Provenienza donativa e certezza dei traffici

Provenienza donativa e certezza dei traffici

Sommario: 1. La disciplina del Codice civile – 2. Gli inconvenienti legati all’acquisto di un bene dal donatario. La posizione del terzo avente causa – 3. I possibili rimedi per garantire la circolazione dei beni acquistati dal donatario.

1. La disciplina del Codice civile

Il sistema giuridico apprestato dal Codice civile assegna ai legittimari una disciplina compiuta ed analitica a tutela dei diritti che vantano sull’eredità.

In primo luogo, gli articoli 533 e ss c. c. prevedono che a questi soggetti siano riservate delle quote minime dei beni del de cuius, al quale, quindi, non è concesso disporre in via testamentaria dei propri beni senza limite alcuno, allorché all’apertura della successione vi siano dei legittimari.

Peraltro, si evidenzia che il de cuius, oltre ad essere limitato in ordine alla disposizione per via testamentaria, egli incontra i medesimi limiti anche in riferimento all’utilizzo dello strumento donativo, il quale non può essere utilizzato per ledere le quote riservate dalla legge ai legittimari[1].

Nel caso in cui il de cuius abbia disposto dei propri beni in pregiudizio dei diritti dei legittimari, l’ordinamento appresta una specifica azione, ossia l’azione di riduzione di cui agli articoli 553 e ss. c. c..

Attraverso tale azione il legittimario che si ritenga leso nei propri diritti potrà agire sia nei confronti del beneficiario delle disposizioni testamentarie (erede o legatario) ex art. 554 c.c., che nei confronti dei donatari ex art. 555 c.c..

Nel caso di vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, l’art. 561 c.c. appresta una sorta di tutela in forma specifica al legittimario, giacché gli garantisce di recuperare il bene nello stato giuridico in cui si trovava al momento di disposizione da parte del de cuius.

Più precisamente, la disposizione richiamata garantisce al legittimario di recuperare il bene libero da ogni peso o ipoteca di cui il legatario o il donatario può averli gravati[2].

Tuttavia, nel caso di beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, la liberazione del bene da restituire è subordinato al rispetto di quanto previsto dall’art. 2652, n. 8 c. c., espressamente richiamato dall’art. 561 c.c.

In base alla norma sulla trascrizione appena richiamata, i pesi e le ipoteche potranno essere mantenuti se la domanda di riduzione viene trascritta dopo che siano decorsi 10 anni dall’apertura della successione e se sono stati trascritti, in base ad un acquisto a titolo oneroso, prima della trascrizione della domanda del legittimario.

L’ordinamento giuridico, però, non si ferma a quanto fin qui brevemente esposto in punto di tutela del legittimario; infatti, l’art. 563 c. c. assegna a quest’ultimo anche l’azione di restituzione, ossia un’azione in forza della quale è consentito agire contro il terzo avente causa dal donatario[3].

Si precisa che l’azione in esame è azione distinta da quella di riduzione, tant’è vero che, in base alla disciplina positiva, la sentenza resa tra il legittimario e il donatario non si estende, ex art. 2909 c.c., al terzo avente causa.

Tuttavia, nel caso in cui l’alienazione sia avvenuta successivamente alla trascrizione della domanda giudiziale, la sentenza farà stato anche nei confronti del terzo, dovendo farsi applicazione dell’art. 111 c. p. c..

A parziale tutela del terzo, l’art. 563 c. c. prevede che la restituzione debba avvenire solo a seguito dell’infruttuosa escussione del patrimonio del donatario e che, inoltre, ex art. 563/ 3 comma, il terzo possa liberarsi scegliendo di corrispondere al legittimario leso l’equivalente in denaro del bene da restituire[4].

2. Gli inconvenienti legati all’acquisto di un bene dal donatario. La posizione del terzo avente causa.

La disciplina posta a tutela dei legittimari si fonda sulla necessità di garantire la coesione e il valore dei rapporti familiari, e sembra trovare un aggancio diretto nel testo costituzionale, segnatamente all’art. 42 ultimo comma della Costituzione.

