Riflessioni in materia di sicurezza alimentare. Risk regulation, Ogm e Novel Food.

Riflessioni in materia di sicurezza alimentare. Risk regulation, Ogm e Novel Food.

Il presente elaborato mira ad approfondire, seppur brevemente, l’attuale legislazione in materia di sicurezza e qualità dei prodotti agro-alimentari, sempre più orientata alla ricerca del difficile contemperamento della libera circolazione degli alimenti con la tutela della salute umana e animale.

Se, da un lato, i produttori alimentari sono sempre più spinti verso una maggiore attenzione alla cura dell’intero percorso dell’alimento, attraverso la c.d. “tracciabilità di filiera”, dall’altro accresce nei consumatori l’incertezza sulla qualità degli alimenti immessi nel commercio, dettata anche dal timore e dalla diffidenza nei confronti dei prodotti c.d. non convenzionali, risultato dello sviluppo tecnologico.

L’ormai diffusa convinzione di vivere in una “società del rischio” impone di esaminare l’approccio precauzionale adottato dal legislatore europeo con il Reg. (CE) n. 178/2002, nonché la controversa interazione tra scienza e diritto nell’analisi del rischio (c.d. risk regulation).

Scopo primario e tanto auspicato dagli esperti, infatti, è pervenire ad un giudizio di adeguatezza ed efficacia pratica di tali forme di tutela principalmente basate su un rimedio di tipo non successivo, bensì preventivo del danno; forme che trovano esacerbazione con particolare riferimento alla produzione e circolazione di organismi geneticamente modificati (OGM) e all’autorizzazione di nuovi alimenti (c.d. Novel Food).

Proprio sulle implicazioni di tali prodotti nel mercato globale sarebbe opportuno riflettere e argomentare, onde valutare l’ammissibilità di una regolamentazione unitaria e accentrata in grado di disciplinare le modalità di coesistenza fra tali prodotti e quelli tradizionali.

L’incertezza sulla sicurezza dei prodotti alimentari, generata dai progressi scientifici ed, in particolare,  dall’impiego delle più moderne tecniche dell’ingegneria genetica, ha sollecitato, negli ultimi anni, l’affermarsi di una giuridificazione del settore alimentare sempre più orientata verso un approccio etico e attento alla cura dell’intero percorso dell’alimento [1](dalla produzione alla conservazione, trasformazione e distribuzione, mediante la cd. “tracciabilità di filiera”) e al rispetto della qualità e della trasparenza nelle dinamiche commerciali (etichettatura e obblighi informativi).

La “sicurezza alimentare” viene intesa non più soltanto come strumento di risoluzione del problema della sperequazione alimentare, tanto presente nelle società più evolute, bensì di tutela dei consumatori dai rischi derivanti dall’immissione in commercio di prodotti alimentari difettosi o non sicuri o anche (a costi minori) di alimenti “non convenzionali”, sostitutivi di quelli tradizionali (poiché considerati “sostanzialmente equivalenti”), come gli OGM e i Novel Foods[2], di cui si tratterà meglio nel corso della trattazione.

I progressi tecno-scientifici fanno sì che il diritto, per definizione chiamato a regolare gli aspetti del vivere comune, si adegui costantemente alla scienza[3] e ciò accade, in particolare, nel contesto dell’Unione Europea, laddove le applicazioni scientifiche finiscono col condizionare il processo decisionale e politico, diretto alla regolazione di quei settori in cui il rischio assume un ruolo significativo.

Nel campo della sicurezza alimentare si assiste, da un lato, ad un’innovazione giuridica attraverso l’introduzione di moduli operativi e strumenti innovativi, prima sconosciuti agli ordinamenti nazionali ( si pensi, come  già anticipato, alla normativa in materia di organismi geneticamente modificati o a quella dei Novel Food); dall’altro, ad una tendenza protezionistica perennemente in bilico fra tutela contro i rischi alimentari e libera circolazione delle merci, la quale rappresenta uno dei pilastri del mercato unico, nonché il nucleo di sviluppo dell’Unione Europea.

