Quando lo scopo mutualistico entra in crisi: da cooperativa a S.p.A., gli esempi di “Banca Popolare di Bari” e “Cattolica Assicurazioni”

Quando lo scopo mutualistico entra in crisi: da cooperativa a S.p.A., gli esempi di “Banca Popolare di Bari” e “Cattolica Assicurazioni”

Sommario: 1. Introduzione – 2. La trasformazione da società cooperativa a società lucrativa – 3. La devoluzione ai fondi mutualistici – 4. Il “cambio di passo” del legislatore e i nodi irrisolti

 

1. Introduzione

Negli ultimi giorni, per ragioni diverse, è tornata alla ribalta la storica querelle tra modello cooperativo e modello lucrativo.

In data 29 giugno, circa 35.000 soci della Banca Popolare di Bari hanno dato il via libera alla trasformazione dell’istituto di credito da società cooperativa per azioni in S.p.A. L’operazione si inserisce nel quadro più ampio di un’iniziativa promossa dal Governo italiano, a partire dal 2019, in ottica di risanamento e rilancio della banca con la collaborazione del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e di Mediocredito Centrale. La trasformazione in società per azioni rappresenta, infatti, l’ultimo scoglio prima del “porto sicuro”, un piano da quasi 1,6 mld di euro (in parte convertiti in partecipazioni equity, in parte a rimborso del pregresso indebitamento) lanciato dal Governo con l’approvazione del Decreto-legge n. 142 del 16 dicembre 2019, poi convertito con Legge n. 5 del 7 febbraio 2020. Attraverso tale decreto, il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è impegnato a erogare all’Agenzia Nazionale per l’attrazione di investimenti e lo sviluppo di impresa (“INVITALIA”) la somma di euro 900 mln, finalizzata alla ricapitalizzazione di Mediocredito Centrale. Tra gli scopi di Mediocredito Centrale, infatti, si ricordano quello di promuovere secondo logiche, criteri e condizioni di mercato, lo sviluppo di attività finanziarie e di investimento, attraverso operazioni finanziarie anche a sostegno delle imprese del Mezzogiorno. Come chiarito dall’art. 1, comma 1, del Decreto-legge n. 142, il Mediocredito ha tra i diversi margini di operatività anche quello di acquisire partecipazioni nel capitale di società bancarie e finanziarie, nonché di condurre operazioni di razionalizzazione di tali partecipazioni. Come previsto sempre dallo stesso decreto, l’acquisizione di partecipazioni in società bancarie e finanziarie avviene, però, di norma, in enti organizzati nella forma di società per azioni e ciò finisce inequivocabilmente per influenzare l’intero percorso di salvataggio dell’istituto di credito pugliese, fino a far crollare pluriennali resistenze sfociate nella recente trasformazione in società per azioni.

Un altro episodio che segna il passo della messa in discussione dello scopo mutualistico di fronte alle mutate esigenze del mercato è quello che vede coinvolto il gruppo assicurativo veronese “Cattolica Assicurazioni”. Le ragioni che inducono (o meglio indurranno) la compagnia assicurativa ad abbandonare la forma di cooperativa a favore di quella di S.p.A. sono diverse, ma pur sempre legate ad emergenze contingenti. Con lettera del 27 maggio 2020, l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (“IVASS”) ha formalmente comunicato alla compagnia di assicurazione che, da esiti dei monitoraggi settimanali sul solvency ratio, a seguito del deterioramento dei mercati finanziari quale conseguenza della diffusione della pandemia di Covid-19, i livelli di solvibilità di Cattolica, pur rimanendo al di sopra dei minimi regolamentari, avevano subito una flessione tale da porli al di sotto delle soglie interne di risk appetite framework. Di conseguenza, IVASS riteneva necessario un aumento di capitale da 500 mln di euro da effettuarsi entro l’autunno. La soluzione trovata dal management della società e comunicata al mercato in data 27 giugno prevede allora l’ingresso di Generali nel capitale sociale del gruppo assicurativo veronese con un investimento iniziale di 300 mln di euro, eventualmente integrabile in un futuro prossimo con un ulteriore aumento di capitale da 200 mln di euro sottoscrivibile, in tutto o in parte, anche dalla stessa Generali. Come prevedibile, l’annuncio dell’operazione ha avuto anche un profondo impatto sulla governance, infatti, tra le prime condizioni poste da Generali per la buona riuscita dell’aumento di capitale vi è la spinta a porre tra i punti all’ordine del giorno dell’assemblea straordinaria convocata da Cattolica in prima sede per il prossimo 30 luglio, l’adozione della delibera di trasformazione di Cattolica da cooperativa in S.p.A. e l’adozione delle conseguenti modifiche statutarie.