In via generale, si evidenzia che il rispetto delle disposizione in materia di tutela dei diritti di legittima è pressoché inderogabile, trattandosi di materia nella quale il de cuius ha ben poche armi per eludere la normativa pertinente.

Ove il privato volesse disporre dei propri beni a mezzo donazioni, egli porrebbe in essere dei negozi giuridici validi ed efficaci. Tuttavia, non sembra scorretto affermare che in queste ipotesi il privato incontra un limite alla propria autonomia negoziale, ex art. 1322/1 c.c..

Infatti, l’utile esperimento dell’azione di riduzione comporta la risoluzione della donazione in danno del donatario e dei terzi aventi causa, il che significa inserire un elemento di disturbo all’interno dell’efficacia della donazione.

Proprio i pericoli insiti nell’applicazione delle norme ex art. 553 e ss c.c. ha portato la giurisprudenza ad affrontare le problematiche di chi reclama protezione per i rischi derivanti dall’applicazione delle norme poste a tutela dei legittimari.

In particolare, la giurisprudenza ha analizzato la questione di chi ha stipulato un preliminare di vendita di un immobile e, nelle more della stipula del definitivo, si accorge che il bene che dovrebbe acquistare il proprio dante causa lo ha ricevuto per via donativa.

Orbene, stante il pericolo che, all’apertura della successione di chi ha donato il bene, un terzo legittimario possa rivolgersi contro il promissario acquirente ex art. 563 c.c., può quest’ultimo soggetto rifiutarsi di stipulare il definitivo, avvalendosi della tutela apprestata dall’art. 1481 c.c., anche in considerazione del fatto che la provenienza donativa del bene era stata taciuta dal promittente venditore?

Preliminarmente, occorre ricordare che la norma civilistica da ultimo richiamata prevede che il compratore possa sospendere il pagamento del prezzo, ove abbia motivo di temere che la cosa possa essere rivendicata. Ossia ove abbia ragione di temere che un terzo (il legittimario) agisca giudizialmente per far accertare o dichiarare lo stesso diritto del compratore o altro incompatibile con questo.

Secondo la Corte di Cassazione[5], il pericolo di evizione di cui all’art. 1481 c.c. deve essere concreto e supportato da specifici elementi fattuali, e non deve essere meramente ipotetico o potenziale.

Peraltro, è affermazione costante in giurisprudenza che il diritto del terzo fondante la rivendica deve preesistere alla conclusione del contratto; circostanza, questa, che non sembrerebbe rinvenirsi nel caso sottoposto all’attenzione della sentenza in esame. Infatti, il diritto del terzo legittimario emerge solo mediante l’esercizio dell’azione di riduzione, ossia al momento dell’apertura della successione del donante, prima di quel momento il terzo legittimario ha solo un’aspettativa di mero fatto, non giuridicamente tutelata[6].

Peraltro, quest’ultima affermazione sembra esporsi ad una possibile critica. Infatti, al momento della donazione il terzo legittimario ha, in verità, uno strumento posto a tutela del proprio diritto di legittima previsto espressamente dalla legge.

Tale diritto, più precisamente, è quello di porre in essere un atto di opposizione alla donazione nelle forme e con gli effetti previsti dall’art. 563 c.c..

Ad ogni buon conto, tale disciplina sembra solo di consistenza tale da ammettere in capo al legittimario qualcosa di più di una semplice aspettativa di mero fatto e, più precisamente, un’aspettativa giuridicamente tutelata. Ma la disciplina in tema di opposizione alla donazione non sembra di valore tale da ammettere che il legittimario, al momento della donazione, sia titolare del diritto fondante la rivendica. Infatti, prima dell’apertura della successione il legittimario non può, in nessun caso, agire in riduzione.

