Revenge porn: un preoccupante fenomeno sociale

Revenge porn: un preoccupante fenomeno sociale

Nelle ultime settimane, chi è solito spendere parte del proprio tempo sul social network del momento, ossia TikTok, avrà certamente avuto modo di imbattersi nel nuovo trend – nato probabilmente negli Stati Uniti – in cui ragazze da tutto il mondo mostrano solidarietà alle vittime del cosiddetto “revenge porn”, sulle note della canzone “Paris” dei Chainsmokers (nello specifico, la strofa che recita “if we go down, then we go down together“).

Le giovani donne, mostrando il proprio fisico, affermano: “Se dovessero pubblicare le tue foto intime senza il tuo consenso e il tuo fisico è simile al mio, puoi dire che sono io”.

È evidente la rilevanza umana del video in questione, volto proprio a limitare quelle che sono le conseguenze, in termini di stigma sociale, per la vittima del reato in esame.

Il revenge porn, invero, rappresenta un fenomeno tanto odioso quanto diffuso, che riguarda donne di diversa età e che risulta, nella stragrande maggioranza dei casi, perpetrato da ex partner insoddisfatti per la fine di una relazione, ma non solo.

Come il termine stesso suggerisce, si tratta di una vera e propria “vendetta” attuata, sia online che offline, per mezzo della condivisione di immagini e video intimi di una persona, senza il suo consenso.

Oggi, in Italia, il revenge porn è un reato: la legge n. 69 del 19 luglio 2019, infatti, ha introdotto, all’art. 612 ter c.p., rubricato “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, detta nuova fattispecie criminosa. È evidente che l’intento della disciplina normativa sia quello di rafforzare la tutela, già approntata con altre norme del codice penale, della libertà di autodeterminazione sessuale degli individui.

La norma recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione di querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.

La disposizione legislativa si articola in diversi commi, che prevedono la punibilità di vari soggetti che concorrono nel reato, nonché tutta una serie di circostanze aggravanti, oltre che l’aspetto della procedibilità. Fulcro dell’intera disciplina è, chiaramente, l’assenza di consenso alla diffusione, invio o pubblicazione del materiale intimo da parte della vittima.

Così, incorrono nel delitto in esame non solo coloro che materialmente realizzano o sottraggono immagini e video intimi, al fine della cessione/diffusione/pubblicazione, ma altresì coloro i quali, avendo ricevuto o acquisito tale materiale, si impegnino a diffonderlo, mediante qualsiasi strumento. E, si badi bene, detti soggetti soggiacciono tutti alla medesima pena, circostanza questa non di poco conto, proprio a voler sottolineare il disvalore sociale e giuridico della condotta in esame.

Inoltre, sono previste tutta una serie di circostanze aggravanti, che riguardano sia la persona del reo (poiché la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge – anche separato – o da chi ha intrattenuto una relazione amorosa, di qualunque natura, con la vittima), che la persona offesa (sussiste, infatti, l’aggravante nel caso in cui la vittima sia un soggetto in condizione di inferiorità fisio-psichica o una donna in gravidanza), nonché le modalità di diffusione del materiale (ossia, aumento di pena se il reato è commesso attraverso mezzi informatici o telematici).

La pena prevista appare abbastanza severa, prevedendo la reclusione da 1 a 6 anni, oltre al pagamento di una multa, che può oscillare da euro 5.000 a 15.000.

L’intento del Legislatore è certamente nobile, poiché ha cercato di porre un freno ad una pratica ormai dilagante nella società attuale e dalle conseguenze gravissime in molteplici casi (si pensi al famoso caso di cronaca di Tiziana Cantone, morta suicida dopo la diffusione in rete di video hot che la ritraevano).

Tuttavia, a parere di chi scrive, detta disposizione normativa appare debole e contraddittoria – dunque giuridicamente insufficiente – sotto diversi aspetti.

In primis, per quanto concerne la procedibilità; considerando la serietà del tema, ci si sarebbe aspettati una procedibilità d’ufficio e non anche a querela della persona offesa, che spesso non ha la forza o il coraggio di denunciare il reato.

Altro aspetto che poco convince, è quello relativo all’elemento soggettivo. Sebbene, invero, come già detto, il primo e il secondo comma prevedano la medesima pena per chi materialmente realizza o sottrae il materiale e chi, successivamente, continua la diffusione, sussiste una differenza rilevante, tra i due soggetti, in termini di dolo.

Mentre nel primo comma, infatti, è previsto il dolo generico – ossia semplice coscienza e volontà nella verificazione dell’evento- nel secondo comma viene previsto il dolo specifico – che richiede, ai fini della punibilità della condotta, oltre alla coscienza e volontà dell’evento, un fine ulteriore.

Nel caso di specie, il fine ulteriore è rappresentato dalla volontà di recare nocumento alla vittima, mediante la diffusione/cessione/ pubblicazione del materiale intimo.

Orbene, non vi è chi non veda come l’introduzione di tale intento aggiuntivo rischi di rendere penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che si concretizzano nella diffusione del materiale sessualmente esplicito, compiuta, però, non con l’intenzione di arrecare un danno alla vittima, bensì per motivi diversi, magari ludici, che tuttavia procurano comunque un nocumento alla persona offesa.

Detti rilievi non appaiono di poco conto se si considera che il fenomeno in esame è particolarmente allarmante in Italia: secondo la Polizia delle Comunicazioni, ci sono due episodi di revenge porn al giorno; spesso detti episodi riguardano i più giovani, che non sono in grado di comprendere la gravità delle proprie azioni, che, seppur compiute per semplice goliardia, risultano in grado di rovinare la reputazione di un’altra persona.

Si auspica pertanto un ulteriore intervento normativo, che possa limare i profili un po’ più spigolosi della normativa, che rischiano di rendere vana la tutela auspicata. Ma ciò che bisognerebbe davvero approntare è una rieducazione culturale alla sessualità, poiché più che punire, sarebbe importante prevenire.


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Avv. Lilian Giuca

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