Su tale ultimo aspetto si osserva, infatti, che gli alimenti sono considerati a tutti gli effetti beni suscettibili di valutazione economica riconducibili al concetto di “merce”[4] e sono, pertanto, sottoposti alle disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sulla libera circolazione delle merci (artt. 28-44) e sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri (artt. 114-118).

La prima legge quadro del diritto alimentare riferita espressamente alla food safety è costituita dal Reg. (CE) n. 178/2002 del Parlamento Europeo e del Consiglio che ha istituito l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare[5], la quale fissa le procedure relative alle precauzioni da adottare nella produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari., insieme ai regolamenti 04/852, 04/853 e 04/854 (quest’ultimo abrogato con effetto dal 14 dicembre 2019 dal regolamento (UE) 2017/625).

Detto Regolamento prevede l’obbligo, in capo ai produttori e ai distributori dei prodotti alimentari, di immettere sul mercato prodotti conformi a predeterminati standards di sicurezza e detta regole puntuali relative all’analisi del rischio (art.6), al principio di precauzione (art. 7), alla tutela degli interessi dei consumatori (art. 8), alla trasparenza nell’elaborazione della legislazione alimentare (art. 9) all’informazione del consumatore (art. 10), agli obblighi di sicurezza per gli operatori del settore (artt. 11-20) e alle procedure relative alle situazioni di emergenza alimentare (50-57).

Benché siano indiscutibili gli straordinari risultati conseguiti dal progresso tecnico-scientifico e i benefici apportati dalla scienza nel settore alimentare, si registra, tuttavia, un progressivo aumento delle circostanze in cui i dati scientifici risultano incerti, insufficienti o suscettibili di interpretazioni divergenti, tanto da affermarsi in molti la convinzione di vivere in una vera e propria “società del rischio”.[6]

La regolazione risk-based prende forma nella legislazione alimentare proprio con il citato Reg. (CE) n. 178/2002, il quale definisce il “rischio” come “funzione della probabilità e della gravità di un pericolo” (art. 3, n. 9), ossia di un “agente biologico chimico o fisico contenuto in un alimento o mangime o  condizione in cui un alimento o mangime si trova in grado di provocare un effetto nocivo sulla salute” (art. 3, n. 14).

Stando, dunque, a quanto lapidariamente affermato dall’art. 14.1 del Reg. “gli alimenti a rischio non possono essere immessi sul mercato”, risultando tali quando considerati dannosi per la salute o inadatti al consumo secondo “i probabili effetti immediati e/o a breve termine e/o a lungo termine dell’alimento sulla salute di una persona che lo consuma e su quella dei discendenti”, nonché secondo “i probabili effetti tossici o cumulativi di un elemento” (art. 14, par. 2, pp. 2 e 4, lett. a) e b)).

Ove i prodotti alimentari non risultino conformi ai requisiti di sicurezza di cui agli artt. 14 e 15, gli operatori del settore devono intervenire attraverso: il ritiro, richiamo o distruzione del prodotto non conforme, la collaborazione con le autorità competenti, nonché l’informazione dei consumatori.

La regolazione del rischio (c.d. risk regulation) avviene per fasi.

Innanzitutto, si procede ad una valutazione del rischio ( detta risk assessment), ossia ad una valutazione, mediante metodo scientifico, della probabilità e della gravità dell’effetto nocivo di un alimento o mangime sulla salute, derivante dalla presenza di un pericolo (art. 3, punto 11).

