Riserbo e segreto professionale alla luce dell’art. 28 del codice deontologico forense

Riserbo e segreto professionale alla luce dell’art. 28 del codice deontologico forense

Il riserbo e segreto professionale, introdotti nell’ambito dei rapporti con il cliente e con la parte assistita,  nel nuovo Codice deontologico forense entrato in vigore il 16/12/2014, all’art. 28, rappresenta uno dei principi fondamentali posti alla base della professione forense.

Nell’analisi del citato articolo 28 del nuovo codice deontologico forense, sarà opportuno porre l’attenzione sull’inquadramento generale della norma, sia nell’ambito nazionale sia europeo, proseguire nell’approfondimento dei soggetti obbligati e tutelati, comprendere l’oggetto protetto dalla norma fino ad arrivare ai limiti nonché alla casistica giurisprudenziale relativa ai summenzionati principi.

L’art. 28 del codice deontologico, sebbene già tra i principi cardine della professione forense con l’art. 9, mostra tuttavia delle differenze con quest’ultimo.

Difatti, è possibile notare prima facie, una differenza nella collocazione sistematica dei due articoli, ben potendo constatare come l’attuale disposizione sia stata introdotta nell’ambito del rapporti con il cliente e con la parte assistita, diversamente dalla norma precedente collocata invece, tra i principi generali a cui l’avvocato doveva uniformarsi nell’esercizio della professione.

Tuttavia, il precedente art. 9 non è l’unica fonte da cui discende la disposizione dell’attuale articolo 28 cod.deont..

A ben vedere, anche il codice di deontologia degli avvocati europei, all’art.2.3 consacra il segreto professionale tra gli elementi cardine della professione forense, qualificandolo anch’esso come un diritto e dovere dell’avvocato.

Il riserbo e segreto professionale, come sopra intesi,  rispondono a principi tutelati non soltanto dell’ambito deontologico ma anche sul piano del diritto positivo.

È possibile notare come questi assumano rilievo in ambito sostanziale penale, all’art. 622 c.p., il quale sanziona la “ rivelazione del segreto professionale”e, in ambito processuale civilistico all’art. 249 c.p.c. e processuale penalistico all’art. 200 c.p.p., i quali prevedono ipotesi di astensione dall’obbligo di testimoniare nel processo, allo scopo di tutelare il massimo riserbo e il segreto professionale. Il tema del riserbo e segreto professionale, copre dunque un ambito ben più ampio rispetto a quello deontologico, arrivando quindi ad interessare anche altri ambiti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento nazionale sul piano della privacy ( d.lgs. 196/2003) e della normativa antiriciclaggio, mentre sul piano comunitario l’art. 6 CEDU sul diritto al giusto processo, codifica il segreto professionale come diritto fondamentale del cittadino.

Dopo aver delineato il quadro generale della normativa di riferimento, è necessario procedere ad una attenta analisi degli elementi caratterizzanti l’art. 28 cod. deont..

Partendo dal primo canone del suddetto articolo, viene definito quale “diritto e dovere” dell’avvocato conservare il “massimo riserbo e il segreto sull’attività prestata” nonché sulle “informazioni fornite dal cliente e dalla parte assistita”.

Considerando innanzitutto il concetto di “dovere” dell’avvocato oggetto dell’art. 28, la cui violazione viene sanzionata penalmente dall’art.622 c.p., esso è posto esclusivamente a tutela della sfera privata del cliente o della parte assistita. Quest’ultima, nella qualità di titolare della situazione giuridica che intende tutelare attraverso l’intervento dell’avvocato, deve poter affidare al professionista le informazioni che la riguardano senza che queste possano essere rivelate o diffuse.

Il concetto di “informazioni” va inteso in senso lato, sia per quelle comunicate direttamente dalla parte assistita o dal cliente sia per quelle di cui il professionista sia venuto a conoscenza nell’espletamento del mandato.

A questo “dovere” dell’avvocato corrisponde pertanto un diritto fondamentale del cliente, inteso anche come cittadino, meritevole di tutela e riconducibile al più generale diritto di difesa. Ciò perché, venendo meno il dovere dell’avvocato ad osservare il massimo riserbo, non solo verrebbe leso o grandemente diminuito il diritto di difesa, così come garantito dall’art. 24 della Costituzione della Repubblica, ma si verificherebbe parimenti la lesione del principio al giusto processo, tutelato sul piano europeo dall’art.6 CEDU.

