Recesso datoriale dal patto di non concorrenza in costanza di rapporto: per la Cassazione è illegittimo

Recesso datoriale dal patto di non concorrenza in costanza di rapporto: per la Cassazione è illegittimo

Cass. civ., Sez. lav., 1° settembre 2021, n. 23723

È nulla la clausola che consente al datore di lavoro di recedere, anche in costanza di rapporto, dal patto di non concorrenza sottoscritto al momento dell’assunzione.

La vicenda traeva origine dalla decisione del Tribunale di Reggio Emilia con cui era stata respinta la domanda proposta da una lavoratrice, nei confronti della società datrice di cui era stata dipendente dal 3.4.2000 fino al 31.3.2011, volta ad ottenere la somma di euro 40.246,31 quale compenso dovuto per la clausola del patto di non concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto, pattuita al momento dell’assunzione.

La sentenza del giudice di prime cure era stata confermata dalla Corte d’Appello di Bologna, la quale aveva rilevato che il patto in questione era sottoposto ad una condizione potestativa a favore di parte datoriale, che, al momento della risoluzione del rapporto, si era riservata di decidere se avvalersene o meno e che una siffatta clausola era stata ritenuta nulla, per contrasto con norme imperative, in sede di legittimità. Tuttavia, la predetta Corte aveva specificato che, nella fattispecie, il contrasto con le norme imperative non era ravvisabile, in quanto il datore di lavoro aveva esercitato il diritto di recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro, per cui la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio, in relazione alla facoltà di riorganizzare il proprio futuro lavorativo e da indennizzare con la indennità pretesa.

A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale la ricorrente sollevava i seguenti due motivi:

– con la prima censura, denunciava, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2125 c.c., dell’art. 1344 c.c. e dell’art. 1373 c.c., in ordine alla nullità della clausola di recesso unilaterale, nonché all’illegittimità del recesso intimatole dalla società datrice; in particolare, la donna deduceva l’erroneità in punto di riconosciuta validità del recesso unilaterale dal patto di non concorrenza operato dalla società datrice in corso di rapporto di lavoro, in palese contrasto e difformità dai principi normativi imperativi, anche univocamente richiamati nella giurisprudenza della Suprema Corte di legittimità;

– con la seconda censura, denunciava, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1373 c.c. comma 3, dell’art. 1362 c.c. e dell’art. 2125 c.c. circa l’illegittimità del recesso intimato in corso di rapporto di lavoro. La ricorrente sosteneva l’erroneità della sentenza in punto di riconosciuta validità del recesso unilaterale del patto di non concorrenza operato dalla società datrice in corso di rapporto di lavoro, attraverso un improprio richiamato principio di diritto, anche contrastante con una diversa previsione contrattuale specifica ovvero con la prevista forma scritta ex lege.

Il Tribunale Supremo ha accolto il ricorso della lavoratrice.

Per gli Ermellini, la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio di parte datoriale concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, anche in costanza di rapporto.

Invero, <<…l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 8715 del 2017), tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale (Cass. n. 3 del 2018)…>>.

In conclusione, i Giudici di piazza Cavour hanno evidenziato che l’apposizione del patto al contratto impedisce al dipendente di progettare il proprio futuro lavorativo, comprimendo la sua libertà; tale compressione, non può avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore, che verrebbe escluso laddove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo.


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