Sezioni Unite, esiste il diritto a non nascere se non sani?

Sezioni Unite, esiste il diritto a non nascere se non sani?

Cass. Civ, Sez. Un., 22 dicembre 2015,  n. 25767

a cura di Paolo Ferone

La madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici.

Il nato con disabilità non è legittimato ad agire per il danno da “vita ingiusta”, poiché l’ordinamento ignora il “diritto a non nascere se non sano”.

Con la sentenza in esame le S.U. della Corte di Cassazione hanno riproposto ed affrontato sia l’annosa questione del riparto dell’onere della prova in tema di risarcimento dei danni richiesti da nascita indesiderata sia la legittimazione al risarcimento del danno del figlio nato malato.

Da un lato, ad avviso della Corte, ci troviamo di fronte all’impossibilità di scelta della madre annoverabile alla negligente carenza informativa da parte del medico, la quale è fonte di responsabilità civile. Invero, la gestante affida se stessa ad un professionista sul quale grava l’obbligo di rispondere adeguatamente alle richieste della gestante.

Di converso, occorre che l’interruzione sia legalmente consentita, dovendosi senza dubbio alcuno applicarsi i dettami previsti dalla legge 194 del 1978, senza i quali l’interruzione della gravidanza integrerebbe un reato. A questo deve sommarsi la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza. Il thema probandum, dunque, è costituito da un fatto complesso, composto da molteplici circostanze e comportamenti dilazionati temporalmente, riassumibili come segue:

  • rilevante anomalia del nascituro;

  • omessa informazione del professionista;

  • grave pericolo per la salute psicofisica della donna;

  • la scelta abortiva della gestante.

Orbene, come facilmente deducibile, fornire tale dimostrazione analitica diventa estremamente complesso, per questo, secondo i Giudici della Corte, il problema si potrebbe risolvere ponendo ad oggetto alcuni elementi probatori che si ritengano rappresentativi dell’insieme del fatto e dai quali sia possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell’intero fatto complesso. Nel caso preso ad esame, la prova verteva su un fatto psichico, ossia su di uno stato psicologico, dato dall’intenzione e dall’atteggiamento volitivo della donna, considerati rilevanti da questa. Il problema della prova del fatto psichico è che non se ne può fornire una rappresentazione immediata e diretta, dunque non è oggetto di prova in senso stretto. Come assolvere dunque tale onere probatorio?

In primis, attraverso la prova di altre circostanze dalle quali si può risalire induttivamente all’esistenza del fatto psichico che si deve accertare. In secondo luogo, si dovrebbe cercare di applicare la concezione quantitativa, intesa come frequenza di un dato evento in una serie di possibilità date, ossia il parametro del “più probabile che no”.

Ad avviso degli Ermellini, l’onere probatorio dei presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna gestante ex art. 2697 cod. civ., tuttavia tale onere potrebbe anche essere assolto in via presuntiva.

Ma a quale tipo di presunzione si riferisce la Corte?

Sicuramente non si tratta né di una presunzione legale, sia anch’essa iuris tantum, poiché la definizione in via generale ed astratta appartiene al legislatore e che si riassume in una semplificazione della fattispecie legale, esimendo la parte dell’onere di provarne uno o più elementi integrativi, ulteriori rispetto alla premessa fattuale.

Ci si deve invece riferire, alla c.d. praesumptio hominis, la quale risponde ai requisiti dell’art. 2729 cod. civ., esprimendosi nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, basato non solo su di un sistema di correlazioni statistiche, ma anche su circostanze contingenti, anche atipiche (ricorso al consulto medico per conoscere le condizioni di salute del nascituro, precarie condizioni psico-fisiche della gestante etc.)

Il secondo motivo di ricorso ha sollevato non pochi scontri, dettati da considerazioni antropologiche e politiche, miste ad una ragionevole valenza etica. Nucleo centrale del secondo motivo di ricorso è la legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta del medico non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio previsto all’art. 1 cod. civ. (“la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”).

Secondo i Giudici la soggettività giuridica non è punto indispensabile per confermare la legittimazione del figlio disabile ad agire per il risarcimento di un danno. La stessa Corte ha già in precedenza negato l’esclusione al risarcimento del danno sul solo presupposto che il fatto colposo si sia verificato anteriormente alla nascita.

Le Sezioni Unite, prendendo ad esempio diversi riferimenti legislativi (art. 254 c.c., legge 405 del 1975, legge 194 del 1978), hanno ricostruito una cornice dogmatica che, a loro avviso consentirebbe l’ammissibilità dell’azione del minore, volta ad un risarcimento del danno. La particolarità in questa ipotesi risiede nel fatto che il medico sia autore mediato del danno, poiché ha privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge, attraverso una condotta omissiva che si pone in rapporto diretto di causalità con la nascita indesiderata; una tale soluzione sarebbe anche applicabile nel caso di responsabilità medica verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori riguardo la somministrazione di un farmaco, oppure di una malattia della gestante che potrebbe ripercuotersi sulla salute del feto.

A questo punto l’attenzione si sposta sul concetto di danno-conseguenza (art. 1223 c.c.), descrivibile come l’avere di meno a seguito dell’illecito. Nell’ipotesi in esame il danno sarebbe legato alla vita del bambino, e l’assenza del danno? Comporterebbe la sua morte. Seguendo questa impostazione si incorre in una contraddizione insuperabile sul punto, poiché il secondo termine di paragone sarebbe la non vita, e come facilmente intuibile la non vita non può essere considerato un bene della vita.

Secondo la Corte anche prendendo come spunto l’art 2043 c.c., verrebbe meno il concetto stesso di danno ingiusto, poiché non si può parlare di un diritto a non nascere. Per comprendere meglio la cosa potremmo considerare a titolo esemplificativo il diritto al suicidio, cosa che nel nostro ordinamento non è configurabile, invero tutelato a contrario in chi produca lesioni nel tentativo di salvare la persona che tenti di compierlo (c.d. male maggiore).

La stessa Corte, trovandosi di fronte una decisione che ha investito prepotentemente i diritti fondamentali della persona umana, ha mosso un’analisi comparatistica con gli altri ordinamenti, i quali hanno nella maggior parte dei casi respinto la richiesta di risarcimento del danno sulla base di argomentazioni uguali o simili a quelle sopra esposte dalla stessa Corte (vd. Evoluzione normativa in Francia dopo la sentenza cd. Affaire Perruche; California Court of Appeal 1980 Curlender v. Bio Science Laboratories).

Pertanto, la Suprema Corte ha accolto, sulla base di queste esaurienti argomentazioni, soltanto il primo motivo di ricorso.

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