A tale controllo è deputata l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, a cui giungono le comunicazioni degli Stati membri o delle Autorità nazionali, dei consumatori, delle imprese alimentari, della comunità accademica e degli interessi alla sicurezza alimentare (art. 3, punto 13).[7]

Identificati gli eventuali rischi per la salute derivanti dall’assunzione di un alimento, sulla base dei dati raccolti si procede, quindi, all’adozione di misure volte ad evitare che si verifichino, appunto, conseguenze dannose. In altri termini, si passa alla fase politico-decisionale della gestione del rischio (detta risk management) affidata, a livello europeo, alla Commissione Europea e, a livello nazionale, alle autorità competenti; essa avviene secondo il principio di precauzione (art. 7) e l’analisi tra le varie alternative di intervento, compiendo, se necessario, adeguate scelte di prevenzione e di controllo (art. 3, punto 12).

In conclusione, si procede alla comunicazione del rischio (c.d. risk communication), ossia “lo scambio interattivo di informazioni e pareri riguardanti gli elementi di pericolo e i rischi, i fattori connessi al rischio e la percezione” di esso, tra tutti i soggetti responsabili della gestione, i consumatori, le imprese alimentari, la comunità scientifica e gli altri interessati.

Nonostante l’appena descritta risk regulation si atteggi, nel settore alimentare, a meccanismo di garanzia per un elevato livello di protezione della salute e di buon funzionamento del mercato interno, ove questa risultasse sorretta esclusivamente dall’imperio dell’analisi tecnico-scientifica, non sarebbe in grado di dare una risposta certa proprio in quei casi caratterizzati da incertezza scientifica.

A ciò si pone rimedio mediante il ricorso al principio di precauzione, quale strumento di regolazione della “scienza incerta” e criterio cui ispirarsi nell’adozione di politiche e decisioni normative in cui risulta necessario individuare un punto di compatibilità tra lo sviluppo tecnico-scientifico e la regolazione di rischi associati a tale sviluppo.

Tale principio, menzionato nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea limitatamente alla protezione ambientale[8], appare meglio descritto nel Libro Verde sui Principi Generali della Legislazione Alimentare nell’Unione Europea del 30 aprile 1997, secondo il quale le misure volte a garantire un elevato livello di tutela devono basarsi su una valutazione dei rischi e di tutti i fattori interessati, come gli aspetti tecnologici, i dati scientifici disponibili di ispezione, campionamento  e prova ma, ove ciò non sia possibile, è indispensabile ricorrere al principio di precauzione, inteso come insieme di misure cautelative da adottare senza dover attendere la disponibilità di tutte le conoscenze scientifiche del caso[9], come chiarito anche dalla Corte di Giustizia Europea.[10]

Tale principio, in una logica di tipo preventivo, legittima l’imposizione di determinate cautele in una fase anteriore a quella in cui devono essere disposti gli interventi preordinati alla tutela dal pericolo.

Si tratta, quindi, di un’anticipazione della soglia di intervento che giustifica una restrizione di alcuni diritti e libertà, come l’iniziativa economica privata, in ragione della peculiare natura e importanza di beni, quali la salute e l’ambiente, la cui compromissione non potrebbe essere adeguatamente rimediata attraverso un intervento successivo, tenuto conto di una dimensione spaziale e temporale ormai “liquida”[11] e caratterizzata da un’ incontrollabile e rapida diffusività di fonti ed eventi potenziali di danno.

Va chiarito, in ogni caso, che tale principio può essere invocato solo in presenza di rischi potenziali, non potendo, in alcun caso, tradursi in una presa di decisione arbitraria.

Quanto, poi, alle specifiche misure, esse possono assumere la forma sia di un agire che di un non agire e, in taluni casi, può comportare una clausola di inversione dell’onere della prova sul produttore, il fabbricante o l’importatore.

In altri termini, viene a configurarsi una vera e propria presunzione di nocività di un alimento sospetto, superabile solo ove, nel corso di un opportuno procedimento di autorizzazione all’immissione sul mercato, il produttore (o  il fabbricante o l’importatore) riesca a fornire la prova dell’innocuità del prodotto.