Tornando allo specifico tema della tutela del promissario acquirente, a sommesso avviso di chi scrive la sentenza della Corte di Cassazione lascia, francamente, qualche perplessità.

Infatti, la sentenza in esame afferma che è onere di chi agisce in giudizio, ossia il promissario acquirente dare prova degli elementi fattuali da cui desumere il pericolo di rivendica e, segnatamente, che questo sia concreto e non meramente potenziale.

Tuttavia, ci si chiede come sia possibile per tale soggetto venire a conoscenza della consistenza del patrimonio del donante, ossia di un soggetto col quale non ha mai intrattenuto rapporti, verificare se ha posto in essere altre donazioni e quali siano i legittimari.

Peraltro, se anche si riuscisse a determinare la consistenza di queste circostanze fattuali, nulla esclude che il pericolo di rivendica si manifesti in futuro, esponendo il promissario acquirente ad una vera e propria espropriazione.

Così argomentando, peraltro, si incentiva il promittente venditore a tacere l’esistenza di informazioni rilevanti nell’economia del contratto, come la provenienza donativa del bene e, specularmente, obbligare il promissario alla stipulazione di un contratto definitivo avente ad oggetto un bene con caratteristiche diverse da quelle originariamente pattuite.

A questo proposito, si osserva che la sentenza in esame non appare nemmeno tenere in debita considerazione la causa del preliminare.

Secondo le teorie più accreditate, la causa del preliminare è quella di gestione delle sopravvenienze. Orbene, nel caso che ci sta occupando appare evidente che tra il momento della stipulazione del preliminare e quello del definitivo siano sopravvenute delle circostanze che hanno alterato l’equilibrio originario dell’accordo raggiunto dalle parti.

Una possibile tutela per il promissario acquirente potrebbe essere quella di riconoscergli il diritto di agire per il risarcimento del danno, ex art. 1337 e 1375 c.c., per non aver avuto contezza di elementi determinanti per l’economia dell’affare.

Secondo alcune riflessioni oramai in via di consolidamento, soprattutto in dottrina, la responsabilità precontrattuale non presuppone necessariamente un contratto invalido o inefficace, ben potendo coesistere con un contratto valido.

In tali casi si assiste a quel fenomeno che in letteratura è stato definito “vizi incompleti della volontà”.

L’oggetto specifico di questa trattazione non consente una disamina puntuale e specifica di questo tema[7].

Per concludere su questo specifico punto, umilmente si formula un’ultima critica avverso la sentenza della Corte di cassazione nella parte in cui pare aver ribaltato la prospettiva nelle vicende che vedono coinvolti beni di provenienza donativa.

In particolare, se è vero che i terzi potrebbero sempre rifiutarsi di acquistare il bene avente la provenienza di cui sopra, malgrado quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è un fatto che gli inconvenienti maggiori li affronta il soggetto che per primo riceve quei beni, ossia il donatario, essendo egli un soggetto che, di fatto, diviene proprietario di un bene potenzialmente incommerciabile.

Tali considerazioni offrono lo spunto per la trattazione del paragrafo successivo.

3. I possibili rimedi per garantire la circolazione dei beni acquistati dal donatario.

In questo paragrafo, come preannunciato alla fine del precedente, si prenderanno in esame le possibili forme di tutela da apprestare al donatario che voglia disporre di un bene ricevuto in via donativa.

In via generale, pur non essendo condivisibile l’orientamento giurisprudenziale di cui al precedente paragrafo, la circostanza per cui il promissario acquirente non possa opporre un rifiuto per la stipula del definitivo rappresenta una forma di protezione per il promittente/donatario.

Tuttavia, occorre anche fare i conti con il rilievo per cui l’acquisto di un immobile avviene spesso per il tramite di garanzie prestati dagli istituti di credito.

Ebbene, è un fatto che, ad oggi, appare sempre più problematico ottenere queste forme di garanzie allorché si voglia acquistare un bene di provenienza donativa.

