Servizi pubblici locali: in house e società miste sono compatibili con i principi comunitari?

Servizi pubblici locali: in house e società miste sono compatibili con i principi comunitari?

È un dato costante nella trattazione del tema dei servizi pubblici prendere le mossa dalla quaestio relativa la ricerca di una definizione precisa di servizio pubblico.

È noto, infatti, che in tale particolare settore dell’attività amministrativa, non autoritativa, diverse sono state le tesi della dottrina volte a ricondurre ad un concetto unitario l’intera categoria.

Le diverse tesi dottrinali possono essere, in estrema sintesi, riconducibili a due concezioni, vale a dire quella c.d. “soggettiva” e quella oggettiva. La prima individua la nozione di servizio pubblico in quella attività assunta dallo Stato o da altro ente pubblico in forza di un provvedimento legislativo ovvero amministrativo. La seconda, ideata da U. Pototschning, ha posto in essere una seria critica riguardo alla tenuta costituzionale della concezione soggettiva con riferimento agli artt. 41, co. 3 e 43 Cost. In altri termini, per la concezione oggettiva, non rileva la natura pubblica o privata del soggetto giuridico erogatore del servizio pubblico ma, soltanto, con un criterio di funzionalizzazione, il fine a cui tende l’attività che deve essere diretta alla immediata ed istituzionale soddisfazione degli interessi collettivi. Tale ricostruzione tecnica è stata ripresa anche dalla giurisprudenza, che ha riconosciuto la possibilità di erogare i servizi pubblici anche a soggetti privati (Ad. Gen., 1998, n. 80).

Con precipuo riferimento ai servizi pubblici locali, l’art. 112 del TUEL laddove sancisce che “gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” racchiude in sé entrambe le soluzioni. Vale la pena sottolineare infatti che, ad oggi, nessuna delle due tesi può considerarsi prevalente.

Il problema definitorio, lungi dall’essere elemento solamente dogmatico, si collega, in concreto, al problema della disciplina giuridica applicabile e, sostanzialmente, al riparto della concorrenza della potestà normativa ed alle forme di gestione dei servizi pubblici.

Gli artt. 113 e 113-bis TUEL suddividono le categorie dei servizi pubblici in “servizi pubblici di rilevanza economica” e “servizi pubblici di non rilevanza economica”. Il discrimen è stato ravvisato dal giudice amministrativo nella possibile riconduzione o meno dell’attività in un mercato regolamentato, considerando l’assunzione dei rischi d’impresa e lo scopo di lucro (Cons. Stato, 2003, n. 2380). Peraltro, la Corte Costituzionale con sentenza n. 272 del 2004 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 113-bis TUEL là dove prevedeva la possibilità di intervento sussidiario dello Stato, in luogo della Regione, nell’erogazione dei servizi pubblici locali privi di rilevanza economica.

Per quanto concerne le forme di gestione dei servizi pubblici locali, punto obbligato di partenza non può che essere la L. 1903, n. 103, c.d. “sulle municipalizzazioni”, con la quale il legislatore, per la prima volta, ha disciplinato in un corpus unicum una serie di norme e regole nel settore dei servizi pubblici. Un ruolo preminente era riconosciuto alle c.d. “aziende municipalizzate”, ab origine, prive di personalità giuridica, ma dotate di un proprio bilancio con il quale provvedevano all’erogazione di servizi in favore della collettività. In particolare, il t.u sull’assunzione diretta dei servizi pubblici degli enti locali (R.D. 1925, n. 2578) prevedeva tre modalità diverse di gestione e di erogazione e, precisamente, quella in via esclusiva o in economia, giacché l’ente provvedeva attraverso propri mezzi ed uffici; quella di concessione del servizio alle aziende municipalizzate; quella, infine, di concessione a terzi.

Con l’implementazione del numero delle persone da soddisfare e al fine di conformare il sistema delineato ai principi comunitari di libera concorrenza del mercato, di non discriminazione e di trasparenza (rispettivamente sanciti dagli artt. 14 e 106, par. 2 del Trattato UE), il legislatore italiano è venuto a predisporre dei modelli di gestione dei servizi pubblici locali più in linea con le esigenze del libero mercato. Benché, infatti, le forme di affidamento diretto siano state a lungo utilizzate dagli enti pubblici, la nota tecnica c.d. “esternalizzazione”, ha spinto sempre più verso un affidamento a terzi esterni, solitamente soggetti privati. Il legislatore è, dunque, intervenuto con il D. Leg. n. 142 del 1990 riconoscendo la personalità giuridica alle aziende municipalizzate; in secondo luogo, nel 1992, prevedendo ex novo la possibilità dell’erogazione del servizio pubblico anche nella forma della società di capitali. Il citato art. 113 TUEL consente, in via astratta, ai Comuni e alle Province di affidare l’erogazione del servizio pubblico ad una società controllata. Tale previsione è in contrasto con i principi comunitari, specialmente, di libera concorrenza di cui agli artt. 114 e 106, par. 2 Trattato, nonché in antitesi alla concezione di esternalizzazione delle forme di gestione.

