Rideterminazione in executivis della pena, tramonto del dogma dell’assolutezza del giudicato

Rideterminazione in executivis della pena, tramonto del dogma dell’assolutezza del giudicato

Commenti a margine della sent. Cass. Sez. Un. n. 42858 del 14 Ottobre 2015

1.Brevi cenni sul sistema delle fonti e il controllo di costituzionalità delle leggi.

Nell’ordinamento italiano il giudizio di costituzionalità sulle leggi e sugli atti aventi valore di legge è di tipo accentrato e demandato alla Corte Costituzionale.

La necessità del controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti ad essa equiparati, i.e. decreti legge e decreti legislativi, nasce dall’esigenza di presidiare i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, la divisione e l’equilibrio tra i poteri dello Stato ed è un predicato del sistema gerarchico delle fonti del diritto.

Occorre evidenziare, che la materia delle fonti interseca quella del riparto delle competenze tra Stato ed enti territoriali per come riformato a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione ad opera della l. cost. n. 3/2001. L’art. 117 Cost. elenca le materie che ricadono nella competenza legislativa esclusiva dello Stato e quelle concorrenti, infine e in via residuale ogni materia non espressamente rimessa alla competenza esclusiva statale, spetta alle Regioni.

L’ordinamento penale non solo rientra tra le materie di legislazione esclusiva statale, ma ex art. 25 Cost. è retto dal principio di legalità, che stando alla giurisprudenza maggioritaria, comporta la sussistenza di una riserva tendenzialmente assoluta di legge.

La disamina del sistema delle fonti necessariamente impone la riflessione sul rapporto e sull’ingerenza del diritto europeo nel nostro ordinamento, anche per come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e da quella di Lussemburgo.

L’Italia ha aderito all’Unione Europea ed è tenuta all’ottemperanza degli obblighi derivanti dal Trattato di Lisbona, nel quale sono stati trasfusi il Trattato sull’Unione Europea ed il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

Il nostro paese ha pure aderito alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, anche annoverata dall’art. 6 del TUE tra i principi generali dell’Unione.

In virtù del principio di primazia, non solo l’Italia e quindi tutti gli organi statali, sono tenuti al rispetto del diritto UE, ma in caso di contrasto, i giudici nazionali sono tenuti ad interpretare il diritto interno in senso conforme a quello europeo e laddove l’antinomia non possa essere risolta in via interpretativa, a disapplicare la norma interna e ad applicare quella unionale. E’ d’uopo rammentare che l’ingerenza del diritto europeo non può spingersi fino a sovvertire i principi fondamentali dell’ordinamento, cd. teoria dei controlimiti.

Discorso a parte merita la Cedu. Stando ai più recenti approdi giurisprudenziali, non è ancora intervenuta la cd. comunitarizzazione della Convenzione e la disposizione di cui all’art. 6 TUE ha solo valore programmatico, in vista della futura adesione dell’UE. Allora i rapporti tra la Cedu e l’ordinamento italiano vanno ricostruiti sulla base degli artt. 11 e 117 Cost. che impongono nell’esercizio della potestà legislativa, il rispetto anche degli obblighi internazionali. Le norme Cedu hanno, dunque, il rango di parametro interposto, di guisa che la risoluzione del contrasto tra la norma interna e quella convenzionale, laddove non possa essere risolto in via interpretativa, deve essere rimesso alla Corte Costituzionale.

L’esercizio della potestà legislativa, stando all’attuale panorama ordinamentale, incontra tutta una serie di limitazioni e vincoli sia sul versante del riparto delle competenze, sia in ragione della necessaria subordinazione alle fonti sovraordinate, siano esse di matrice costituzionale o sovranazionale.

La violazione di tali limiti può condurre alla declaratoria di incostituzionalità delle leggi e degli atti ad esse equiparati, che ai sensi dell’art. 136 Cost. cesseranno di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.

  1. Declaratoria di incostituzionalità e processo penale.

La declaratoria di incostituzionalità di una norma può avere una diversa incidenza sul processo penale a seconda che essa intervenga quando il giudizio è ancora pendente oppure dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

La prima ipotesi non pone particolari difficoltà.  La norma censurata è inefficace per cui se si tratta di norma incriminatrice e il fatto non rientra nell’ambito di applicazione di un’altra norma, già vigente al momento del fatto, il processo si concluderà con una sentenza di proscioglimento.

