Risarcibilità del danno da omessa diagnosi della malformazione del feto

Risarcibilità del danno da omessa diagnosi della malformazione del feto

Cass., civ., sez. III, ord. 16 marzo 2021, n. 7385

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il caso di specie – 3. Profili problematici – 4. La decisione della Corte di Cassazione

 

1. Introduzione

Una questione particolarmente problematica concerne i danni derivanti dalla mancata diagnosi di malformazione ed altre anomalie del feto da parte del medico specialista al quale la gestante si sia rivolta per ottenere una diagnosi in ordine all’andamento della gravidanza o per un controllo.

In particolare, l’errore del medico che si sia manifestato nell’ambito di una consulenza genetica di una diagnosi prenatale, consistente nel non aver riscontrato o comunicato alla donna la sussistenza di patologie del concepito, si riverbera sull’impossibilità della gestante di proseguire o porre fine alla gravidanza.

2. Il caso di specie

Nel caso sottoposto alla Corte di Cassazione sia il Tribunale di Milano con la sent. 3120/2016, sia la Corte di Appello con la pronuncia n. 4108/2018, respingevano la richiesta di due genitori volti ad ottenere la condanna dell’Azienda sanitaria al pagamento dei danni derivanti dalla nascita della figlia con grave patologia cromosomica accompagnata da deficit immunologico, non diagnosticata dal nosocomio: danni rilevanti tanto sotto il profilo della violazione del diritto all’autodeterminazione quanto sotto quello del danno patito dalla neonata per il ritardo con cui erano state diagnosticate le patologie da cui era affetta.

In entrambi i casi i Giudici di merito escludevano che la gestante avesse mai manifestato la volontà di ricorrere all’interruzione della gravidanza, ove edotta della ricorrenza delle gravi patologie da cui risultava affetto il feto e negavano che l’omessa informazione in ordine alla coartazione aortica e la conseguente omessa diagnosi prenatale del difetto congenito della bambina avessero cagionato il danno neurologico dalla medesima patito, in considerazione dell’assenza del nesso causale tra la malformazione cardiaca e il ritardo psicomotorio e la intempestività dell’intervento chirurgico.

La Corte d’Appello era giunta a tali conclusioni, pur rilevando che, come denunciato dagli appellanti il Tribunale di Milano, per escludere la lesione del diritto all’autodeterminazione procreativa, non aveva preso in considerazione l’omessa diagnosi della patologica cromosomica.

Nello specifico, osservava che spettava alla gestante provare che, ricorrendone le condizioni di legge, se fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale, avrebbe fatto ricorso all’interruzione della gravidanza; mentre nel caso di specie, aderendo ad un orientamento giurisprudenziale di segno opposto, poi superato dalla decisione a Sezioni Unite n. 25767/2015, la richiesta risarcitoria era basata unicamente sull’impossibilità di interrompere la gravidanza, perché i sanitari, che pure avrebbero potuto diagnosticare la patologia cromosomica e quella cardiaca, omisero di farlo nonché sulla supposizione che rispondesse ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove tempestivamente ed adeguatamente informata, avrebbe preferito non portare avanti la gravidanza.

La gestante non aveva prodotto alcun elemento concreto e più specifico indicativo di quale sarebbe stata la sua volontà.

Ad esempio, non aveva addotto alcuna richiesta di consulto medico per conoscere le condizioni di salute del feto ma si era limitata ad insistere sulla situazione di difficoltà e stress emotivo, determinato all’impreparazione nei confronti del trauma consistente nella nascita della bambina affetta da così gravi patologie, causa dell’insorgenza di gravi disturbi psichici.

La Corte d’Appello escludeva anche che la tardività della diagnosi avesse determinato l’insorgere di maggiori danni rispetto a quelli riconducibili alla malformazione cardiaca in sé, perché, come rilevato dal CTU, la durata dell’invalidità temporanea conseguente alle cure ricevute, era direttamente riconducibile alle conseguenze degli interventi necessari per correggere la malformazione.

Tale periodo sarebbe stato lo stesso anche se la diagnosi fosse stata corretta e tempestiva.

