Riflessioni in tema di abuso d’ufficio

Riflessioni in tema di abuso d’ufficio

Sommario: 1. La novità normativa sull’abuso di ufficio: il D.L. n. 76/2020 e l’obiettivo riformista dell’esecutivo – 2. La disciplina previgente: cenni sulla struttura della norma incriminatrice – 2.1. La controversa interpretazione della locuzione “violazione di norme di legge e di regolamento” ex art. 323 cod. pen. – 3. Successione di norme penali nel tempo: cui prodest?

 

1. La novità normativa in tema di abuso d’ufficio: il D.L. n. 76/2020 e l’obiettivo riformista dell’esecutivo

Con il Decreto-Legge 16 Luglio 2020, n. 76 recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, c.d. “Decreto Semplificazioni”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 16 Luglio 2020 (Suppl. Ordinario n. 24), la fattispecie di reato di cui all’art. 323 c.p., rubricata “abuso d’ufficio”, subisce un importante “revirement” normativo. L’art. 23 del citato decreto legge, intervenendo in tal senso, statuisce: “all’art. 323, primo comma, del codice penale, le parole <<di norme di legge o di regolamento>> sono sostituite dalle seguenti << di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità>>”.

Così, dunque, l’attuale formulazione della suddetta norma: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.”

Secondo la relazione illustrativa presentata in assemblea legislativa, la finalità dell’intervento è quella di “definire in maniera più compiuta la condotta rilevante ai fini del reato di abuso di ufficio” e, ancora, si legge nel dossier, “vincolando l’abuso penalmente rilevante alla violazione di specifiche ed espresse regole di condotta la riforma mira dunque a ridurre l’area applicativa dell’incriminazione, escludendo che la violazione di principi generali possa integrare il delitto. Inoltre non integrerà l’abuso di ufficio penalmente rilevante la violazione di una specifica ed espressa regola di condotta, caratterizzata però da margini di discrezionalità[1]”.

Ricondotta nei predetti termini, la novella normativa sembrerebbe portare con sé una propulsione nella direzione dell’ossequio dei corollari di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.

Intervenire in chiave penale per arginare il, fin troppo, diffuso fenomeno della (presunta) responsabilità del pubblico dipendente; responsabilità poi raramente accertata “oltre ogni ragionevole dubbio”, per rievocare la formula di cui all’art. 533 c.p.p. Questa, in sostanza, la vera ragione sottesa all’intervento riformatore e i numeri, impietosi, ne confermano, quanto meno, il retroterra fattuale, che vanta molte denunce e indagini farraginose e impervie: “[…] secondo l’Istat, nel 2017 sono stati oltre 6500 i procedimenti aperti dalle procure per abuso di ufficio e 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile. Tendenza confermata dai dati del Ministero delle Giustizia: dei 7133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici GIP e GUP, 6142 sono stati archiviati, di cui 373 per prescrizione[2]”.

La valutazione circa la bontà della novella di cui si discorre, tuttavia, implica un necessario confronto con la portata precettiva della lettera (ormai previgente) della norma di cui all’art. 323 c.p.

 2. La disciplina previgente: cenni sulla struttura della norma incriminatrice

La formulazione dell’art. 323 cod. pen. ante D.L. 76/2020 delineava una fattispecie di reato proprio di evento, posto a tutela di beni giuridici ben determinati: da una parte, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, dall’altra, qualora la condotta fosse indirizzata in tale direzione, l’interesse negativo del consociato, persona offesa dal reato, a non essere leso nei suoi diritti per il tramite del comportamento del pubblico ufficiale-incaricato di pubblico servizio. Si trattava, ma lo è ancora nella attuale riproposizione, di un reato plurioffensivo. La novella normativa del 2020, infatti, incide unicamente, come brevemente anticipato in apertura, sull’elemento oggettivo del reato, rectius, sulla condotta dell’agente stigmatizzata dal legislatore.

