Self laundering crime: profili sistematici e configurabilità rispetto ai reati tributari

Self laundering crime: profili sistematici e configurabilità rispetto ai reati tributari

Sommario: 1. Premessa – 2. L’autoriciclaggio – 3. Clausola di non punibilità ex art 648-ter comma 4 c.p. – 4. Rapporto con l’illecito reimpiego e riciclaggio – 5. Vexata quaestio della configurabilità dell’autoriciclaggio rispetto ai reati tributati

 

1. Premessa

Con la legge del 15 dicembre 2014 n.186 recante “Disposizioni in materia di emersione di capitali detenuti all’estero, nonché per il potenziamento della lotta all’evasione fiscale. Disposizioni in materia di autoriciclaggio”, sono state introdotte nell’ordinamento giuridico penale rilevanti novità.

Il quid novi sul piano fiscale è rappresentato dalla c.d. Voluntary disclosure (o collaborazione volontaria), ovverosia una particolare procedura mediante la quale è attribuita a coloro che hanno attività e beni non dichiarati all’estero, la possibilità di sanare la propria posizione all’Erario pagando le imposte e le relative sanzioni, al  fine di favorire l’emersione ed il conseguente rientro di attività finanziarie e patrimoniali illecitamente costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato.

Così a beneficio dei collaboranti, la legge prevede alcune cause di esclusione della punibilità per determinati –  significativi – reati fiscali, tra i quali spiccano l’omessa, la fraudolenta o infedele dichiarazione dei redditi, l’omesso versamento dell’IVA, nonché per quelli di riciclaggio, reimpiego ed autoriciclaggio, commessi proprio in relazione ai suddetti reati fiscali (c.d. reati presupposto).

Invero, in relazione a questa innovativa figura, la dottrina evidenziò diversi profili di criticità: innanzitutto, la causa di non punibilità non rendeva esente da pena tutti i reati fiscali previsti dal d.lgs n.74 del 2000.

A titolo esemplificativo, soggiaceva alla disciplina di favore il reato di utilizzo di fatture false ma non quello di emissione, sebbene gli stessi fossero complementari tra loro, erano invece puniti l’appropriazione indebita e la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

Questa diversità di trattamento – il cui fondamento rimane fumoso – comportava il concreto rischio, per il collaborante in fase di autodenuncia, di poter incorrere in responsabilità penale per degli illeciti non coperti dalla clausola di non punibilità ancorché funzionalmente connessi.

La novella legislativa n.186 del 2014 ha previsto altresì l’inasprimento delle pene per i delitti di riciclaggio[1] e di illecito reimpiego[2] di cui agli articoli 648 bis e 648 ter cp, ma il dato di rilevante novità riguarda l’introduzione nel panorama giuridico dell’inedita figura delittuosa dell’autoriciclaggio ex art. 648 ter 1 cp, alla quale vengono estese, oltre alla richiamata causa di non punibilità, la confisca – anche per equivalente – ex art 648 quater cp e la responsabilità amministrativa derivante da reato degli enti.[3]

Così,  grazie all’influenza del diritto internazionale e comunitario (si pensi alla Convenzione ONU di Vienna sulla prevenzione del traffico di stupefacenti del 19 dicembre 1988, la Direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché la Direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione) e all’acquisita consapevolezza della necessità di combattere risolutamente il famigerato fenomeno del riciclaggio e dell’immissione nell’economia di proventi illeciti, il legislatore italiano, all’esito di un acceso dibattito politico e dottrinale, ha eretto a fattispecie incriminatrice la condotta di autoriciclaggio, d’altronde già contemplata come delitto in altri ordinamenti giuridici europei (si pensi al Belgio o alla Spagna).[4]

2. L’autoriciclaggio

Il reato di autoriciclaggio è disciplinato all’articolo 648 ter1 del codice penale, alla stregua del quale  “ Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

Prima di passare all’esame di questa affascinante figura delittuosa, giova ricordare che prima della riforma del 2014 la giurisprudenza prevalente riteneva che il soggetto attivo del reato-presupposto non potesse essere considerato responsabile per il delitto di riciclaggio ex art 648 bis cp, anche nell’ipotesi in cui avesse con l’inganno determinato altri a compiere atti di riciclaggio sui proventi del reato da lui realizzato e ciò in ossequio alla clausola di riserva espressa contenuta nell’articolo 648 bis comma 1 cp, secondo il quale l’autore del reato presupposto e i suoi concorrenti non sono punibili qualora pongano in essere condotte astrattamente riconducibili all’oggettività giuridica del riciclaggio (c.d. privilegio dell’autoriciclaggio).[5]

In aggiunta, secondo una parte della dottrina[6] le condotte post delictum compiute dal soggetto attivo del reato-presupposto per ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni e del denaro, costituirebbero la normale prosecuzione del reato realizzato, rendendolo un mero post factum non punibile, privo di autonomo disvalore, e dunque, assorbito nella fattispecie del reato presupposto.