La Corte inoltre negava anche la ricorrenza del diritto della figlia, ad essere risarcita del danno derivante dalla propria nascita non desiderata in quanto affetta da patologia cromosomica non comunicata alla madre che così non aveva potuto esercitare il diritto ad abortire, perché tale asserito diritto, quello di non nascere se non sani, non trova accoglimento nel nostro sistema ordinamentale.

3. Profili problematici

Nel caso di specie, occorre valutare se sia rinvenibile un nesso di causalità tra la condotta imperita del ginecologo e la nascita del figlio malformato.

In particolare, occorre richiamare il disposto di cui all’art. 1223 c.c., secondo cui sono risarcibili solo i danni che si presentino quali conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento.

Ed allora, l’interrogativo all’esame dell’interprete concerne la riconducibilità, sotto il profilo causale, di una nascita indesiderata al comportamento colposo del medico.

I dubbi si appuntano, innanzitutto, sull’impossibilità di svolgere ex post un’indagine inerente ad una scelta, nei fatti mai compiuta, della gestante in ordine alla conduzione a termine della gravidanza in presenza di anomalie del feto.

Al fine di imputare al contegno del sanitario la nascita di un figlio con malformazioni occorre infatti escludere, con una probabilità superiore al cinquanta percento (secondo la regola del più probabile che non, avallata da Cass., civ., Sez., Un., 11 gennaio 2008, n. 581) che la donna, ove informata in modo puntuale sulle malformazioni del nascituro, avrebbe deciso di abortire.

Ne emerge l’assoluta inesigibilità di una prova ipotetica di un fatto psichico, per di più consistente in una scelta quale quella abortiva, nella quale rilevano non solo le proprie idee ma anche le peculiarità della fattispecie concreta.

Occorre poi interrogarsi sulla possibilità di inquadrare i danni che la nascita cagioni alla madre tra le conseguenze immediate e dirette dell’inadempimento, essendo necessario vagliare la consistenza eziologica della condotta del sanitario, e cioè se sia causa dell’evento lesivo o mera occasione dello stesso.

Al riguardo, la tesi tradizionale ritiene che non possa ravvisarsi la sussistenza di un nesso di causalità, i quanto i nocumenti non patrimoniali sofferti dalla coppia in conseguenza della nascita di un figlio malato non sono riconducibili in via immediata al contegno imperito del medico curante, bensì alla scelta della coppia di avere un figlio ed al successivo parto.

Si afferma, inoltre, che il diritto di interrompere la gravidanza è subordinato alla ricorrenza di determinati presupposti, variabili in ragione della circostanza che il medesimo venga esercitato prima o dopo il decorso di novanta giorni dalla nascita ma comunque attinenti al serio pericolo di compromissione dell’integrità biopsichica della donna; trattasi di condizioni difficilmente verificabili ex post, ove la scelta di abortire non sia stata effettuata.

A tali considerazioni la dottrina prevalente, insieme con l’indirizzo giurisprudenziale più recente, muovono delle obiezioni.

Si contesta, innanzitutto, la mancanza di un nesso di causalità tra la mancata diagnosi di malformazione del concepito e la nascita del bambino malformato. Ed infatti, la norma di cui all’art. 1223 c.c. deve essere intesa non in senso letterale, ma sistematico, rientrando per tal via nell’ambito applicativo della disposizione non solo i casi di danni derivanti in via immediata e diretta dall’inadempimento ma anche quelli che siano allo stesso riconducibili alla stregua dell’id quod plerumque accidit, secondo un criterio di regolarità causale.

È conforme ad un criterio di normalità che una donna, sapendo che il nascituro sia affetto da malformazioni o altre anomali, decida di non proseguire la gravidanza, evitando di procurare sofferenze a sé ed all’intero nucleo familiare, compreso il soggetto che in mancanza di una scelta abortiva si appresta a vivere un’esistenza difficile e piena di sofferenze.

È dunque legittimo per il giudice assumere come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni al feto (Cass., civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488; Cass., civ., sez. III, 10 maggio 2002 n. 6735; Cass., civ., sez. III, 10 maggio 2002, n. 6735).