Proprio in virtù di tale tutela sul piano nazionale ed europeo del succitato diritto, esso viene considerato insuscettibile di eventuali disposizioni da parte del cliente qualificandosi, come diritto “indisponibile” e deve essere garantito al di là delle singole situazioni giuridiche di volta in volta coinvolte.

L’art. 28 cod.deont. viene altresì considerato un diritto dell’avvocato stesso, perché funzionale allo svolgimento della prestazione professionale  allo scopo di evitare interferenze esterne, rese possibili anche mediante la divulgazione di informazioni relative alla attività di difesa, giudiziale o stragiudiziale.

Per quanto concerne l’oggetto del riserbo e del segreto professionale, si è ribadito che esso si estende alle “ informazioni” in senso lato, ma è opportuno comprendere il fattore temporale a cui tale diritto-dovere si estende.

Una risposta a tale interrogativo viene fornita dal secondo canone dell’art.28 cod.deont., il cui disposto impone il rispetto del principio in esame da parte dell’avvocato, non soltanto durante lo svolgimento dell’incarico o quando questo sia stato adempiuto o concluso, ma anche nelle ipotesi di rinuncia o di non accettazione del mandato. Pertanto, la norma impone il rispetto dei principi di cui all’art. 28 cod. deont. nei confronti dei clienti, degli ex clienti ma anche per coloro i quali, rivoltisi al professionista per una consulenza non gli abbiano poi conferito il mandato. A sostegno di tale assunto, vi è all’interno del codice deontologico,

una ulteriore norma a garanzia del riserbo e del segreto professionale, rappresentata dall’art. 68, il quale al comma tre,  impone il divieto per l’avvocato di utilizzare notizie acquisite in ragione di un rapporto già esaurito”.

Procedendo con l’analisi della norma, al canone terzo è prevista una estensione soggettiva di coloro che risultano essere obbligati all’osservanza della norma. Per meglio dire, con l’innovazione apportata dal nuovo codice deontologico all’art.28 rispetto al previgente art.9, il quale prevedeva la mera richiesta dell’osservanza del segreto professionale, l’attuale disposizione, conferisce un ruolo più attivo all’avvocato. Egli, deve “adoperarsi” affinchè tutti i soggetti che collaborano all’attività di difesa e che vengano a conoscenza di informazioni riservate, debbano osservare appunto, il massimo riserbo e il segreto professionale.

Pertanto, sebbene non si possa parlare di parificazione tra l’avvocato, praticanti e collaboratori, posto che il soggetto attivo dell’obbligo rimane sempre il primo, tuttavia diversi sono i riflessi connaturati a tale estensione finalizzata al rispetto dei principi di cui all’art. 28 cod. deont..

A tal proposito, la Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 249 c.p.c. in relazione all’art. 200 c.p.p., i quali dispongono delle ipotesi di astensione dall’obbligo di deporre allo scopo di tutelare il segreto professionale, laddove non prevedeva la possibilità che tali norme potessero essere applicate anche ai praticanti, avendo avuto questi, conoscenza di fatti e circostanze destinati a rimanere riservati. Il caso di specie vedeva come protagonista una praticante dello studio legale, la quale chiamata a testimoniare sulle circostanze di cui era venuta a conoscenza, chiedeva potersi avvalere della facoltà di astensione dall’obbligo di testimoniare.

La Corte Costituzionale pertanto,  ha disposto la applicabilità anche ai praticanti, delle ipotesi di astensione, essendo questi ultimi a conoscenza, al pari dell’avvocato, di informazioni riservate su cui la testimonianza potrebbe ledere il diritto dovere di riserbo e segreto professionale, nei confronti del cliente e della parte assistita.

Passando all’analisi del quarto comma dell’art. 28 cod. deont., esso prevede quattro ipotesi in cui l’avvocato possa derogare al rispetto del riserbo e del segreto professionale.

Queste eccezioni, sono rappresentate da:

  1. Lo svolgimento dell’attività di difesa;

  2. Impedire la commissione di un reato di particolare gravità;

  3. Allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita;

  4. Nell’ambito di una procedura disciplinare.

La lettera d) rappresenta un elemento di novità rispetto al tenore dell’art. 9 del previgente Codice deontologico, il quale prevedeva la possibilità di divulgazione delle informazioni concernenti la parte assistita, qualora questa fosse necessaria per la difesa nell’interesse dell’assistito.