Un altro argomento a sostegno dell’irrilevanza penale dell’autoriciclaggio fa leva sul dato che le condotte tipiche di questo reato sono parte integrante della condotta dello stesso reato presupposto, dunque, non punibili in virtù del principio del ne bis in idem sostanziale, secondo cui nessuno può essere punito due volte per lo stesso fatto.

Ma vi è di più, alcuni autori ritengono che, diversamente opinando, si violerebbe altresì il principio generale per cui nemo tenetur se detergere, alla stregua del quale nessuno può essere tenuto ad autoincriminarsi.[7]

Questa impostazione deve senz’altro ritenersi superata alla luce della novella legislativa che ha tipizzato e disciplinato il reato di autoriciclaggio.[8]

Ciò premesso, dalla lettera della norma si desume che la fattispecie oggettiva del delitto in esame ha una duplice valenza, ossia quella di reimmettere nel circuito legale proventi illeciti e di ostacolare la tracciabilità della provenienza, da ciò ne consegue che essa non mira a tutelare direttamente il patrimonio, ma l’amministrazione della giustizia, l’ordine economico e il risparmio, nell’ottica di un corretto funzionamento della concorrenza e del mercato.

Da questa prima considerazione si può ben comprendere il fondamento della norma de qua, che riposa sulla volontà di congelare il profitto conseguito dal soggetto agente attraverso la realizzazione del reato-presupposto, in modo da impedirne la sua utilizzazione maggiormente offensiva, consistente nel porre in pericolo o, addirittura, nel ledere “l’ordine economico”, non essendo neppure astrattamente configurabile un post factum non punibile. [9]

La condotta incriminata è quella dell’impiego, della sostituzione e il trasferimento di denaro, beni o altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo tale da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Trattasi dunque di norma a più fattispecie a consumazione alternativa, laddove le diverse condotte delineate rappresentano sviluppi o fasi diverse di un’azione sostanzialmente unitaria che offende il medesimo bene giuridico.

L’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative dei beni di provenienza delittuosa rappresentano modalità alternative di realizzazione di un unico reato, di talché, se ciascuna condotta è stata compiuta contestualmente rispetto allo stesso denaro, bene o altra utilità non vi è concorso di reati ma un unico reato.

Il termine “impiego” – da interpretarsi restrittivamente – allude alla condotta di investimento, mentre “la sostituzione” e il “trasferimento” riguardano l’effetto e non il modo, rimandando così a ogni modalità che realizzi l’effetto indicato, trasformando così la figura in esame in reato a forma libera qualificato dal risultato perseguito.[10]

A tal proposito, in relazione alla nozione di impiego in attività economiche o finanziarie, secondo la Suprema Corte “può farsi riferimento alle norme civilistiche di cui agli artt. 2082, 2135 e 2195 cod. civ., in base alle quali costituiscono attività economiche quelle finalizzate alla produzione o allo scambio di beni o servizi, dovendosi intendere per tale non solo l’attività produttiva in senso stretto, ossia quella diretta a creare nuovi beni o servizi, ma anche l’attività di scambio e di distribuzione di beni nel mercato del consumo, ed altresì ogni altra attività che possa rientrare in una di quelle elencate nelle sopra menzionate norme del Codice civile”.[11]

Invero, l’elencazione di attività “economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, sembra manifestamente ridondante, dal momento che un’attività finanziaria, imprenditoriale ovvero speculativa si colloca comunque nel più ampio genus di attività economica.[12]

A tal proposito, si ritiene estraneo dall’ambito applicativo della norma incriminatrice la condotta del soggetto che, dopo aver realizzato il reato presupposto, si limiti a versarne il provento sul conto corrente di un familiare o altro soggetto compiacente, mancando in tal caso il requisito dell’immissione in un’attività economica.[13]

La condotta di “ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa”, consiste invece nel rendere concretamente difficoltosa l’identificazione della provenienza delittuosa del bene.