L’esegesi evolutiva, muovendo dalla considerazione che l’interesse tutelato dalla normativa sull’aborto, in via principale, è il diritto ad una procreazione responsabile, assume che il danno risiede nella lesione del diritto della gestante di autodeterminarsi in modo libero e consapevole in ordine alla prosecuzione o all’interruzione della gravidanza, indipendentemente da quale sarebbe stato l’esito di tale scelta ove il medico avesse effettuato una diagnosi corretta.

Ne consegue che già la preclusione della possibilità di scelta importa un vulnus ad un diritto inviolabile, ovverosia la libertà personale, con peculiare riferimento al diritto alla programmazione della propria vita individuale e familiare.

L’orientamento più recente della Cassazione, inoltre, ritiene risarcibile anche il danno alla salute psichica e al patrimonio della coppia, e comprende anche un danno non patrimoniale che comporta, per entrambi i coniugi, un peggioramento complessivo e significativo della vita di ogni giorno (Cass., civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13).

Merita peraltro segnalare che un indirizzo minoritario ritiene che, in ipotesi di omessa informazione in ordine alla sussistenza di anomalie del concepito, non è possibile riscontrare la lesione del diritto di autodeterminazione della donna, in quanto non si può stabilire con probabilità vicina alla certezza se la medesima, in presenza di una conoscenza puntuale della realtà materiale, avrebbe optato per l’interruzione della gravidanza, ma reputa ristorabile, se richiesta con apposita domanda, la chance di conoscenza della malformazione del feto (Trib. Napoli, 14 luglio 2004).

Ciò che necessita invece di una prova puntuale è la sussistenza di un’eziologia giuridica tra la lesione del diritto all’autodeterminazione della donna ed i danni che ne siano conseguiti, potendo qui emergere, in sede di prova contraria, la possibilità che la gestante, per convinzioni personali, di natura etica o religiosa, non avrebbe comunque impedito, con l’aborto, la nascita del bambino affetto da gravi malattie (Trib. Roma, 22 febbraio 2004)

4. La decisione della Corte di Cassazione

I ricorrenti deducevano che la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare che la violazione del consenso informato in capo ad una donna in gravidanza incide non solo sulle sue scelte abortive, ma può avere anche altre conseguenza, in quanto la madre, se informata, avrebbe potuto scegliere di non abortire, ma avrebbe avuto anche la possibilità di prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita di un bambino con problemi, necessitante di accudimento, dell’elaborazione del fatto da parte dei genitori, dell’accettazione e predisposizione di una diversa organizzazione di vita ed avrebbe potuto programmare interventi chirurgici o cure tempestive per eliminare il problema o attenuarne le conseguenze.

I ricorrenti, ancora, lamentavano di avere subito un danno economico consistente nelle spese di mantenimento della persona nata con malformazioni, pari al differenziale tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio sano e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto da gravi patologie; poi, sempre partendo dall’assunto che fosse incontestato l’inadempimento, aggiungono, la richiesta risarcitoria avente ad oggetto la lesione del loro diritto di prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita del figlio e quella derivante dalla radicale trasformazione peggiorativa della loro vita; lamentavano di non essersi potuti attivare per eliminare il danno alla salute o limitarne le conseguenze, nonostante sia emerso chiaramente in giudizio che i danni cromosomici non fossero in alcun emendabili e che i danni derivanti dalla patologia cardiaca furono affrontati con l’intervento eseguito presso il nosocomio; deducevano, infine, che sarebbero stati privati della facoltà di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento.

Il pregiudizio consistente nell’impreparazione dei genitori ad affrontare il trauma della nascita della figlia con grave disabilità risultava allegato e tale allegazione non era mai stata contestata alla controricorrente.

Rigettando tale richiesta risarcitoria la Corte d’Appello si era posta non in linea con la giurisprudenza secondo cui ove il danneggiato abbia allegato di aver subito un pregiudizio causalmente legato ex art. 1223 c.c. con l’omessa informazione (cfr. Cass. 02/02/2010, n. 2354), spetta al giudice accertare se il danno invocato abbia superato la soglia della serietà/gravità, secondo l’insegnamento di Sezioni unite nn. 26972-26975 dell’11/11/2008 – con le quali è stato affermato che “il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (…) non essendo predicabile un danno in re ipsa, presupposto comunque indispensabile per l’apprezzamento e la conseguente risarcibilità di un pregiudizio discendente dalla lesione del diritto del paziente ad autodeterminarsi e che, appunto, l’intervento si ponga in correlazione causale con le sofferenze patite che non consistano in meri disagi e fastidi (…) e che in caso di esito positivo dar seguito alla richiesta risarcitoria”.