Diverso è a dirsi per i processi terminati con sentenza di condanna passata in giudicato.

Allorquando venga dichiarata incostituzionale una norma incriminatrice, l’art. 673 del c.p.p. consente  di chiedere la revoca della sentenza  di condanna o del decreto penale al giudice dell’esecuzione, il quale dovrà dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adottare i provvedimenti conseguenti.

  1. Le Sezioni Unite sulla dichiarazione di incostituzionalità di norma diversa dalla norma penale.

Il riferimento  di cui all’art. 673 del c.p.p. alla dichiarazione di incostituzionalità delle sole norme incriminatrici, ha dato adito al contrasto giurisprudenziale, ora risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione, circa l’applicabilità della stessa anche per l’ipotesi di dichiarazione di incostituzionalità di norme penali diverse da quelle incriminatrici. Si pensi a tal fine alla dichiarazione di incostituzionalità dell’aggravante della clandestinità di cui all’art. 61, co. 1 n. 11 bis del c.p. o alla declaratoria di incostituzionalità sul giudizio di prevalenza tra circostanze di cui all’art. 69 c.p..

Sulla questione si erano formati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.

Stando ad una prima tesi, non sarebbe applicabile in tali ipotesi il disposto dell’art. 673 c.p.p. sulla revoca che si riferisce alla dichiarazione di incostituzionalità delle sole norme incriminatrici, ma l’art. 30 della l. n. 87/1953, in particolare il comma 4 che dispone che quando è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali.

L’opposto orientamento escludeva, invece, ogni rilevanza in sede esecutiva della dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale diversa da quella incriminatrice, propugnava di conseguenza l’immutabilità della pena inflitta all’esito del giudizio di cognizione.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno inteso aderire al primo degli orientamenti in parola.

Alla base del ragionamento della Corte vi è in primo luogo la presa di coscienza del tendenziale abbandono del dogma dell’assolutezza del giudicato, retaggio della matrice assolutistica e oramai datata del potere dello Stato.

Nel sistema processualistico attuale, invece, il giudicato è concepito come un istituto a presidio del singolo, ecco allora che il dogma della sua immutabilità può cedere innanzi all’esigenza di tutelare interessi superiori e fondamentali della persona. D’altro canto, sono molteplici le ipotesi già contemplate legislativamente in cui è possibile incidere su una pronuncia già passata in giudicato. Basti pensare a tal fine alla revoca della sentenza, all’istituto della revisione, al ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, alla rescissione del giudicato, alla conversione della pena ex art. 2 co. 3 c.p., agli istituti premiali contemplati dall’ordinamento penitenziario.

Anche in via pretoria, la giurisprudenza ha ammesso che si potessero riconsiderare istanze già decise con sentenza passata in giudicato, ai fini dell’applicazione della continuazione o della sospensione condizionale della pena.

Ancora, il principio dell’assolutezza del giudicato è stato ritenuto recessivo rispetto all’esigenza di assicurare la legalità della pena anche nella fase esecutiva, a seguito della declaratoria di incostituzionalità degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del d.l. 272/2005 che avevano parificato il trattamento sanzionatorio delle droghe pesanti e di quelle leggere, provocando così la reviviscenza dell’assetto sanzionatorio precedente. Le Sezioni Unite della Cassazione con la sent. n. 33040/2015, si sono pronunciate nel senso della necessaria rimodulazione delle pene inflitte con sentenza passata in giudicato sulla base delle norme abrogate, anche laddove rientranti nei limiti edittali fissati dalla disciplina precedente, proprio perché una pena quantificata sulla base di presupposti normativi incostituzionali è illegale.

D’altro canto il sistema processualistico civile contempla le impugnazioni straordinarie avverso le sentenze passate in giudicato e addirittura la giurisprudenza ha ammesso la disapplicazione delle norme sull’intangibilità del giudicato, in particolare l’art. 2909 c.c., laddove sia necessario ai fini dell’ottemperanza ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (Cass. n.16966/2012; Cass. 12249/2010).

Anche rispetto al processo amministrativo è dato registrare la medesima tendenza. Nell’ottica di prestare una tutela piena ed effettiva ai diritti fondamentali della persona, anche a scapito di sovvertire il giudicato, l’Ad. Plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza  del 4 Marzo 2015 n. 2, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117, co. 1, 111 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1,  della Cedu, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Edu. Proprio perché l’obbligo di conformarsi alle sentenze di Strasburgo vale anche per le violazioni causate dalle sentenze passate in giudicato, la Corte Europea e il Consiglio d’Europa hanno individuato nella riapertura del processo il rimedio più idoneo per rimediare al giudicato iniquo.