Tra gli studiosi appare inoltre pacifica la sussistenza del delitto de quo nell’ipotesi in cui l’amministratore di una società, avendo conseguito un profitto da un delitto non colposo, lo impieghi per costituire un “fondo nero” mediante una società fittizia.[14]

Tuttavia, non vi è unanimità di opinione circa la configurabilità dello stesso laddove l’utilità conseguita venga utilizzata per pagare fornitori o stipendi ai dipendenti della società.

A questo interrogativo, una parte della dottrina risponde escludendo la configurabilità del reato dal momento che il comportamento dell’agente, nonostante sia indirizzato in un’attività economica, non è caratterizzata da alcuna modalità “concretamente” ostativa all’identificazione della provenienza illecita dell’utilità percepita mediante la pregressa evasione fiscale, giacché la stessa rimane nelle casse della società.[15]

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, il reato di autoriciclaggio, avendo natura delittuosa e non essendo previsto uno specifico fine per la realizzazione della condotta, è punibile a titolo di dolo generico.

É pacificamente considerato un reato istantaneo, pertanto esso si consuma nel momento in cui viene compiuta la condotta tipica, consistente nell’impiego, sostituzione o trasferimento in attività economiche del provento derivante dalla realizzazione del delitto.

3. Clausola di non punibilità ex art 648-ter comma 4 c.p. 

Il legislatore ha previsto al quarto comma dell’articolo 648 ter1 una particolare – e discussa – clausola di non punibilità, secondo la quale “fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”.

Il primo problema interpretativo che solleva questa disposizione concerne la valenza dell’incipit “fuori dei casi.”.

Secondo un primo orientamento c.d. restrittivo, la clausola di non punibilità sarebbe diversa ed autonoma, già sul piano della tipicità, rispetto alle condotte previste nei commi precedenti, con l’inevitabile conseguenza che non si applicherebbe alle medesime.

La norma, quindi – avendo natura autonoma e collocandosi all’esterno delle fattispecie previste nei commi precedenti – sarebbe volta a interpretare o puntualizzare il primo comma, alla luce del fatto che si sarebbe potuti giungere allo stesso risultato anche in assenza di essa e sulla base di una mera interpretazione a contrario.

In altri termini, dal momento che il primo comma punisce l’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla realizzazione del reato presupposto, si sarebbe potuti ritenere comunque non punibili le suddette condotte destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, in quanto estranee alla fattispecie tipica e, quindi, penalmente irrilevanti in ossequio al principio di legalità penale di cui all’articolo 25 co. 2 Cost.

Diversamente, un’altra tesi critica il predetto orientamento adducendo che un suo eventuale accoglimento condurrebbe ad un’inevitabile interpretatio abrogans della fattispecie in esame, di talché occorrerebbe invece interpretare la norma alla luce del seguente significato “nei casi di cui ai commi precedenti”.

Da ciò ne deriva che, avallando quest’ultima interpretazione, la clausola in esame si tradurrebbe in un limite alla condotta tipizzata e sanzionata nel primo comma, ovverosia come una clausola di non punibilità da applicare allorquando il comportamento tipico, di per sé sanzionabile, sia stata finalizzata all’utilizzazione o godimento personale del denaro, dei beni o delle altre utilità scaturenti dal delitto presupposto.

Un esempio emblematico concerne l’acquisto, con il pretium sceleris, di un immobile destinato ad abitazione privata.

Non si applicherà invece la clausola di non punibilità di cui al quarto comma laddove l’immobile venisse locato a terzi: in tale ipotesi, non soltanto mancherebbe il godimento personale, ma il bene sarebbe produttivo di reddito, con l’inevitabile applicazione della normativa sull’autoriciclaggio.

A tale figura si attribuisce una valenza oggettiva, poiché è l’obiettiva destinazione ad un utilizzo o godimento personale del bene di origine delittuosa, senza l’immissione di esso in attività economiche, che giustifica la non punibilità della condotta tipica.

Questa natura oggettiva si ripercuote – favorevolmente – anche nei confronti di coloro che condividono l’utilizzazione o il godimento con l’autore del reato presupposto.