Al fine di meglio comprendere questo assunto, è bene evidenziare che il terzo avente causa dal donatario rischia di acquistare un bene che, in ipotesi, potrebbe essere esposto all’aggressione da parte del legittimario per un periodo massimo di ben 30 anni.

Infatti, oltre al termine decennale di cui all’art. 2652/8 c.c. di cui già si è detto, deve aggiungersi anche il termine ventennale di cui all’art. 563 c.c., in forza del quale l’iniziativa del terzo legittimario verso l’avente causa dal donatario deve avvenire entro il termine di 20 anni dalla donazione[8].

Tale disciplina, inserita nel Codice civile grazie alla riforma del 2005, ha l’ambizioso obiettivo di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela dei diritti dei legittimari e quelle di circolazione dei beni, ricordando che anche tale seconda esigenza, al pari della prima, ha un aggancio costituzionale.

Infatti, nel momento in cui l’art. 42 Cost. proclama la funzione sociale della proprietà, intende anche e soprattutto riconoscere al proprietario il diritto di disporre del proprio diritto. Ed è un fatto che un diritto di proprietà svuotato completamente della facoltà di disposizione rischia di porsi in contrasto col testo costituzionale.

Ciò posto, al fine di proteggere il donatario e, segnatamente, garantirgli la possibilità di disporre del bene ricevuto dal de cuius/donante, si è ipotizzato di ampliare la garanzia per evizione di cui all’art. 1483 c.c. in favore dell’acquirente.

Più precisamente, ricordando quanto detto in precedenza, il donante/venditore potrebbe riconoscere all’acquirente il diritto di tenerlo indenne per il caso in cui egli dovesse subire l’evizione del bene da parte del legittimario.

L’ampliamento della garanzia ex art. 1483 c.c. si rende necessario perché, come già esposto, il diritto del terzo che agisce in rivendica deve preesistere al contratto, e nel caso sottoposto alla nostra attenzione ciò non si verifica. Infatti, la rivendica da parte del legittimario è un diritto che, necessariamente, emerge in un momento successivo alla stipulazione del contratto.

Questa ipotesi, però, non appare appagante per il donatario che voglia disporre del bene e, quindi, convincere il proprio avente causa che egli acquista senza pericoli. Infatti, l’art. 563 c. c. prevede che il legittimario possa agire verso il terzo avente causa dal donante solo previa escussione del patrimonio di quest’ultimo e, quindi, nel caso di insolvenza dello stesso.

Orbene, logica conseguenza di quanto esposto è che se il patrimonio del donante è inidoneo a soddisfare le pretese del legittimario, lo sarà anche per quelle del terzo avente causa.

Una soluzione appagante potrebbe essere quella di garantire l’acquisto del terzo per il tramite di una cd fideiussio indemintatis, ossia una fideiussione prestata da un istituto bancario a tutela del terzo avente causa dal donatario per il caso in cui egli subisca l’evizione da parte del legittimario.

Tuttavia, questa soluzione presenta l’inconveniente di obbligare il garante per tutto il periodo di tempo (quello trentennale di cui sopra) in cui è possibile subire l’evizione da parte del legittimario.

A parere dello scrivente, una forma di tutela per il donatario, e quindi anche per il donante che riuscirebbe a meglio disporre del proprio bene, potrebbe essere quella di ottenere dal legittimario (o dai legittimari) una rinuncia all’azione di restituzione.

Prima di esaminare questa possibilità, appare utile ricordare quali sono le rationes poste a fondamento del divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c., stante l’innegabile interferenza possibile tra questo divieto e la rinuncia all’azione di restituzione.

Secondo il divieto civilistico, sono tre le tipologie di patti successori vietati: istitutivi, dispositivi e rinunciativi. È evidente che la rinuncia all’azione di restituzione potrebbe integrare, al più, un patto successorio rinunciativo.