Ciò detto, si osserva che uno dei terreni di elezione del principio di precauzione è costituito dalla coltivazione e diffusione di prodotti transgenici o dei c.d. Novel Food , le cui regolamentazioni sembrano ben esemplificare le principali problematiche che emergono nello scenario della risk regulation  in campo agro-alimentare.

E’ evidente a tutti come la ricerca, negli anni, sia andata affermandosi sempre di più, attraverso la nascita e lo sviluppo di biotecnologie che, in senso lato, possono essere definite come un insieme di procedimenti tecnici atti a modificare la struttura e la funzione di organismi viventi per la produzione di materiali biologici utili nella medicina, nell’industria e nell’agricoltura.[12]

L’affermarsi di tali tecniche rappresenta, certamente, un’opportunità di miglioramento della qualità della vita dell’uomo, se si tiene conto delle molteplici applicazioni in campo biomedico, chimico e farmaceutico.

Non mancano, tuttavia, forti perplessità circa l’impiego di tali biotecnologie in campo agricolo e alimentare, le quali hanno alimentato un dibattito attorno alla necessità di intervenire nella gestione del rischio determinato dall’impiego di organismi transgenici, per i possibili effetti che potrebbero derivarne sull’ambiente e sulla salute dell’uomo.[13]

Con il termine “OGM” si fa riferimento alla produzione di organismi il cui patrimonio genetico ha subito delle modificazioni mediante un procedimento scientifico d’inserimento di uno o più geni di altra specie, dando origine ad altri organismi dalle caratteristiche nuove.

In campo agro-alimentare, il fine di tali tecniche è quello di produrre specie vegetali dotate di caratteristiche, quali resistenza ad ambienti ostili, inattaccabilità dai patogeni, capacità di adattamento, maggior apporto nutritivo ecc., che rendono il loro impiego particolarmente utile e redditizio.[14]

Secondo coloro che si ritengono pro-ogm, infatti, i geni trasferiti nella pianta permetterebbero ad essa di acquisire nuovi caratteri senza che questi interferiscano con tutte le altre caratteristiche ereditarie.[15]

Al contrario, gli oppositori sostengono che i rischi insiti nell’impiego di tali tecniche siano gravi e non limitabili o prevedibili, cosicché è da renderne inaccettabile l’utilizzo.

Fra i rischi, in particolare, vi sarebbero possibili allergie, resistenza ad antibiotici, riduzione della biodiversità e delle piante presenti in natura, senza tener conto, poi, dei pericoli al momento non prevedibili ma verificabili in futuro.

Ad oggi, invero, in Europa sono autorizzate tre colture transgeniche: la soia, resistente alla irrorazione con insetticidi; il mais dolce, in grado di produrre effetti antiparassitari; infine, la colza, in grado di resistere agli insetticidi e di non produrre polline.

Quanto all’Italia, invece, le uniche modifiche apportate riguardano la resistenza del melo alla ticchiolatura ed il trattamento della vite contro la muffa da peronospora; si tratta, tuttavia, di progetti di miglioramento iniziati qualche anno fa presso l’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura (ISOR) e poi definitivamente abbandonati.

Nel diritto internazionale i dati giuridici di riferimento sono contenuti principalmente negli accordi della WTO (World Trade Organization), il più importante dei quali, per quel che ci interessa, è l’ “Accordo sulle Misure Sanitarie e Fitosanitarie”, sottoscritto nell’ambito dell’Uruguay round (1986-1994).

Parimenti importante, in materia, è l’apporto dato dal Protocollo di Cartagena, firmato a Montreal, in Canada, il 29 gennaio 2000, il quale disciplina il trasporto ed il commercio dei prodotti OGM cercando di tutelare la biodiversità delle specie vegetali e della salute da potenziali rischi.

L’approvazione di tale documento, invero, è avvenuta all’esito di un confronto fra Stati Uniti, contrari all’imposizione di vincoli all’esportazione di prodotti transgenici in nome della liberalizzazione del commercio mondiale, ed Europa, sostenitrice del principio di precauzione.