Tale condotta poteva rilevare precedentemente tanto nella forma commissiva, nell’ambito dello svolgimento delle proprie funzioni o del servizio, mediante violazione delle norme di legge o di regolamento, quanto in quella omissiva in caso di mancata astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ovvero negli altri casi prescritti. In entrambe le prospettate ipotesi si richiede(va), quale ulteriore elemento tipico, la produzione di un vantaggio ingiusto per sé o per altri o, in alternativa, un danno ingiusto nei confronti di terzi.

La struttura così delineata, arricchita dell’elemento soggettivo del dolo intenzionale, quale rappresentazione e volontà di conseguire l’obiettivo primario dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o di procurare un danno, era frutto della previsione normativa di cui alla legge n. 234 del 1997, che ebbe il merito di trasformare l’abuso di ufficio da reato di pericolo a dolo specifico, e consumazione anticipata, a reato di evento.

Ad ogni modo, l’elemento strutturale della condotta merita, per le ragioni in precedenza esposte, una disamina più rigorosa.

2.1. La controversa interpretazione della locuzione “ violazione di norme di legge e di regolamento” ex art. 323 c.p.

La riforma della fattispecie di abuso d’ufficio risalente al ’97 portò in dote un tenore letterale restrittivo, quanto meno rispetto alla norma fino ad allora vigente, delineando in senso più compiuto la condotta penalmente rilevante del soggetto attivo del reato. Già allora l’obiettivo fu quello di diminuire l’inerzia degli esercenti i pubblici uffici, timorosi di una eccessiva criminalizzazione del proprio operato, allontanando la lente d’ingrandimento del giudice penale dall’esercizio dell’attività amministrativa.

Proprio in tale ottica, si registrarono posizioni discordanti in ordine alla possibilità di ricomprendere nell’alveo della violazione di legge il c.d. eccesso di potere, mutuando tale nozione dal vizio del provvedimento amministrativo, ex art. 21 octies. l. 241 del 1990.  In senso negativo, sulla scorta della ratio ispiratrice della riforma, si era posta parte della giurisprudenza di legittimità, in virtù della quale l’intervento normativo attuato in forza della l. 234/97 aveva determinato l’espunzione dall’area del penalmente rilevante di quelle fattispecie concrete di abuso di poteri o di funzioni “[…] non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione. Non è quindi più consentito al giudice penale di entrare nell’ambito della discrezionalità amministrativa, che il legislatore ha ritenuto anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato[3]”.

Detto orientamento, ancorchè conforme allo spirito riformatore e alla lettera della norma di cui all’art. 323 c.p., sottovalutava l’intrinseca portata cogente delle norme di legge attributive di un dato potere. I timori che il vaglio del giudice penale, e prima ancora del PM, possano incidere su profili attinenti alla discrezionalità dell’azione amministrativa, impongono la riconduzione della problematica ai binari sicuri del diritto amministrativo, in cui è possibile, grazie agli insegnamenti della migliore dottrina, sciogliere il nodo gordiano relativo all’ammissibilità di un sindacato in sede giurisdizionale. Senza presunzione di esaustività, in questa sede ci si limita a ricordare la più risalente nozione di eccesso di potere quale “vizio dei motivi”, venendo in rilievo l’assenza di imparzialità nell’attività amministrativa, che si esplica in difformità ad elementi determinanti del provvedimento, ovvero i c.d. interessi pubblici da soddisfare[4]. Ancora, secondo altra peculiare qualificazione, l’eccesso di potere sarebbe figlio dell’assenza di un “necessario nesso di consequenzialità tra presupposti di fatto e di diritto e conclusioni ricavatene dall’Amministrazione[5]”.

In ogni caso, sostrato comune alle impostazioni poc’anzi menzionate è l’identificazione dell’eccesso di potere quale vizio di legittimità, species del più ampio genus “violazione di legge”. Al giudice amministrativo, dunque, grazie ad una faticosa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, fu riconosciuto il potere di sindacare la legittimità del provvedimento amministrativo discrezionale anche sotto il profilo dell’eccesso di potere. Dato che prescinde da qualsivoglia vaglio sull’opportunità della decisione amministrativa; ciò in quanto l’eccesso di potere si esplica come non corretto esercizio del potere discrezionale. L’ambito di indagine in detti casi può spingersi tanto nella direzione della conformità dell’atto alle disposizioni di legge o di regolamento, sulla base di un controllo formale di legalità, quanto in quella del controllo sostanziale di legittimità, imponendosi una corrispondenza dell’atto a criteri o principi generali.