Ciò posto, ad oggi, per quanto concerne i patti successori istitutivi si ritiene che la ratio del divieto sia da individuare nella libera revocabilità della volontà testamentaria, contrariamente al principio invalso, ex art. 1372 c.c., in materia contrattuale di tendenziale irrevocabilità[9].

Infatti, istituire per via contrattuale un soggetto quale proprio erede avrebbe proprio l’inconveniente di doversi confrontare con un principio di assoluta importanza per il diritto contrattuale[10].

Diversamente, circa i patti successori dispositivi, si afferma comunemente che la ratio del divieto debba essere rinvenuta nell’esigenza, tutta morale ed etica, di non incoraggiare o comunque avallare contrattazioni che presuppongano la morte di una persona.

Si afferma che ripugna alla coscienza collettiva giustificare un negozio giuridico caratterizzato dalla circostanza per cui chi lo pone in essere, a conti fatti, deve sperare nella morte di una data persona.

Peraltro, si afferma anche che la ratio sia quella di evitare contrattazioni azzardate o prodigali, in quanto l’autore delle stesse verrebbe a disporre di beni di cui non è ancora proprietario[11].

Le ragioni sottese al divieto di patti dispositivi sono le medesime di quelle che si possono porre a fondamento dei patti rinunciativi, posto che la rinuncia, in via generale, altro non è che una peculiare forma di disposizione del proprio diritto[12].

Ciò posto, ci si deve chiedere se vi siano de motivi per ritenere la sussistenza del divieto ex art. 458 c.c. in ordine alla fattispecie in esame di preventiva rinuncia all’azione di restituzione.

In via preliminare, può evidenziarsi che l’art. 557/2 c.c. prescrive espressamente che i legittimari non possono rinunciare all’azione di riduzione fintanto che il de cuius è in vita.

La norma si riferisce espressamente solo alla riduzione, non anche alla restituzione.

Orbene, ipotizzando che azione di riduzione e azione di restituzione siano identiche, si potrebbe anche affermare che la mancata esplicita menzione dell’azione di restituzione non sia ostacolo insormontabile[13].

Ad avviso di chi scrive, le due azioni non sono identiche. Infatti, la prima è rivolta nei confronti di un’ampia gamma di soggetti (eredi, legatari e donatari), mentre la seconda solo verso gli aventi causa da questi soggetti.

Come ricordato in precedenza, poi, la sentenza di accoglimento dell’azione di riduzione non fa stato, ex art. 2909 c.c., nei confronti degli aventi causa dal donatario

Il divario tra le due azioni è stato maggiormente accentuato dopo la citata riforma del 2005. Ai sensi dell’art. 563 c.c., infatti, il legittimario se non fa opposizione e sono trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione perde il diritto di agire in restituzione anche se il donante è ancora in vita.

Pertanto, e questa è l’innovazione più pregnante, la perdita della possibilità di agire in restituzione è testualmente indipendente dall’evento morte.

Da queste considerazioni, quindi, sembra indubbio che la mancata menzione dell’azione di restituzione nel corpo dell’art. 557/2 c.c. non può essere sopperita da un’asserita uguaglianza delle due azioni.

Inoltre, non sembra nemmeno possibile sostenere che le rationes sottese al divieto di patti successori rinunciativi siano estendibili alla preventiva rinuncia all’azione di restituzione.

Infatti, può evidenziarsi che il rinunciante non porrebbe in essere un atto prodigale, affrettato ed involontario, in quanto si limiterebbe a rinunciare ad agire per la restituzione di un singolo bene.

Inoltre, la rinuncia riguarderebbe un bene che è già uscito dal patrimonio del de cuius, quindi le ragioni sottese al cd votum captandae mortis non sarebbero esistenti.

Tali argomentazioni sono state poste a fondamento di una recente decisione di merito, la quale ha stabilito che: “L’esigenza di favorire la commerciabilità dei beni donati pur durante la vita del donante può essere soddisfatta mediante annotazione dell’atto di rinuncia all’azione di restituzione a margine della trascrizione dell’atto di donazione assoggettabile a riduzione.