Si è giunti, come compromesso, alla fissazione di significative regole di sicurezza, fra cui quella di indicare obbligatoriamente con la dizione “può contenere organismi geneticamente modificati” le spedizioni di cibi transgenici, nonché l’elencazione, grazie all’etichettatura, di tutte le caratteristiche e gli ingredienti di un alimento e del metodo con cui è stato ottenuto.

Il quadro normativo, tuttavia, è costituito prevalentemente da fonti euro-unitarie, fra le quali, si segnala, in particolare, la Direttiva 2001/18/CE (oggi modificata ad opera della Direttiva (UE) 2015/412 e attuata in Italia con il D. Lgs. 227 del 14 novembre 2016) la quale disciplina l’emissione deliberata nell’ambiente di OGM .

Con essa il legislatore ha previsto in modo scrupoloso gli adempimenti e le condizioni per emissione in natura e immissione nel commercio di tali prodotti con la possibilità, per gli Stati membri, di adottare un regime di moratoria diretto ad inibirne la circolazione nel proprio territorio, c.d. clausola di salvaguardia.

Ad essa è seguita un’alluvionale legislazione europea ispirata al principio di precauzione, fra cui i regolamenti 03/1829 e 03/1830, relativi rispettivamente alla tracciabilità e l’etichettatura  di OGM e alla tracciabilità di alimenti e mangimi ottenuti da essi, nonché la raccomandazione della Commissione 04/787 concernente i metodi di campionamento e rilevazione di tali prodotti.

Un altro settore foriero di numerosi interrogativi è quello dei nuovi alimenti, c.d. Novel Food.

La disciplina di riferimento è contenuta nel Regolamento (UE) 2015/2283 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che offre una definizione chiara di “nuovo alimento”, reputando tale “ qualunque alimento non utilizzato in misura significativa per il consumo umano nell’Unione prima del 15 maggio 1997”, compresi quelli generati da nuove fonti ( come ad es. l’olio ricco di acidi grassi omega-3 derivato dal krill) e quelli ottenuti mediante nuove tecnologie (es. la nanotecnologia), o, ancora, nuove sostanze (es. i fitosteroli).[16]

Fra essi soltanto quelli autorizzati ed inseriti in un apposito elenco, curato dalla Commissione UE, possono essere immessi sul mercato , nel rispetto delle condizioni d’uso e dei requisiti di etichettatura specificati nel citato regolamento (art. 6).

Alla luce del contesto tracciato e della produzione giuridica attualmente rilevante, emerge uno scenario complesso in cui la legislazione in materia agro-alimentare rivela numerosi profili di criticità e alcune problematiche di sicurezza legate alla circolazione ed al consumo di alimenti.

Il consumatore del ventunesimo secolo, spettatore di un crescente sviluppo tecnologico e dell’enorme potenziale economico sotteso, chiede di essere sempre più tutelato e di poter disporre degli strumenti conoscitivi dei prodotti che intende acquistare per la propria alimentazione.

Per tali ragioni, la disciplina della sicurezza alimentare riveste ormai un ruolo fondamentale nell’agenda politica dell’Unione Europea che , in qualità di regolatore,  negli ultimi decenni ha emanato un vasto corpo di normative che si inseriscono su un livello di fonti differenti (internazionali, europee, nazionali, regionali) e richiedono un’opera interpretativa di tipo sistematica, alla luce dei principi espressi dall’ordinamento giuridico.

Si è visto, poi, come sul piano giuridico, il binomio diritto-scienza trova la sua concretizzazione nell’attività di regolazione del rischio da parte degli apparati politico-governativi, finalizzata a garantire un certo livello di protezione rispetto ai continui rischi ingenerati all’interno della società.

Si è venuta, quindi, a delineare una normativa alimentare science-based, fortemente improntata sul dato scientifico come fondamento da cui prendere le mosse nell’analisi del rischio, nelle sue interconnesse fasi di valutazione e gestione.

