Ricettazione e beni immateriali

Ricettazione e beni immateriali

Tizio veniva condannato in primo grado per il reato p. e p. dall’art. 648 c.p. per avere ricevuto da persone non identificate il CD rom contenente copia della relazione ministeriale dell’ispettore, proveniente dal delitto di cui all’art. 326 c.p., e dallo stesso poi diffusa, mediante consegna alla stampa in un luogo imprecisato.

Avverso la sentenza propone appello, chiedendo l’assoluzione perché il fatto non sussiste.

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Occorre ricordare che la ricettazione de qua è stata ritenuta realizzata nel seguente fatto concreto: l’avere il M. ricevuto da persona non identificata la copia di un’ispezione ministeriale, proveniente dal delitto di cui all’art. 326 c.p., e di averla diffusa mediante consegna alla stampa in un luogo imprecisato. La relazione ispettiva era sicuramente coperta dal segreto, come da dichiarazione proveniente dalla Presidenza del C.S.M.

E’ necessario prima di tutto riflettere sulla natura e sui connotati essenziali dei delitti in discussione, ossia il delitto presupposto (art. 326 c.p., rivelazione e diffusione di segreti di ufficio) ed il delitto di ricettazione (art. 648 c.p.).

A ben vedere la fattispecie criminosa prevista dall’art. 648 c.p. è comprensiva di una multiforme serie di attività successive ed autonome, rispetto alla consumazione del delitto presupposto, finalizzate al conseguimento di un profitto (acquisto, ricezione, occultamento o qualunque forma di intervento nel fare acquistare il bene). Ne consegue che integra gli estremi del delitto di ricettazione colui che si intromette nella catena di possibili condotte traslative di un oggetto, successive ad un delitto già consumato, essendo consapevole dell’origine illecita del bene e determinato dal fine di procurare a sè o ad altri un profitto (per altro, il dolo specifico del reato di ricettazione può avere anche natura non patrimoniale e richiedere una generica finalità di profitto, una qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, che l’agente si proponga di conseguire.

Caratteristica intrinseca della ricettazione è, quindi, l’illecita circolazione di un bene di provenienza delittuosa, bene inteso come oggetto materiale, come cosa la cui semplice ricezione costituisce illecito (“acquista, riceve .. denaro o cose”..).

Il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.), per contro, reprime la condotta di colui che, nella specifica qualità, riveli indebitamente a terzi le conoscenze di cui abbia la disponibilità in ragione dell’assolvimento di compiti istituzionali, in relazione ai quali è configurabile la qualifica pubblicistica, necessaria ai fini della configurabilità del delitto stesso.

A ben vedere, quindi, il contenuto dell’obbligo la cui violazione è sanzionata dall’art. 326 c.p. consiste nella indebita cessione a terzi di conoscenze sottratte alla divulgazione.

La combinazione degli elementi strutturali dei due reati in esame, come finora illustrati, conduce a ritenere che l’oggetto del delitto presupposto (art. 326 c.p.) sia non già una cosa, ma un’informazione, con la conseguenza che il corpus materiale attraverso il quale si attua il trasferimento illecito dell’informazione è irrilevante (può essere una fotocopia, come un c.d. rom); con l’ulteriore conseguenza che la ricezione di una cosa reale contenente notizie di ufficio non è altro che la fase terminale della ricezione della notizia e non la ricezione di “altro da sè”, che potrebbe costituire l’oggetto della ricettazione. Anche se le informazioni erano contenute in un CD rom, sono comunque beni immateriali.

Nel delitto di rivelazione dei segreti di ufficio la condotta incriminata è legata a chi riceve la notizia e alla previsione della punizione nei confronti dell’autore della rivelazione; pertanto il mero recettore della notizia potrà, se del caso, rispondere in base all’ordinaria disciplina del concorso di persone nel reato, ma non potrà qualificarsi come ricettatore (cfr. Suprema Corte di Cassazione sezione II penale, sentenza 23 aprile – 5 settembre 2008, n. 34717).

La norma dell’art. 326 c.p. contiene in sé tutto il disvalore del fatto.


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