Tale tipologia di affidamento diretto, nato come in house, è sorto in sede comunitaria, quando la Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere sulla legittimità di tale modello di gestione nel caso Teckal (Corte giust., 1999, C-107/98). Ad avviso dei giudici comunitari, due sono i presupposti che giustificano l’adozione del modello in house per l’erogazione del servizio pubblico. In primis, il c.d. “controllo analogo” alle proprie attività sui servizi affidati direttamente alla società in house; in secundis, la “destinazione prevalente dell’attività” esercitata dalla società controllata a favore della società controllante.

I giudici amministrativi hanno puntualizzato, al fine di meglio precisare il presupposto del controllo analogo, che per tale deve intendersi il rapporto di subordinazione intercorrente tra l’amministrazione e il gestore aggiudicatario che si sostanzia in una direzione unilaterale degli obiettivi strategici e in un’influenza pressoché dominante della prima sulla controllata (Cons. Stato, n. 1574, 2007). La giurisprudenza comunitaria ha, inoltre, aggiunto nel caso Stadt Halle (Corte giust., n. 26, 2003), al fine di restringere alla massimo l’utilizzo del modello in house, che il modello da ultimo citato sia consentito nelle limitate ipotesi di partecipazione pubblica totalitaria ed originaria.

Una questione di notevole importanza si è posta in merito alla possibilità di una partecipazione azionaria con capitale privato. La giurisprudenza nazionale si è posta in maniera ferma sul punto negando in ogni caso l’ingresso di capitale privato per la gestione di servizi pubblici. La giurisprudenza comunitaria, invece, ha mitigato i criteri rigidi derivanti dal caso Teckal prevedendo la facoltà di partecipazione con capitale privato a due condizioni: che venga meno l’affidamento diretto del servizio pubblico; che il soggetto privato venga selezionato con apposita procedura ad evidenza pubblica.

In questo senso vanno segnalate le recenti riforme del 2016, il D. Leg. 175/2016 sulle società partecipate e il D. Leg. 50/2016 sui contratti pubblici, che, rispettivamente agli artt. 4, co. 2 e 5, stabiliscono limiti tassativi dell’oggetto e requisiti che deve possedere la società in house ai fini dell’esclusione della procedure ad evidenza pubblica.

L’ulteriore forma di affidamento diretto, quello della società mista, era originariamente connotata alla stregua della giurisprudenza comunitaria sopra menzionata. Secondo orientamento costante del Consiglio di Stato, gli elementi caratterizzanti tale forma di gestione sono la totale autonomia, amministrativa e contabile dell’ente aggiudicatrice e la garantita terzietà e di non immedesimazione del gestore dell’ente.

Con la riforma delle società partecipate, sono venuti meno i dubbi interpretativi circa la caratterizzazione della società mista. Ai sensi dell’art. 17 del D. Leg. 175/2016 vengono considerate società miste le società nelle quali “la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al 30% e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica“. Merita di essere rilevato che, già nel 2007, un completo ed esaustivo parere del Supremo Consesso aveva individuato i due requisiti di legittimità per l’erogazione dei servizi pubblici nella forma di società mista: in primo luogo la selezione del soggetto privato mediante procedura ad evidenza pubblica. In secondo luogo la fissazione di limiti temporali nel contratto di servizio, onde evitare una stabile ed indeterminata permanenza del partner privato all’interno della società (Cons. Stato, n. 456/2007).

In conclusione, le soluzioni accolte nel settore dei servizi pubblici locali e delle forme di gestione di quest’ultimi, appaiono conformarsi adeguatamente e congruamente ai principi comunitari, anche alla luce delle recenti direttive, seppur segnatamente delineate per gli appalti e le concessioni di servizi, del Parlamento europeo e del Consiglio europeo del 2014 (Direttive nn. 23, 24 e 25/2014/CE).


FONTI:

F.G. SCOCA, Diritto Amministrativo, 2017.

F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, 2017, dike giuridica editrice.


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Enrico Sericola

Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.

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