Tuttavia, benché sia stato proprio il legislatore europeo a separare tali fasi per garantire l’indipendenza e la trasparenza delle implicazioni provenienti dalla comunità scientifica rispetto alle possibili influenze dello scenario politico, tale separazione manca di un effettivo riscontro nella pratica dei processi decisionali, per le strette interazioni che si vengono a creare fra i due fronti.

Tali profili problematici sembrerebbero, peraltro, esacerbati proprio dalle dinamiche operanti nel controverso ambito degli alimenti e mangimi geneticamente modificati e dei Novel Food, in cui si assiste, in molti Stati membri, ad un forte, se non totale, affidamento nei confronti dei pareri scientifici, con la conseguenza che le decisioni vengono assunte dai portavoci della scienza e non, invece, dagli organi politici.

Come avuto già modo di osservare, l’attuale produzione giuridica relativa a tali prodotti è frutto della stratificazione di numerosi interventi non sempre ordinati e coordinati fra loro, basati sull’adozione di due principali modelli di approccio: da un lato, il modello statunitense, forte del principio di equivalenza sostanziale, secondo il quale i citati prodotti non sarebbero poi così diversi da quelli convenzionali; dall’altro, quello europeo, di tipo precauzionale, basato su rigorosi procedimenti di autorizzazione preventiva per la loro immissione in commercio.

Proprio tali diversità di vedute e l’incessante evoluzione di una materia basata su una “scienza incerta”, rendono complicata la formulazione di una disciplina uniforme, sia sul piano internazionale che eurounitario.

Dinanzi al confronto fra valori costituzionalmente tutelati, e cioè da una parte la protezione dei diritti fondamentali e dell’altra la libertà di iniziativa economica (che implica, anche, la libertà di sviluppo delle biotecnologie), il bilanciamento dei valori si presenta complesso e contraddistinto dall’assenza di un dato certo da cui partire.

Il sistema precauzionale, tipicamente europeo, finisce con l’estremizzare forme di tutela principalmente basate su un rimedio non successivo, bensì preventivo del danno e che conducono ad un sistema attraverso cui l’incertezza scientifica diviene un peso che non grava sulla collettività, ma sul produttore che immette l’alimento sul mercato.

Si assiste, dunque, ad una rigida scelta politica del legislatore europeo il quale osserva con sospetto l’applicazione delle biotecnologie in agricoltura, preferendo non attuare scelte legislative e rimettendo ogni decisione agli Stati membri, anziché muovere nella direzione di una regolamentazione unitaria attraverso cui sfruttare le potenzialità di tali tecniche, suffragate auspicabilmente, da una proficua attività di ricerca scientifica.

Per contro, il mercato internazionale agro-alimentare vede ormai l’affacciarsi sempre più incisivo di nuovi ponderosi compratori, quali Cina e India, ed è caratterizzato fortemente dagli scambi anche di materie prime e alimenti finiti, prodotti da o con OGM in Stati terzi ove queste produzioni sono autorizzate.

Basti pensare che in Italia sussiste il divieto di coltivare prodotti OGM, ma ne è consentita l’importazione da altri Paesi, come  nel caso dei mangimi utilizzati negli allevamenti prodotti con mais e soia geneticamente trasformati importati da Stati Uniti, America Latina e Canada.

Non si può fare a meno di chiedersi quali possibili benefici l’ingegneria genetica sarebbe in grado di apportare nella risoluzione di attacchi patogeni alle colture, come nel caso della xylella fastidiosa nel Salento, ove si intervenisse con un’appropriata tecnica legislativa atta a regolamentare l’utilizzo delle biotecnologie e degli OGM nelle coltivazioni agricole.