Questi recenti eventi riportano dunque in auge una diatriba mai sopita tra sostenitori dei benefici del principio mutualistico e i maggiorenti del modello capitalistico per eccellenza: la società per azioni.

Nelle pagine che seguono l’idea è dunque quella di ripercorrere brevemente le tappe cruciali della trasformazione da società cooperativa a società per azioni, analizzandone in particolare i nodi emersi nella prassi come più problematici.

2. La trasformazione da società cooperativa a società lucrativa

Prima della riforma del diritto societario del 2003 (D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), l’intera disciplina delle società cooperative era rimessa alla Legge 17 febbraio 1971, n. 127, che all’art. 14 poneva un espresso divieto di trasformazione delle cooperative in società ordinarie. Le ragioni sottostanti ad una simile chiusura si spiegavano non tanto nell’ottica di una incompatibilità presunta tra causa mutualistica e scopo lucrativo, quanto piuttosto con l’idea di salvaguardare la libera concorrenza tra imprese, evitando che un soggetto giuridico come la cooperativa, che inevitabilmente negli anni avesse tratto vantaggi di carattere fiscale dal suo status, potesse in qualche modo fare concorrenza indebita ad altri operatori del settore che non avessero cumulato gli stessi benefici. Un altro posto in risalto dai detrattori della trasformazione da cooperativa a società di lucro è il rischio legato al fatto che si permetta in qualche modo ad un soggetto giuridico vigilato come la cooperativa trasformanda di uscire “arbitrariamente” dal perimetro di sorveglianza dell’autorità governativa con i connessi pericoli elusivi.

L’intento del legislatore del 1971, seppur comprensibile nella sua ratio di tutela degli operatori del mercato, appariva però superato dalla prassi, dove, stante il divieto di trasformazione della cooperativa in altro tipo societario, la via più agevole era rappresentata dalla liquidazione della cooperativa esistente e dalla contestuale costituzione di una società lucrativa da parte degli stessi soggetti.

La riforma del diritto societario del 2003 ha cercato di tamponare questa falla, preferendo dare spazio al principio di autonomia delle parti e introducendo così la possibilità di trasformare una società cooperativa a carattere mutualistico non prevalente in società lucrativa o in consorzio (Art. 2545-decies c.c.). Così come scritta, la lettera dell’art. 2545-decies lascia protendere per un carattere residuale della trasformazione, ma soprattutto contribuisce ad alimentare un ricco dibattito tra chi riscontra nell’art. 2545-decies una formula di carattere abilitativo e chi, al contrario, sostiene che la norma sia l’espressione di un principio più generale di libera trasformabilità e che riscontri il solo limite della cooperazione a carattere prevalente. Da questo problema, all’apparenza squisitamente teorico, derivano in realtà dei risvolti pratici, primo fra tutti la delimitazione del campo di applicazione della norma. Se l’art. 2545-decies, infatti, ha carattere abilitativo, l’ambito applicativo della norma coincide con le sole cooperative disciplinate dal Codice civile, venendo così ad escludersi l’applicabilità dello stesso articolo, ad esempio, nell’ambito della cooperazione bancaria, dove l’art. 150-bis TUB escludendo l’applicazione dell’art. 2545-decies, riduce le trasformazioni possibili soltanto a quelle menzionate dal TUB e quindi la trasformazione di una banca popolare in S.p.A. (Art. 31) o la cosiddetta “fusione trasformativa” che veda coinvolte banche di credito cooperativo e banche di diversa natura e da cui risulti una banca costituita sotto forma di S.p.A. (Art. 36).

Prima di richiamare brevemente le tappe della trasformazione, occorre ricordare che l’apertura del legislatore alla mutatio specis della cooperativa non è totale: si continua, infatti, a prevedere che la trasformazione possa avere ad oggetto soltanto le società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente, così come definite dall’art. 2512 c.c., ovvero tutte quelle in cui l’attività svolta nei confronti dei soci rivesta carattere prevalente rispetto a quella svolta nei confronti dei terzi.

La delibera di trasformazione richiede, poi, delle maggioranze qualificate, parametrate al numero di soci che compongono la società cooperativa. Così, l’art. 2545-decies, comma 2, stabilisce che: se la cooperativa è composta da meno di cinquanta soci, la delibera deve ottenere l’approvazione dei due terzi di essi; se la cooperativa rappresenta più di diecimila soci, è sufficiente che la deliberazione sia assunta con il voto favore dei 2/3 dei votanti, sempre che all’adunanza siano presenti, in proprio o per delega, almeno il venti per cento dei soci.

