Ritiro del TFR ed impugnazione del licenziamento (Corte di Cassazione, n. 8594 del 03.04.2017)

Ritiro del TFR ed impugnazione del licenziamento (Corte di Cassazione, n. 8594 del 03.04.2017)

La sentenza in esame ha ribadito il principio secondo il quale per configurarsi risoluzione consensuale del rapporto, si deve obbligatoriamente far riferimento alla volontà comune delle parti, da desumersi esclusivamente da fatti che rappresentano una condotta finalizzata a porre in essere la fine dello stesso.

Preliminarmente occorre rilevare che il rapporto di lavoro subordinato è riconducibile alla generale disciplina delle obbligazioni, ovvero del contratto , trovando così applicazione gli stessi principi di cui all’art. 1361, 1372 c.c. in tema di interpretazione ed effetti tra le parti. Il caso di specie vedeva una dipendente di Poste s.p.a. impugnare il licenziamento in un momento successivo al ritiro dei documenti di lavoro, nonché del proprio TFR.

La Suprema Corte si trovava a decidere se tale impugnazione, ancorchè postuma al ritiro del TFR spettante, fosse legittima o meno; la quaestio dunque era rappresentata dalla riconoscibilità o meno di siffatta condotta quale diretta volontà a concludere il rapporto di lavoro.

Proprio in riferimento ai principi su esposti veniva accolta  domanda di parte ricorrente, ritenendola fondata per  violazione e falsa applicazione degli art. 1321, 1362 e 1372 c.c., nonché insufficiente e contradditoria motivazione sempre in riferimento all’art. 1372c c.c. .

Aderendo a consolidato orientamento giurisprudenziale, la Suprema Corte ha ritenuto che, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (ex plurimis: Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 4-8-2011 n. 16932, da ultimo, Cass. n.ri 3924, 4181, 7282, 7630, 7772, 7773, 13538, 14818/2015, nonché Cass. 14809/2015).

Orbene, il semplice ritiro delle somme a titolo di trattamento di fine rapporto è stato ritenuto non sufficiente per poter essere ascritto a condotta finalizzata alla risoluzione consensuale del rapporto, seppur scaduto il termine, atteso che la dipendente aveva bisogno delle stesse per il normale sostentamento quotidiano nel momento in cui è venuta meno la fonte di reddito .

Si può affermare, infatti, in particolare “che è suscettibile di essere ricompreso nella fattispecie legale di cui all’art. 1372, co. 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionabilità del rapporto di lavoro, in base a modalità tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione”;   così, ad esempio, ai fini di una oggettiva valutazione dei fatti concludenti, al fine al fine di dimostrare la chiara e comune volontà delle parti di porre fine al rapporto di lavoro non è di per sé sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del provvedimento espulsivo o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto ( Cass. 11/5887), mentre, dato anche lo squilibrio delle parti che caratterizza il rapporto di lavoro, è ritenuto legittimo che gravi sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione del rapporto lavorativo, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle stesse di voler porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro ( ex- multis ; Cass. 2-122002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n.5887).


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Andrea Pagnotta

Praticante e collaboratore presso studio legale in Roma

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