Rapporti bancari in conto corrente: sulla banca grava l’onore delle prova del credito

Rapporti bancari in conto corrente: sulla banca grava l’onore delle prova del credito

Cass. civ., sez.  I, 20 aprile 2016, n. 7972

«Nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale, non può sollevarla dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore».

Con la sentenza in esame la Corte ha analizzato il tema dell’onere della prova del credito nonché quello dei mezzi di prova ammissibili.

Nel nostro ordinamento giuridico, l’onere della prova è regolato dall’art. 2697 c.c., secondo cui: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Pertanto, chi agisce in giudizio per far vedere riconosciuto un diritto di cui assume essere titolare deve fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto stesso.

Il riparto dell’onere della prova, nel giudizio civile, si coniuga con il principio dispositivo, in forza del quale il Giudice decide la controversia esclusivamente sulla base delle prove fornite in giudizio dalle parti, salve le ipotesi eccezionali in cui le prove sono acquisite al processo ad iniziativa del Giudice e, nei casi in cui ne è richiesta la presenza in giudizio, dal Pubblico Ministero.

Venendo al caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso, l’istituto di credito impugnava il decreto con cui il Tribunale di Bari rigettava l’opposizione allo stato passivo del fallimento, attesa l’esclusione del proprio credito di Euro 4.120.043,00, quale saldo di un conto corrente.

Ed infatti, la statuizione di rigetto del Tribunale di Bari si fondava sulla mancanza di prova del credito insinuato, giacché la banca opponente non aveva prodotto in giudizio le scritture contabili dalla quali emergeva il credito nei confronti della società fallita.

Né le ulteriori richieste istruttorie formulate erano tali da poter fornire la prova dell’esistenza dello stesso.

La banca proponeva, così, ricorso per Cassazione avverso tale decreto, sulla base di cinque motivi tutti convergenti sulla prova del credito e sui mezzi di prova ammissibili.

La Corte, nel decidere il caso sottoposto al suo esame, ha affermato il principio secondo cui: “Nei rapporti bancari in conto corrente, la banca non può sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale, non può sollevarla dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore”.

Nel caso che ci occupa, quindi, l’istituto di credito, non solo non depositava in giudizio le scritture contabili, prova indispensabile ai fine dell’accoglimento della sue richieste, ma articolava una serie di richieste istruttorie inammissibili.

Come osserva il Supremo Consesso, invero, con riguardo alla pretesa di provare il credito con le scritture contabili della società fallita, va evidenziato che al curatore fallimentare, il quale agisce nella sua funzione di gestione del patrimonio del fallito non è opponibile l’efficacia probatoria delle scritture contabili tra imprenditori, di cui agli articoli 2709 e 2710 c.c., ponendosi in posizione di terzietà rispetto al fallito.

Tale inopponibilità va ad inquadrarsi nel novero delle eccezioni in senso lato – e, dunque, rilevabile d’ufficio in caso di inerzia del curatore – poiché non si riconnette ad una azione necessaria dell’organo ma al regime dell’accertamento del passivo in sé, nel cui ambito il curatore, quale rappresentante della massa dei creditori, si pone in posizione di terzietà rispetto all’imprenditore fallito. (Sez. 1, Sentenza n. 14054 del 07/07/2015, Rv. 635932).

E comunque, nel caso di specie, vi era stata opposizione del curatore fallimentare.

Quanto alla richiesta acquisizione dei progetti di riparto nella procedura di concordato, va evidenziato, invece, che in questa procedura non esiste un vero procedimento di accertamento del passivo.

I provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di discussione del concordato preventivo riguardo alla sussistenza e al rango dei vari crediti hanno il solo effetto di accertare se ed in quali limiti sussista il diritto di voto ai fini dell’approvazione del concordato stesso e, come testualmente chiarisce la L. Fall., articolo 176, non pregiudicano le pronunce definitive sulla sussistenza dei crediti medesimi. Pertanto, si è ritenuto che l’inclusione di un credito nell’adunanza di cui alla L. Fall., articolo 174, tra quelli aventi diritto a prelazione e, come tali, privi del diritto di voto, non preclude, in sede di accertamento del passivo del fallimento dichiarato per la mancata approvazione del concordato, la possibilità di una autonoma valutazione circa la sussistenza e la natura del credito relativo (Sez. 1, Sentenza n. 4583 del 09/12/1976, Rv. 383329).

Alle luce dei principi di diritto innanzi enunciati, l’istituto di credito non ha assolto l’onore probatorio su di esso gravante e, conseguentemente, la Corte ha rigettato  il ricorso con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.


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