3. La devoluzione ai fondi mutualistici

Le maggiori difficoltà connesse alla trasformazione da società cooperativa a società a scopo lucrativo derivano da un istituto che manca nelle altre ipotesi di trasformazione: l’art. 2545-undecies prevede, infatti, che il patrimonio esistente alla data di trasformazione (dedotto il capitale versato e rivalutato, i dividendi non ancora distribuiti ed, eventualmente, l’ammontare minimo del capitale della nuova società da costituire), venga devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, ossia quei fondi costituiti dalle associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo di cui all’art. 11, comma 5, l. n. 59/1992. La presunzione fatta valere dal legislatore, difatti, prevede che il patrimonio disponibile si sia formato soprattutto in virtù delle agevolazioni fiscali di cui ha goduto la cooperativa. Ciò spiega, dunque, l’idea di devolvere il medesimo patrimonio a enti e associazioni che abbiano tra i loro fini il perseguimento di quegli obiettivi mutualistici da cui le agevolazioni fiscali avevano tratto la loro origine. La veridicità del patrimonio devoluto è garantita da una relazione giurata redatta da un esperto designato dal Tribunale della circoscrizione in cui ha sede la società che attesti il valore effettivo del patrimonio dell’impresa. Nondimeno, sempre a garanzia della veridicità e della trasparenza dell’operazione, la delibera di trasformazione non può essere adottata dall’assemblea ove la cooperativa non sia stata sottoposta a revisione nell’anno precedente da parte dell’autorità di vigilanza (Ministero per lo Sviluppo Economico) o se gli amministratori non ne abbiano comunque fatto richiesta almeno novanta giorni prima dell’assunzione della delibera. A ben vedere, dunque, il tema della devoluzione appare di cruciale importanza: si consideri, infatti, che il “prezzo” imposto dal legislatore nel passaggio dal sistema lucrativo a quello mutualistico è stato giudicato da alcuni molto elevato. La cooperativa che vuole trasformarsi, perde per l’appunto tutto il patrimonio accumulato sino a quel momento, fatta eccezione per il capitale versato, i dividendi non distribuiti e quella somma che nel minimo sia finalizzata a costituire il capitale sociale della nuova impresa. La norma stride in particolare con la situazione prevista dall’art. 223 quinquiesdecies delle norme transitorie e d’attuazione al Codice civile, allorché esso esclude la devoluzione per tutte le cooperative che prive delle clausole di mutualità di cui all’art. 2514 c.c. nel loro statuto abbiano approfittato della finestra temporale del regime transitorio (rimasta aperta sino al 31 marzo 2005) per deliberare la trasformazione.

4. Il “cambio di passo” del legislatore e i nodi irrisolti

Dopo queste considerazioni di carattere preliminare, occorre allora interrogarsi su quale sia l’atteggiamento del legislatore di fronte alle trasformazioni di società cooperative in società lucrative. I recenti fatti di Banca Popolare di Bari e Cattolica Assicurazioni lascerebbero protendere per un importante capovolgimento di fronte in tal senso. La scuola di pensiero più comune in materia di trasformazione di cooperative in società lucrative, considerando tale scelta come mal vista dall’ordinamento, e basandosi sui presunti fini sanzionatori della devoluzione del patrimonio della cooperativa ai fondi mutualistici, protendeva per un atteggiamento governativo sfavorevole alla trasformazione. I recenti fatti richiamati e, in particolare, l’inserimento in alcuni provvedimenti legislativi di clausole che condizionino l’intervento di enti partecipati dallo stato, come il Mediocredito Centrale, alla presenza di una determinata forma societaria lasciano pensare a un importante cambio di passo.