Se allora si ammette il sindacato del GA, in sede di legittimità, sul provvedimento amministrativo discrezionale, sotto il profilo dell’eccesso di potere, a maggior ragione deve riconoscersi che un giudice penale prenda cognizione dell’attività amministrativa, ancorchè discrezionale, per l’accertamento dei fatti di reato; ciò nel pieno rispetto del principio di legalità e di separazione dei poteri.

La condotta del pubblico ufficiale, che agisca nell’esercizio di pubblici poteri attribuiti dal legislatore, dunque, anche in assenza di formali, e palesi, violazioni di legge, ben potrebbe in concreto integrare una delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere.

Detta circostanza si verifica, per quanto in questa sede può interessare, allorquando il soggetto attivo persegua una finalità diversa, e non consentita, da quella pubblica prescritta dall’impianto normativo di riferimento; si parla in tal senso di sviamento di potere. L’elemento da ultimo citato, unitamente all’accertamento del profilo psicologico dell’intenzionalità dell’ingiusto vantaggio patrimoniale conseguito o del danno arrecato, potrà far concludere in ordine alla responsabilità penale del pubblico ufficiale.

È in questo solco che si colloca la giurisprudenza di legittimità maggioritaria, avendo essa precisato che il reato di abuso d’ufficio è configurabile “[…] non solo allorchè la condotta tenuta dall’agente sia in contrasto con il significato letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento, ma anche quando essa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno svolgimento della funzione o del servizio che oltrepassa ogni possibile opzione attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine[6]”.

Anche la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha chiosato sul punto : “[…] Per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità […], si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito[7]”.

3. Successione di norme penali nel tempo: cui prodest?

La novella normativa, dunque, implica un notevole ridimensionamento dell’ambito applicativo della fattispecie di reato in esame. A fronte, infatti, di una pressochè immutata struttura del reato (violazione attiva o per omissione, ingiustizia del vantaggio o del danno, rapporto causale tra condotta ed evento, dolo intenzionale), la fissazione, sul piano materiale, di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, produce un effetto dichiaratamente improntato al favor rei (con conseguente applicazione dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo); ciò per una serie di ragioni. In primo luogo, viene meno la possibilità che la condotta penalmente rilevante sia effetto della violazione di fonti di rango secondario (regolamenti), limitando, di fatto, in modo cospicuo il ventaglio di norme dal carattere precettivo per i pubblici ufficiali-incaricati di pubblico servizio. Con l’introduzione della citata lettera (“specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”), in luogo della più generica “norme di legge..”, sembrerebbe chiedersi allo stesso legislatore uno sforzo al di là delle proprie possibilità.

I caratteri della norma di legge (e in una certa misura della norma di un regolamento), infatti, sono quelli tipici della generalità ed astrattezza; elementi, in buona sostanza, che permettono l’applicazione della disciplina in essa contenuta nei confronti di una moltitudine di destinatari, in modo potenzialmente illimitato e ripetuto nel tempo.

La necessità dell’introduzione, dunque, di norme di legge (o di atti aventi forza di legge) dal contenuto analiticamente dettagliato, dall’immediata precettività, e, in ultimo, privo di discrezionalità, sembrerebbe di difficile realizzazione, a patto di non decidere scientemente di utilizzare le fonti di rango primario alla stregua di una circolare amministrativa che indichi ai dipendenti le regole di condotta da rispettare.