La disponibilità dell’azione di restituzione, e quindi la sua espressa rinunciabilità prima del decorso del ventennio dalla trascrizione della donazione, è avvalorata dal fatto che la perdita della possibilità di agire in restituzione è indipendente dall’evento morte in quanto, in caso di inerzia del legittimario, l’azione è destinata a perire col decorso del ventennio anche se il donante sia ancora in vita”[14].

Prendendo spunto da queste indicazioni, in cui l’esigenza di garantire la commerciabilità del bene donato, può affermarsi che un sicuro espediente per riconoscere, da un lato al donante di disporre del bene, e dall’altro al donatario di far salvo il proprio diritto, potrebbe essere proprio quello di ottenere dal legittimario la rinuncia all’azione di restituzione.


[1] Si precisa che, ai sensi dell’art. 809 c. c., i limiti imposti al de cuius si rivelano sia in riferimento alle donazioni dirette, che a quelle indirette. Infatti, la disposizione in esame richiama espressamente l’applicabilità delle disposizione poste a tutela dei legittimari.

[2] La norma non menziona espressamente l’erede. Tuttavia, autorevole dottrina afferma che l’obbligo restitutorio così come previsto dall’art. 561 si impone analogicamente anche all’erede nei cui confronti sia stata esperita l’azione di riduzione, ove abbia gravato i beni ricevuti da pesi o ipoteche. Così, C. M. Bianca, La famiglia, le successioni, Milano, 2005, pagina 703.

[3] In via analogica, la giurisprudenza di legittimità estende l’azione di restituzione anche nei confronti dei terzi aventi causa dall’erede o legatario. In questo senso, Cass. 22/03/2001, in Rivista Notarile 2001, pag. 1503.

[4] Sembra che la scelta del terzo avente causa possa inserirsi all’interno dello schema delle obbligazioni alternative, ex art. 1286 c.c..

[5] Sentenza numero 8002 del 21/05/2012.

[6] Per la preesistenza del diritto, si vedano, tra le altre Cass. 24/11/1966 numero 2797  in Giustizia civile 1967, pagina 1702; Cass. 04/12/1967 numero 2867 in Foro Italiano pagina 2274.

[7] Ci si limita solo a ricordare che la possibilità che un contratto valido sia fonte di responsabilità risarcitoria – precontrattuale è offerta dall’art. 1439 c.c  in  materia di dolo incidente.

[8] Peraltro, al termine trentennale di cui al testo, deve aggiungersi anche quello, per vero eventuale, di opposizione alla donazione ex art. 563/4 c.c.

[9] Per tutti, si veda L. Ferri, Dei legittimari (artt. 536-564), in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Libro secondo- Delle successioni, Bologna-Roma, 1997, 101.

[10] Non a caso, infatti, il Codice civile ha previsto l’inefficacia della clausola testamentaria di rinuncia alla facoltà di revoca del testamento (art. 679 c.c.) , oltre alla nullità del testamento collettivo (art. 589 c.c.).

[11] L. Coviello jr., Diritto successorio, Bari, 1962, 250; L. Ferri, op. cit., 104.

[12] Da questo punto di vista, non sembra azzardato ritenere che l’art. 458 c.c. sia ridondante nella misura in cui tripartisce i patti successori, ben potendo gli stessi essere di due sole categorie: istitutivi e dispositivi.

[13] Fermo restando che teorizzare la nullità, ex art. 458 c.c., della rinuncia all’azione di restituzione significherebbe teorizzare l’esistenza di una deroga al principio dell’autonomia contrattuale che, in quanto tale, richiederebbe il ricorso ad altri argomenti a supporto. In generale, infatti, le cause di nullità contrattuali devono sempre interpretarsi in senso restrittivo.

[14] In questo senso, Tribunale di Torino 26 settembre 2014, n. 2298, decr. – Pres. Massa, in Notariato 2015, pagine 191 e ss..


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