Che poi è quello che è avvenuto in termini non dissimili anche nel diritto processuale penale. Con sent. n. 113/2011 la Corte Cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par.1, della Cedu, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Edu.

Posto dunque che il giudicato non può considerarsi ostativo alla rimodulazione della pena in executivis,  è d’uopo esaminare le altre ragioni che hanno condotto la Cassazione alla pronuncia in esame.

Le Sezioni Unite hanno posto l’accento sulla distinzione tra l’abrogazione o comunque la modifica normativa e la dichiarazione di incostituzionalità, al fine di giustificarne le diverse conseguenze sul piano applicativo. Il primo dei fenomeni in discorso è un fatto fisiologico dell’ordinamento, che si accompagna all’evoluzione storico-sociale del contesto nel quale le norme devono essere applicate ed è dettato da ragioni di opportunità, di politica criminale o da una nuova valutazione della rilevanza penale del fatto. L’incostituzionalità è invece un fenomeno patologico, che riguarda una norma che non avrebbe mai dovuto trovare ingresso nell’ordinamento. Ecco allora che la mera modifica normativa ex art. 2 co. 4 c.p. se più favorevole al reo, si applica retroattivamente ma con il limite del giudicato, mentre la dichiarazione di incostituzionalità non può incontrare una simile preclusione.

Laddove una norma penale, seppure non propriamente incriminatrice, incida sulla pena deve necessariamente sottostare al principio di legalità ex artt. 25 Cost. e 6 Cedu, che deve coprire tutto il procedimento penale, financo la fase esecutiva. Una pena modulata sulla base di una norma dichiarata incostituzionale è pertanto illegale.

Infine, la rimodulazione della pena a seguito della dichiarazione di incostituzionalità di una norma non incriminatrice, è imposta dal principio di uguaglianza e non discriminazione ex art. 3 Cost. e dai principi di personalità della responsabilità penale e rieducazione del reo di cui all’art. 27 Cost., considerato che una pena percepita come illegale, ingiusta e discriminatoria, non può per definizione assolvere alla funzione deterrente e rieducativa che le è propria.

La Corte si è posta pure il problema di rinvenire il fondamento normativo e lo strumento processuale che possa consentire la rideterminazione in executivis della pena, considerato che l’ipotesi in esame non rientra palesemente nell’ambito di applicazione della revoca ex 673 c.p.p. e neppure in quello della revisione ex art. 630 c.p.p..

L’art. 30 della l. 87/1953 impedisce l’applicazione delle norme dichiarate incostituzionali e di conseguenza invalida l’esecuzione di una pena parzialmente incostituzionale.  Il  giudice dell’esecuzione, allora, che ha oramai ampi poteri, non limitati alla sola cognizione delle questioni inerenti la validità e l’efficacia del titolo esecutivo, ben può anche incidere su di esso, esercitando penetranti poteri di accertamento e di valutazione e così rideterminare la pena .

Due i limiti naturali di tali prerogative. Necessariamente il giudice dell’esecuzione non può incidere su rapporti irrimediabilmente esauriti e l’esercizio dei suoi poteri non può comunque contraddire le valutazioni già perpetrate dal giudice della cognizione e risultanti dal testo della sentenza divenuta irrevocabile.

In conclusione dalla pronuncia in commento è dato desumere che laddove sia colpita da incostituzionalità una norma penale non incriminatrice, ma che comunque abbia inciso sulla determinazione della pena sfavorevolmente, per come irrogata a seguito di una sentenza penale irrevocabile e di cui non sia cessata l’esecuzione, al giudice dell’esecuzione è dato il potere di rideterminare il trattamento sanzionatorio. A tale assunto non osta, l’intervenuto giudicato, considerata la tendenza dell’ordinamento a ritenerne recessiva l’assolutezza, allorquando sia necessario al fine di presidiare preminenti diritti fondamentali e inviolabili della persona.


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Morena Campana

Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nell'A.A. 2012/2013 presso l'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma con tesi di Laurea su "PROFILI GIURIDICI E MEDICO LEGALI DELLA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA", si è diplomata nel 2015 presso la Scuola di Specializzazione per le professioni Legali dell'Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense nel 2016.

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