Dall’analisi della disciplina appena enucleata si desume che il fondamento dell’esclusione della punibilità si rinviene nella collocazione, di tale fattispecie, nell’alveo dei post factum non punibili, dal momento che l’utilizzazione privata dell’utilità conseguito con la realizzazione di un reato costituisce un normale effetto del medesimo reato.

Il quid pluris che il legislatore ha inteso punire, è rappresentato, difatti, dall’immissione di quel provento delittuoso nell’ambito di attività economiche lecite, con il conseguente inquinamento del mercato e della libera concorrenza.

A conferma di ciò si richiama – tra le altre –  la recente sentenza della Corte di Cassazione del 4 maggio 2020 n.13571 con la quale si è ribadito che “l’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 648 ter.1, comma 4, c.p., è integrata soltanto nel caso in cui l’agente utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

4. Rapporto con l’illecito reimpiego e riciclaggio 

Il fenomeno del riciclaggio è stato attenzionato per la prima volta dalla Commissione presidenziale statunitense che nel 1985 lo definì quale mezzo “attraverso il quale si nasconde l’esistenza, la fonte illegale o l’utilizzo illegale di redditi che poi si camuffano per farli apparire legittimi”.[16]

L’ordinamento giuridico italiano disciplina questo reato all’articolo 648 bis cp punendo “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

La finalità della norma è quella di impedire che, una volta realizzato il delitto, soggetti diversi da coloro che lo hanno commesso o hanno concorso a commetterlo possano, con la loro attività, trarre vantaggio dal delitto medesimo o aiutare gli autori di tale delitto ad assicurarsene il profitto e, comunque, ostacolare con l’attività di riciclaggio del denaro o dei valori, l’attività della polizia giudiziaria diretta a scoprire gli autori del reato.

Trattasi dunque di una fattispecie incriminatrice plurioffensiva, poiché è posta a tutela sia del patrimonio, sia dell’amministrazione della giustizia e dell’ordine pubblico.

Ebbene, il primo dato differenziale è costituito dal soggetto attivo: nel riciclaggio può compiere il reato soltanto colui che non ha commesso e non ha concorso a commettere il reato presupposto dal quale derivano i proventi del reato.

All’opposto, nell’autoriciclaggio a realizzare il reato può essere esclusivamente colui che ha commesso il reato presupposto.

In altre parole, nel riciclaggio vi è la presenza di un terzo soggetto che è il c.d. riciclatore, egli prende dei beni o denaro da colui o da coloro che li hanno acquisiti illecitamente e li immette nel circuito economico legale mediante operazioni finanziarie o commerciali.

Il secondo elemento di divergenza riguarda poi la condotta del soggetto agente.

La condotta del soggetto attivo del reato di riciclaggio consiste difatti nel sostituire o nel trasferire i proventi del reato, o compiere altre operazioni, mentre la condotta del soggetto attivo del reato di autoriciclaggio può invece sostanziarsi nella sostituzione, nel trasferimento o nella fruizione dei proventi del reato.

In altri termini, il reato di autoriciclaggio contiene all’interno del proprio perimetro di tipicità sia la condotta tipica del riciclaggio sia quella del successivo reato di impiego.

Infine, a differenza del reato di cui all’art. 648 bis cp., nel delitto di autoriciclaggio sussiste non solo una clausola di non punibilità allorchè il denaro, i beni e le altre utilità vengano destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, ma è presente anche una circostanza aggravante se l’azione delittuosa sia stata realizzata nello svolgimento di un’attività bancaria, finanziaria o professionale.

Il legislatore, al fine di creare un’ulteriore protezione contro l’immissione di capitali illeciti nei normali circuiti economici e finanziari, ha previsto un altro interessante delitto, ovverosia l’impiego di denaro, beni o  utilità di provenienza illecita ex art. 648 ter cp, il quale punisce “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 ad euro 25.000. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. La pena è diminuita nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 648. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648”.

Tale fattispecie assolve ad una funzione di difesa residuale, dal momento che non viene ad integrarsi nei casi di concorso nel reato presupposto e nelle ipotesi di ricettazione o riciclaggio.

In particolare, rispetto al reato di cui all’articolo 648 bis cp, l’articolo 648 ter cp punisce l’insieme delle attività che concernono quella fase del processo di riciclaggio che viene definita tecnicamente “integration”, nella quale il denaro o gli altri beni vengono resi nuovamente disponibili per l’impiego da parte dell’impresa criminale, essendone già stata occultata la provenienza illecita e l’origine, anche geografica.[17]

Il legislatore ha così voluto colpire una fase ulteriore e successiva a quella vera e propria del riciclaggio, cioè l’anello terminale sfociante la maggior parte dei casi nell’investimento produttivo dei proventi di origine illecita.