Tali eccezioni sono state previste in virtù di un contemperamento di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento nazionale ed europeo. Da questo punto di vista, in queste ipotesi il diritto di difesa, a cui si ispira più ampiamente l’art. 28 cod. deont., può essere sacrificato in vista di valori garantiti dalla Costituzione e dalla CEDU di rango superiore. Pertanto, per ovviare alle difficoltà in cui potrebbe incorrere l’avvocato che, a conoscenza di elementi che potrebbero ledere valori di rango superiore rispetto al riserbo e al segreto professionale, il Codice deontologico fornisce un aiuto in base al quale il professionista può derogare al rispetto di tali obblighi.

La ratio dell’eccezione va pertanto ricercata in un bilanciamento tra i valori costituzionalmente garantiti, quali a titolo esemplificativo ma non esaustivo l’amministrazione della giustizia. Questa potrebbe essere l’ipotesi dell’avvocato il quale, in virtù di una rivelazione da parte del cliente circa la commissione di un reato, potrebbe derogare agli obblighi di riserbo e segreto professionale su tali informazioni, allo scopo di raggiungere un bene superiore, rappresentato appunto, da una esigenza di giustizia in senso sostanziale. È opportuno specificare che l’art.28, prevede altresì una clausola di riserva per la divulgazione di tali informazioni, la quale dovrà essere limitata al raggiungimento del fine tutelato.

Oltre a quanto già esposto, si ribadisce che vi sono altre norme, già menzionate precedentemente, finalizzate alle medesima tutela dei principi dell’art. 28 cod. deont..

Esse sono rappresentate dall’art 622 c.p., il quale sanziona le ipotesi di rivelazione del segreto professionale, dall’art. 249 c.p.c. e 200 c.p.p. per la facoltà di astensione dalla testimonianza su circostanze e fatti di cui si è avuta conoscenza nell’esercizio della prestazione professionale. Pertanto è possibile notare come il legislatore abbia inteso tutelare su più fronti l’esercizio del diritto- dovere di osservare il riserbo e il segreto professionale, ciò in vista sia della tutela del cliente cittadino, titolare di un diritto indisponibile alla riservatezza, sia una tutela della stessa classe forense da eventuali errori commessi dai professionisti appartenenti. Questa, potrebbe essere l’ipotesi dell’avvocato che, allo scopo di pubblicizzare la propria attività professionale divulghi le informazioni di procedimenti in corso, incorrendo quindi in comportamenti non soltanto deontologicamente ma anche penalmente rilevanti, venendo meno il rispetto dei canoni di lealtà, correttezza, segretezza e riservatezza.

Va sottolineato che l’astensione dall’obbligo di testimoniare come persone informata sui fatti in virtù dell’attività professionale, è altresì sancita dall’art. 51 cod. deont. il quale ribadisce le ipotesi sanzionabili, anche a tutela del riserbo e segreto professionale.

Circa l’oggetto dell’astensione dal testimonianza, la casistica esaminata dal Consiglio Nazionale Forense ha consentito di discernere le ipotesi in cui vi è un fondamento per comportamenti deontologicamente rilevanti, da quelle in cui invece non sussiste.

Risulta ammissibile, sul piano deontologico, la testimonianza che abbia ad oggetto non circostanze ed elementi di fatto intesi in senso oggettivo, conosciuti in ragione del mandato ma elementi soggettivi sull’attività svolta, qualificati come un’opinione personale dell’avvocato sulla convenienza ( nel caso di specie valutata positivamente dalla parte assistita e negativamente dall’avvocato) dell’attività giudiziale da intraprendere.

L’ultimo comma dell’art.28 cod.deont. specifica le sanzioni previste per le ipotesi di violazione dei commi precedenti, disponendo la sanzione della censura come prevista dall’art. 22 lett. B) cod. deont. e, qualora la violazione sia relativa al segreto professionale si applicherà la sospensione dall’esercizio della professione da uno a tre anni ex art.22 lett. C) cod. deont.

In conclusione, l’art. 28 cod.deont. disciplina le modalità di esercizio della professione forense, finalizzando la stessa al rispetto dei più ampi principi costituzionali e CEDU, mediante il rispetto del riserbo e del segreto professionale come espressione dei più generali principi della libertà, inviolabilità ed effettività del diritto di difesa, inteso come diritto soggettivo del cittadino.


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Maria Alessia Tatò

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