiana. Di conseguenza, il Tribunale in composizione monocratica gli ha riconosciuto la protezione umanitaria.

Il D.L. 113/2018, infatti, non è retroattivo, in quanto le norme in esso contenute sono di carattere sostanziale e non processuale (Tribunale di Venezia, ordinanza del 18.12.2018).


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