Sembra doveroso, inoltre, evidenziare come incida inevitabilmente sullo stesso piano applicativo della fattispecie di reato l’impossibilità, attesa l’attuale punibilità dell’abuso d’ufficio solo in caso di violazione di talune specifiche regole di condotta, di una interpretazione estensiva della nozione di “violazione di norme di legge”, alla luce del menzionato orientamento di legittimità. Si ribadisce, infatti, che tale interpretazione era giustificata dalla necessità di ricondurre a ordinari canoni di legalità l’operato dei pubblici ufficiali. Operazione, quest’ultima, che, a parere di chi scrive, dovrebbe ancora ritenersi ammissibile per evitare di “esaurire” in concreto il panorama di azione della norma incriminatrice di cui all’art. 323 c.p., già, peraltro, connotata da carattere di residualità, attesa la clausola di riserva posta nel primo periodo (“salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”). In quest’ottica, non ci si può esimere dal guardare con diffidenza all’intervento normativo in esame, stante la non attuabilità di un allargamento delle “maglie” della responsabilità penale frutto di una lettura costituzionalmente orientata, ancorchè mediata, della fattispecie; lettura che, si è già detto in tal senso, non può essere intesa nel senso di un’intrusione del giudice penale nell’ambito delle scelte di merito. A ben vedere, infatti, la natura discrezionale che connota l’esercizio di taluni pubblici poteri non permette, comunque, lo “sviamento” rispetto al perseguimento del pubblico interesse, che rappresenta oltremodo la causa del potere esercitato. Allorchè il soggetto rivestente il pubblico ufficio, nell’adozione di atti e provvedimenti formalmente leciti, persegua primariamente un fine egoistico e, raggiungendolo, realizzi di fatto lo sviamento poc’anzi citato, l’unico ragionevole presidio a tutela di beni di valenza costituzionale (imparzialità della P.A e buon andamento) sarebbe costituito dal riconoscimento della rilevanza penale di tale condotta; ciò in accordo all’approccio ermeneutico di cui sopra.

Al potere esecutivo, allora, la difficile scelta, nell’alveo del legittimo potere di iniziativa legislativa, di contemperare l’esigenza di allontanare la sinistra ombra della magistratura inquirente dal pubblico operato con quella dell’accertamento dei fatti di reato di chi operi esercitando i pubblici poteri per scopi personali, e ciò indipendentemente dal mancato rispetto di regole predeterminate con lo strumento legislativo. Il tenore letterale dell’attuale di norma di cui all’art. 323 citato sembra tradire l’intenzione dell’esecutivo di sacrificare sull’altare della semplificazione e delle mera efficienza della macchina amministrativa i principi della nostra carta costituzionale, tra cui quello di cui all’art. 98, che ricorda come i pubblici dipendenti siano al servizio esclusivo della nazione, e dell’art. 97.

Alla luce di quanto osservato, si materializza, scomodo e inesorabile, l’interrogativo: è giusto affidare, per l’ennesima volta, il ruolo di risolutore frettoloso al legislatore penale, con le grottesche conseguenza di cui si è detto? A parere dello scrivente, l’annoso problema dei profili di responsabilità dei pubblici dipendenti e, nello specifico, degli esercenti i pubblici uffici, è figlio di uno spinoso groviglio normativo.  Auspicabile sarebbe, dunque, un organico, e trasversale, intervento in grado di enucleare, in modo più chiaro, funzioni, competenze e relazioni di potere, senza, tuttavia, cadere nel tranello di una dispendiosa e, probabilmente, inutile normazione di dettaglio, e senza, oltremodo, intaccare l’operatività di norme incriminatrici poste a tutela dell’imparzialità e trasparenza della pubblica attività; a tutela, insomma, della collettività. Un intervento lungimirante e in linea con i tempi.

 

 


[1] Legislatura 18° A.S. 1883- dossier n. 275/2020, Senato.it
[2] Cherchi Antonello, Molti processi, poche condanne. Ma l’abuso d’ufficio frena la Pa., in “Il Sole 24 ore”, 15 Giugno 2020.
[3] Cass., sez. VI, 10 novembre 1997- 29 gennaio 1998, n.1163.
[4] Giannini, Il potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, Milano, 1939, 185.
[5] Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1968, 414.
[6] Cass., sez. VI, 14 gennaio 2002, n. 1229.
[7] Sez. Un., 29 settembre 2011- 10 gennaio 2012, n. 155.

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Francesco Di Ponzio

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