Su tale versante, la condotta di impiego presuppone che la fase di ripulitura del denaro illecito sia già stata realizzata e che l’agente impieghi in attività economico-finanziarie il capitale, essendo a conoscenza della sua provenienza delittuosa e dell’avvenuta ripulitura ad opera di altri.[18]

Un evidente elemento di differenziazione è così rappresentato dalla condotta.

Nell’illecito reimpiego di cui all’art. 648 ter cp, la condotta è difatti solo unicamente quella dell’impiego.

Diversamente, nel delitto di autoriciclaggio il comportamento penalmente rilevante è potenzialmente più ampio, poiché può esplicarsi indifferentemente sia sotto forma di impiego, sia di sostituzione o trasferimento.

Un’altra importante differenza attiene alla destinazione dei proventi illeciti.

Nel reato di illecito reimpiego la destinazione deve essere circoscritta alle attività economiche e finanziarie, non rilevando la liceità o l’illiceità delle stesse.

Di contro, nel reato di autoriciclaggio le attività non sono soltanto quelle economiche e finanziarie, ma – amplius – tutte quelle attività imprenditoriali o speculative.

5. Vexata quaestio della configurabilità dell’autoriciclaggio rispetto ai reati tributati

Un’ interessante questione oggetto di ferventi dibattiti dottrinali e contrastanti pronunce giurisprudenziali, concerne la possibilità che il reato tributario possa atteggiarsi quale reato presupposto dell’autoriciclaggio.

È noto che il D.lgs. 10 marzo 2000 n.74 ha riformato la materia dei reati tributari rispetto alla previgente normativa contenuta nella legge n. 516 del 1982.

Quest’ultima era diretta a sanzionare soprattutto le condotte prodromiche all’evasione come la mancata o infedele fatturazione del corrispettivo.

La novella legislativa del 2000 ha riaffermato il principio di offensività, sottoponendo a sanzione penale le condotte che determinano una vera e propria evasione che si consuma con la presentazione della dichiarazione (si pensi alla dichiarazione annuale dei redditi o alla dichiarazione Iva).

Invero, la dichiarazione tributaria costituisce il momento nodale attraverso il quale si realizzato le ipotesi più significative previste dal d.lgs. 74 del 2000, quali la frode fiscale mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, a frode fiscale mediante altri artifici, l’infedele e l’omessa dichiarazione, dunque, reati nei quali il profitto è rappresentato dal risparmio fiscale: il vantaggio del reato tributario consiste nel mancato decremento del patrimonio del reo.[19]

Si è evidenziata così la difficoltà di ricondurre tali figure nel reato presupposto dell’autoriciclaggio, dal momento che la “provenienza” dei denari, dei beni o delle altre utilità conduce a ritenere che l’oggetto materiale del riciclaggio, dell’illecito reimpiego e dell’autoriciclaggio possa essere soltanto un incremento patrimoniale.

Invero, il profitto del reato tributario consiste in un vantaggio fiscale rappresentato dal risparmio d’imposta, di conseguenza, “il vantaggio si confonde nel patrimonio dell’agente, risultando estremamente difficile la sua individuazione”.[20]

Occorre tuttavia sottolineare che la giurisprudenza di legittimità si è poi espressa favorevolmente sulla possibilità di ricomprendere nella categoria del reato presupposto del riciclaggio anche i reati tributari.

Secondo i giudici di legittimità la clausola “altre utilità” presente agli articoli 648 bis e 648 ter cp consente di ricomprendere in questa categoria anche il risparmio d’imposta, poiché costituirebbe un’amplissima formula di chiusura.

Tuttavia, tale orientamento è stato oggetto di feroci critiche da parte della dottrina, poiché non offre una risposta adeguata al cuore del problema sollevato dai reati tributari, che non è tanto quello di verificare se vi sia stato, all’esito del risparmio fiscale, un incremento patrimoniale per l’agente, piuttosto quello di individuare ed isolare nel patrimonio dell’autore del reato le disponibilità illecite che potranno essere oggetto di autoriciclaggio.

