Quando può dirsi legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che ha raggiunto i requisiti per il pensionamento?

Quando può dirsi legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che ha raggiunto i requisiti per il pensionamento?

Nell’ambito del pubblico impiego l’art. 72, comma 11, del D. L. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 133/2008, recitava: “Nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto lavoro con un preavviso di sei mesi. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentiti i Ministri dell’interno e della difesa sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa, tenendo conto delle rispettive peculiarità ordinamentali. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano a magistrati e professori universitari.“. L’art. 6, comma 3, L. n. 15/2009 modificava, poi, il requisito dell’anzianità contributiva con quello del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni“. L’ulteriore modifica (con l’art. 17, comma 35 novies, D. L. n. 78/2009, convertito con L. n. 102/2009), ritornando al requisito della massima anzianità contributiva, estendeva tale disciplina anche al personale dirigenziale e precisava l’unilateralità del recesso esercitato ai sensi dell’art. 5 D. Lgs. n. 165/2001.

Nonostante le numerose modifiche, tale norma non disponeva nulla sulle condizioni procedimentali e/o motivazionali necessarie per risolvere il rapporto di lavoro del dipendente pubblico, con la sola eccezione di specifici comparti (sicurezza, difesa e affari esteri inseriti dopo la conversione) per i quali, vista la peculiarità, i criteri e le modalità di applicazione erano predisposti con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Solo con l’art. 1, comma 5, D. L. n. 90/2014, convertito con modificazioni con L. n. 114/2014, l’art. 72 citato prevede che il provvedimento deve contenere anche la “decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative“, i “criteri di scelta applicati” e la mancanza di “pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi“.

La complessità e l’evoluzione della normativa hanno prodotto un elevato contenzioso in materia, approdato anche innanzi alla Corte di Cassazione, la quale da ultimo con sentenza n. 18099 del 14 settembre 2016 ha ribadito un principio già affermato precedentemente (cfr Cass. n. 11595/2016): “La facoltà attribuita dall’art. 72, comma 11, del decreto legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, alle Pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento, che caratterizzano anche gli atti di natura negoziale posti in essere nell’ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato. L’esercizio della facoltà richiede, quindi, idonea motivazione, poiché in tal modo è salvaguardato il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguite nell’ambito delle politiche del lavoro“.

Andiamo per ordine.

Il lavoratore adiva il tribunale per fare accertare l’illegittimità della risoluzione del rapporto di lavoro, chiedendo la reintegra e la corresponsione delle retribuzioni non percepite, oltre interessi e rivalutazione. Il tribunale, tuttavia, rigettava le domande del dipendente pubblico affermando che la normativa richiedeva l’anzianità massima contributiva come unico requisito.

Requisito unico riconosciuto anche dalla Corte di Appello che, nel confermare la sentenza di primo grado, precisava ulteriormente che la mancanza di necessità di motivazione del provvedimento di risoluzione del rapporto era insita proprio nel raggiungimento del suddetto requisito previsto dall’art. 72 citato, rispettando così anche i canoni di buona fede e correttezza.

Il lavoratore ricorre per cassazione sulla base di cinque motivi, che i giudici di legittimità ritengono fondati proprio in ragione del principio di diritto sopra richiamato.

Il ragionamento della Suprema Corte parte dal presupposto che la ricostruzione della disciplina deve tenere conto anche dell’art. 16, comma 11, D. L. n. 98/2011, convertito con modificazioni con L. n. 111/2011, il quale stabilisce che “In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal comma 11 dell’articolo 72 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo“.

Ad avviso dei giudici di legittimità, quindi, l’atto generale organizzativo è il presupposto in presenza del quale non sussiste più alcun obbligo motivazionale, invece esistente fintantoché non venga emanato tale atto generale.

Infatti, la P.A., anche nell’ambito del rapporto di lavoro c.d. contrattualizzato, deve rispettare i principi di legalità, imparzialità e buon andamento (cfr. sentt. C. Cost. nn. 82/2003 e 146/2008). Ne consegue che la facoltà di recedere il rapporto di lavoro per raggiungimento della massima anzianità contributiva deve essere motivata perché in questo modo viene effettuato il bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti: dal diritto del lavoratore a non vedersi discriminato al generale buon andamento della pubblica amministrazione passando per il corretto esercizio dell’azione pubblica.

Sulla base di questi presupposti, la Cassazione ha ritenuto che la riorganizzazione della dotazione organica sulla base degli obiettivi di finanza e la ridefinizione della struttura organizzativa sulla base delle nuove tecnologie individuate dal provvedimento di collocamento a riposo del ricorrente non possono essere considerate motivazioni sufficienti a sostanziarsi in una “specifica considerazione della posizione professionale” del lavoratore tale da ritenere legittima la risoluzione del rapporto di lavoro.

Ha così cassato con rinvio la sentenza ad altra composizione della Corte di Appello, la quale dovrà riesaminare la fattispecie alla luce dei su esposti principi.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News

Articoli inerenti