Il ragionamento della Corte d’Appello, invece, si dimostra errato, perché ha messo in relazione l’omessa informazione esclusivamente con l’interruzione della gravidanza, non tenendo conto della giurisprudenza che da tempo ha dato dimostrazione di considerare la consulenza diagnostica presupposto causale di una serie di conseguenze non circoscritte alla dimensione terapeutica in senso stretto, rimarcando il fatto che la richiesta di una diagnosi prenatale riveste caratteri plurifunzionali.

Allora, la conoscenza delle condizioni di salute del feto si pone quale antecedente causale di una serie di altre scelte di natura esistenziale, familiare, e non solo terapeutica.

La lesione del diritto alla salute dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (Cass. 11/11/2019, n. 28985; Cass. 22/08/2018, n. 20885; Cass. 15/05/2018, n. 11749), purché il danno lamentato sia causalmente collegato all’omessa informazione e varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze di San Martino.

Ciò che si richiede è che il danneggiato alleghi che l’inadempimento dell’obbligo di informazione sia in relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse giuridico che si assume leso (Cass. 19/07/2018, n. 19199).

Deve ricordarsi, infatti, che al fine di ottenere tutela risarcitoria, benché essa sia la forma minima di tutela di un interesse giuridicamente rilevante anche costituzionalmente, non basta il verificarsi di un comportamento antigiuridico, giacché non si risponde di mere condotte pregiudizievoli, ma sempre e solo di eventi causativi di un danno e che lo scopo del risarcimento è sempre quello di ristorare una perdita, anche se tale termine si presta ad abbracciare ogni forma di privazione, quale che sia il bene o il vantaggio perduto. Pertanto, una volta dimostrata da parte dei ricorrenti la ricorrenza della lesione del diritto di prepararsi al trauma della nascita di una figlia affetta da gravi patologie, causalmente imputabile all’inadempimento informativo, e, dunque, assunta la lesione di un interesse che aveva la duplice caratteristica di essere esterno alla prestazione diagnostica in senso stretto, ma interno al perimetro degli interessi direttamente soddisfacibili con la messa a profitto della prestazione medesima, rimasta poi inadempiuta, la Corte d’appello avrebbe dovuto consentire loro l’accesso alla tutela risarcitoria.

Pertanto, in conclusione, la Corte di Cassazione ha stabilito che “tutte le volte in cui – in base ad un giudizio comparativo tra la situazione verificatasi in seguito all’omessa informazione e quella che si sarebbe avuta se la gestante fosse stata posta nelle condizioni di autodeterminarsi – non sia dato scorgere alcun tipo di pregiudizio al di là della mera privazione del diritto di scegliere fine a se stessa e/o la lesione subita non possa di per sé raggiungere un sufficiente livello di offensività non è possibile dar luogo ad una tutela risarcitoria. Ove, ex adverso, ed è questo il caso, il diritto all’autodeterminazione procreativa risulti il presupposto per il compimento di una pluralità di altre possibili scelte che l’omessa informazione ha impedito venissero assunte, cioè costituisca l’antecedente causale di scelte o di mancate scelte foriere di conseguenze pregiudizievoli e la lesione lamentata incida il diritto oltre una soglia minima, cagionando un nocumento connotato dal requisito della gravità – sicché sia da escludersi che l’offesa della mera autonomia decisionale sia da ascriversi al novero di quei pregiudizi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’ordinamento impone a ciascun soggetto di sopportare in nome del contemperamento tra il principio di solidarietà nei riguardi della vittima e quello di tolleranza verso illeciti di trascurabile rilievo – non vi è ragione per non accogliere la istanza di tutela risarcitoria” (Cass., civ., sez. III, ord. 16 marzo 2021, n. 7385).


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