Ebbene, sulla configurabilità dell’autoriciclaggio rispetto ai reati tributari si è poi affermato che, oltre ad esservi il problema poc’anzi richiamato relativo alla difficile identificazione dell’oggetto materiale di questo reato, l’altro ostacolo è rappresentato dall’introduzione nella norma dell’avverbio “concretamente” relativo all’ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa dei beni.

In tale ottica, la sostituzione, il trasferimento o l’impiego delle disponibilità illecite devono costituire un ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, quindi se il profitto del reato tributario, cioè “le altre utilità” cui fa riferimento la disposizione, si sostanzia nel risparmio fiscale è difficilmente concepibile una condotta che possa concretamente ostacolare l’identificazione della sua provenienza delittuosa.[21]

 

 

 

 


[1] Art. 648 bis cp secondo cui“Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo; ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 a euro 25.000.
La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648».
[2] Art. 648 ter cp secondo cui “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 a euro 25.000(3). La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale. La pena è diminuita nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art.648 cp. si applica l’ultimo comma dell’articolo 648 cp.
[3]11 All’interno dell’elenco dei c.d. reati presupposto si aggiunge l’art. 648-ter.1, sia nella disposizione sia nella rubrica.
[4]Alessandro Traversi, Sara Gennai, Diritto penale commerciale, Cedam editore, 2017;
[5]Tra le altre, Cass. Sez. II 23.1.2013 n. 9226
[6]M. Zanchetti, voce Riciclaggio, in Dig. disc. pen., vol. XII, Torino, 1997, 204 s.; M. Angelini, voce Riciclaggio, in Dig.
disc. pen., Aggiornamento, Tomo II, N-Z, Torino, 2006, 1392 ss. V. Manes, voce Riciclaggio e reimpiego di capitali
illeciti, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, vol. V, Milano, 2006, 5229 s.
[7]Invero, per completezza, occorre evidenziare l’orientamento dottrinale che esclude, fra il delitto base e il delitto di
autoriciclaggio, la sussistenza di un concorso apparente di norme, dal momento che il secondo costituirebbe un quid pluris
indipendente, essendo la condotta di “lavaggio” estranea al perimetro delineato dalla fattispecie base.
[8]P. Corso, Il declino di “un privilegio”: l’autoriciclaggio (anche da reato tributario) ha rilievo penale autonomo, Corriere
Tributario, 3, 2015.
[9] R. Razzante, L’autoriciclaggio si misura con il principio di irretroattività della legge penale, in www.archiviopenale.it, 27 gennaio 2016
[10]A. Caprio, A. Trinci, Manuale di diritto penale, parte speciale, Dike Editore, 2017/2018; A. Gullo, Autoriciclaggio, in www.penalecontemporaneo.it.
[11] Cfr. Cass., sez. II, 11 dicembre 2013, n. 5546, in C.E.D. Cass. pen., 2013, 258204
[12] A. Traversi, Brevi note in tema di autoriciclaggio, in Riv. Guardia Finanza, 2015.
[13]A. Traversi, S. Gennai, Diritto penale commerciale, Cedam editore, 2017.
[14]ibidem
[15]ibidem
[16] S. Gennai – A. Traversi, Il reato di riciclaggio ed autoriciclaggio, in Antiriciclaggio, Italia Oggi, Guida giuridica, giugno 2017.
[17]M Carbone, P. Bianchi, V. Vallefuoco, Le nuove regole antiriciclaggio 2020, Ipsoa Editore, 2019.
[18]Ibidem
[19]Caringella- De Palma- Farini- Trinci, Manuale di penale, parte speciale, Dike Giuridica, 2016.
[20]Cassazione n. 2206 del 1999
[21]Caringella- De Palma- Farini- Trinci, Manuale di penale, parte speciale, Dike Giuridica, 2016.

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Alessandra Medici

Ha conseguito nel 2016 la laurea magistrale in Giurisprudenza presso la Luiss Guido Carli di Roma, discutendo una tesi in Diritto Penale delle Scienze Mediche e delle Biotecnologie sulla "Responsabilità penale dello psichiatra". Abilitata all'esercizio della professione forense nel 2019, attualmente collabora con un noto studio legale molisano occupandosi prevalentemente di diritto penale e diritto civile. Per la preparazione teorica, ha frequentato a Roma corsi di formazione giuridica avanzata approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale e amministrativo.

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