 

 


[1] L. Petrelli, I regimi di qualità nel diritto alimentare dell’Unione Europea, Napoli, 2012.
[2] G. Pisciotta, Sicurezza alimentare, libera circolazione delle merci e regole di responsabilità, in Riv. Di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, vol. XVI, 2018.
[3] R. FELDMAN, The role of science in law, Oxford, Oxford University Press, 2009
[4] Il concetto di merce è stato elaborato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europa, secondo la quale devono considerarsi merci tutti quei prodotti pecuniariamente valutabili che possono costituire oggetto di negozi commerciali (sentenza 10.12.1968, C-7/68, Commissione contro Italia).
[5] Ai sensi del citato Regolamento, essa “offre consulenza scientifica e assistenza scientifica e tecnica per la normativa e le politiche della comunità in tutti i campi che hanno un’incidenza diretta o indiretta sulla sicurezza degli alimenti e dei mangimi”.
[6] U. Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Carrucci, Roma, 2000.
[7] M. Cocconi, Le garanzie del cittadino rispetto ai giudizi scientifici contenuti nei pareri dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, in Riv. Dir. Alimentare, 2016, p. 4 e ss.
[8] L’art. 191 del Trattato (ex art. 174 del TCE) recita: “ La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”.
[9] G. Nicolini, Il prodotto alimentare: sicurezza e tutela del consumatore, Cedam, padova, 2003, p.78-79.
[10] La Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 5 maggio 1998, C-180/96 Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord contro Commissione delle Comunità Europee, ha avuto modo di affermare che: “Quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone […], le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi”. E ancora: “Questa considerazione è corroborata dal Trattato CEE, secondo il quale la protezione della salute umana rientra fra gli obiettivi della politica della Comunità. Il Trattato dispone che questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondata segnatamente sui principi di precauzione e dell’azione preventiva e che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitarie”.
[11] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 2007.
[12] Come risulta dal Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 30 novembre 2001, “Considerazioni etiche e giuridiche sull’impiego delle biotecnologie”.
[13] Sul punto, L.Costato, Le biotecnologie, il diritto e la paura, in Riv. Dir. Agr., 2007, pp.95-107.
[14] Fra questi si annoverano, a titolo meramente esemplificativo: il pomodoro, creato mediante il prelievo di un gene anticongelante di un pesce ed il suo inserimento nel codice genetico del pomodoro classico, onde proteggerlo dalle situazioni climatiche di gelo; il granturco, al quale è stato iniettato il gene delle lucciole come marcatore genetico; le patate, con acquisizione di alcuni geni del pollo, per ottenere un aumento della resistenza alle malattie; e ancora, la pianta di tabacco, in cui sono stati inseriti i geni del criceto per una maggiore sintesi di steroli.
[15] F. Sala, Gli OGM sono davvero pericolosi?, Edizioni Laterza, 2005, pp. 28-30.
[16] Non sono ricompresi nella definizione di “nuovo alimento”: a) gli alimenti geneticamente modificati, che rientrano nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) n. 1829/2003; b) gli alimenti quando e nella misura in cui sono usati come: i) enzimi alimentari, rientranti nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) n. 1332/2008; ii) additivi alimentari (rientranti nell’ambito di applicazione del Regolamento (CE) n. 1334/2008; iv)i solventi da estrazione usati o destinati alla preparazione di prodotti o ingredienti alimentari, rientranti nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/32/CE.
Sono, inoltre, esclusi dalla definizione data anche quei alimenti che vantano una storia di utilizzo sicuro nell’Unione Europea e sono costituiti, isolati o prodotti da una pianta o da una varietà della stessa ottenuta mediante le tradizionali tecniche di produzione utilizzate nell’Unione Europea prima del 15 maggio 1997 o, ancora, pratiche non tradizionali non utilizzate prima di tale data, ma che non comportano cambiamenti significativi nella composizione o nella struttura dell’alimento, tali da condizionarne il valore nutritivo.

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Avv. Daniela Mazzotta

Avvocatessa presso il Foro di Lecce, ha conseguito, con il massimo dei voti, la specializzazione presso la SSPL "Vittorio Aymone "di Lecce ed un Master di II livello a Roma.

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