L’incoraggiamento alla trasformazione da società cooperativa a società lucrativa non deve far sottovalutare però, alcuni dei problemi che continuano a rimanere irrisolti. Ad esempio, grande incertezza vige sulla sorte delle cosiddette “cooperative diverse”, ossia, cooperative nate come a mutualità prevalente e che come tali contengano ancora negli statuti le clausole di cui all’art. 2514 c.c., ma che de facto abbiano perso il carattere della mutualità prevalente, avendo ad esempio, negli ultimi due anni, operato più a favore dei terzi che dei soci. Posto che il passaggio da cooperativa a mutualità prevalente a cooperativa “diversa” non integra di per sé una trasformazione e non attribuisce dunque il diritto di recesso, maggiori dubbi permangono allorché le modifiche alle previsioni statutarie di cui all’art. 2514 siano deliberatamente adottate con le maggioranze prescritte e non il frutto di una situazione di fatto. Occorre ricordare, allora, come a tutela dell’interesse mutualistico, il legislatore abbia previsto anche in questa circostanza alcuni adempimenti, primo fra tutti la redazione di un bilancio da notificare al Ministero dello Sviluppo Economico entro 60 giorni dalla perdita della qualifica, nel quale si vada a determinare il valore effettivo dell’attivo patrimoniale da imputarsi alle riserve indivisibili. L’effetto, dunque, non è quello di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici come quando la società abbandona in via definitiva la forma della cooperativa, ma sicuramente non vi differisce troppo; si consideri infatti che le riserve indivisibili non possono essere ripartite tra i soci neppure in caso di scioglimento. L’obbligo di redazione del bilancio e imputazione dell’attivo patrimoniale alle riserve indisponibili, stando alla lettera dell’art. 2545-octies, comma terzo, non è però il frutto della perdita “accidentale” del carattere della mutualità prevalente per il mancato rispetto delle condizioni di prevalenza di cui all’art. 2513 per due esercizi consecutivi, ma soltanto il risultato della decisione dei soci di rimuovere deliberatamente dallo statuto le clausole di cui all’art. 2514. La scelta del legislatore di distinguere tra la perdita “volontaria” della mutualità prevalente e quella, per così dire, “accidentale”, esonerando nel secondo caso la società dall’obbligo di redazione del bilancio, ma soprattutto di “congelamento” del patrimonio disponibile, appare giustificata. Se la gestione della stessa cooperativa solo a vantaggio dei soci appare oramai antieconomica e si decida di ovviare a ciò con l’apertura della cooperativa ai terzi, è bene che il legislatore faccia prevalere il principio dell’economicità su quello perequativo-punitivo dell’imputazione dell’attivo a riserva indisponibile, dando sostanzialmente riconoscimento al principio già espresso de facto del fallimento in quella determinata circostanza del modello a mutualità prevalente a vantaggio di un’apertura al mercato.

Per concludere l’analisi, bisogna ancora una volta soffermarsi sui nodi irrisolti connessi alla devoluzione prevista dall’art. 2545-undecies. Tra i commentatori persistono sia riguardo dubbi al quantum da devolvere che al quomodo della devoluzione. L’importanza riservata sul punto dall’interprete non è casuale, dato che proprio dalla riuscita della devoluzione passa il successo di un’operazione di trasformazione. Pochi dubbi si sollevano circa l’obbligo di devoluzione delle riserve cosiddette indivisibili, essendo queste obbligatoriamente destinate ai fondi mutualistici anche in caso di semplice scioglimento o liquidazione della cooperativa. A ben vedere, però, un’eccezione esiste: dalle riserve indivisibili può sempre e comunque dedursi la quota minima di capitale richiesta per costituire la nuova società. Anche da ciò, può dunque ricavarsi un favor del legislatore verso la trasformazione.

Riguardo, invece, alle modalità della devoluzione i principali problemi si stanziano lungo l’orizzonte della tempistica in cui sorge il credito del fondo mutualistico. Esso è sicuramente successivo alla redazione della relazione di stima prevista dall’art. 2545-undecies e deve farsi risalire al momento in cui la trasformazione divenga efficace. L’ago della bilancia è rappresentato allora dall’applicazione o meno della disciplina delle trasformazioni eterogenee di cui all’art. 2500-novies. Se si protende per tale ipotesi – cosa oramai quasi pacifica in dottrina – la trasformazione, e di conseguenza insorgenza del credito, che diventano efficaci decorsi 60 giorni dall’iscrizione della delibera nel Registro delle imprese. Ove, invece, si applicasse la disciplina ordinaria della trasformazione di cui all’art. 2500, il credito del fondo mutualistico sorgerebbe contestualmente all’iscrizione della delibera di trasformazione nel Registro delle imprese.

Le modalità della devoluzione suscitano anche ulteriori incertezze. Non si può ignorare, infatti, che se la devoluzione è intesa come passaggio immediato dell’attivo ai fondi mutualistici, non sono pochi i casi in cui si rischierebbe di mettere a repentaglio l’equilibrio economico, se non forse la stessa sopravvivenza della società trasformanda. Poiché l’ordinamento lascia invero un certo margine di manovra (il termine devoluzione si presta a molteplici interpretazioni) si sta sempre più facendo spazio l’idea che le modalità della devoluzione possano in qualche modo essere rimesse all’autonomia privata. Data la particolare visione che una parte della dottrina fa propria sui fondi mutualistici visti come “soci silenziosi” (le cooperative sono tenute annualmente a devolvere il 3% degli utili), non appare troppo infondata neppure l’idea di assolvere alla devoluzione mediante l’attribuzione di strumenti finanziari emessi ai sensi dell’art. 2346 c.c.

Un cenno meritano anche gli strumenti di reazione in possesso dei fondi mutualistici in caso di lesione del loro diritto di credito. Posto che, come visto, questo diritto sorge soltanto con l’efficacia della trasformazione, il fondo mutualistico non essendo creditore anteriore alla medesima non è titolato ad opporvisi. La strada che si prospetta è dunque quella di esperire nell’eventualità di lesione del diritto di credito l’azione di danno da trasformazione ai sensi dell’art. 2500-bis, comma 2.


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