La Cassazione a Sezioni Unite n. 12348 del 2019 sull’art. 73 d.P.R. 309/1990

La Cassazione a Sezioni Unite n. 12348 del 2019 sull’art. 73 d.P.R. 309/1990

L’art. 73 del D.P.R. 309/1990 punisce anche la condotta di chi coltiva, senza l’autorizzazione del Ministero della sanità, sostanze stupefacenti. Si tratta di un reato di pericolo astratto nel quale vi è una anticipazione della tutela penale nel momento in cui viene adottata una condotta, potenzialmente, lesiva del bene giuridico tutelato.

La categoria dei reati si distingue in reati di pericolo e reati di danno, la prima classificazione a sua volta si divide tra quelli di pericolo astratto e quelli di pericolo concreto. Come in premessa accennato, il reato di coltivazione ex art. 73 T.U. stupefacenti è un esempio, appunto, di reato a pericolo astratto perché la coltivazione in commento è punita in quanto ritenuta pericolosa nel mettere a repentaglio interessi giuridici protetti. Vi è una valutazione ex ante sulla potenzialità lesiva dei comportamenti vietati da tale norme ancorata ad un giudizio di esperienza, in base al quale, ritenere che dalla realizzazione di una condotta, probabilmente, deriverà una certa conseguenza dannosa.

Nelle fattispecie criminose di pericolo concreto trova applicazione il principio di offensività in concreto perché la condotta, astrattamente, lesiva del bene giuridico protetto richiede, per la sua punibilità, una valutazione ex post compiuta dal giudice al quale viene sottoposto il fatto compiuto. In questo caso vi è più margine di possibilità che la pena non venga applicata se il giudice ritenga la condotta, riconducibile alla previsione legislativa, inidonea a ledere il bene giuridico tutelato. Si parlerà in questo caso di reato impossibile ai sensi dell’art. 49 com.2 c.p.

Invece, i reati di danno sono quelli che, per la punibilità dell’agente, richiedono che sia ravvisabile una effettiva lesione totale o parziale.

La pericolosità nella coltivazione risiede nella sua attitudine a produrre e, probabilmente, a diffondere quantitativi indeterminati di sostanze droganti a danno della salute individuale e collettiva, dell’ordine pubblico e della sicurezza di tutti ed, in particolare, delle nuove generazioni.

Malgrado il reato menzionato sia punibile di per sé, per il solo fatto che venga messo in pericolo il bene giuridico protetto, è ormai pacifico in giurisprudenza che l’astratta configurazione della previsione legislativa debba essere affiancata da una valutazione su come sono realmente andati i fatti e se vi è stato un concreto pericolo per l’interesse difeso.

Vi è stato un lungo contrasto giurisprudenziale che ha visto opporsi due orientamenti. Il primo, in ossequio al principio di offensività in astratto, affermava che fosse sufficiente per la punibilità della coltivazione semplicemente il possesso della pianta conforme al tipo botanico vietato e la sua attitudine, anche per le sue modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente.

Per il secondo orientamento, oltre al possesso della pianta idonea a produrre sostanza drogante era necessario, altresì, che la condotta dell’agente fosse nel concreto pericolosa ovvero fosse tale da generare il pericolo ad una diffusione della droga.

La differenza tra i due schieramenti è la valutazione sulla condotta che è ex ante nel primo caso, invece, ex post nel secondo. La differenza comporta conseguenze rilevanti perché l’agente, nella prima ipotesi, viene punito solo perché ha assunto un comportamento di per sé pericoloso nell’altra solo se quella condotta pericolosa ha, realmente, posto in rischio il bene protetto.

A risolvere il contrasto in esame sono intervenute le Sez. Unite con sentenza n. 12348 del 2019 le quali hanno stabilito quando si debba parlare di coltivazione punibile, ex art. 73 D.P.R. 309/1990, e quando, invece, sia da considerarla penalmente irrilevante. Innanzitutto, perché si possa applicare la disposizione normativa summenzionata, è necessario che il soggetto possieda una pianta conforme al tipo botanico vietato e che la stessa sia idonea, in base alle tecniche di coltivazione utilizzate, a produrre sostanza drogante. Non è, invece, decisivo ai fini di un giudizio di punibilità che, al momento dell’accertamento da parte della polizia, sia riscontrabile un principio attivo in quanto, quest’ultimo, può maturare in un secondo momento. La punibilità non va ancorata ad eventi puramente casuali per evitare di giungere al paradosso che un soggetto venga punito solo perché, sfortunatamente, colto in possesso di una piantagione giunta a maturazione ed un altro, invece, giovare della non punibilità perché, al momento del controllo, la sua pianta si trovava in uno stato embrionale dove non fosse riscontrabile un quantitativo di sostanza drogante che, invece, si sarebbe prodotto con il tempo.

Oltre ai dati sopra indicati, bisogna guardare al numero non scarso delle piante , alle dimensioni importanti della coltivazione, che si svolga in forma industriale e non domestica, un quantitativo di principio attivo superiore a quello consentito, le strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate e se il coltivatore sia inserito all’interno del mercato degli stupefacenti.

Se si è in presenza di una coltivazione che, per le sue modalità di coltivazione, sia potenzialmente in grado di produrre un quantitativo indeterminato di sostanze stupefacenti si configurerà il reato ex art. 73 D.P.R. 309/1990.

Quando, invece, è certo che una pianta non sia idonea a produrre un quantitativo indeterminato di droga ma solo nella misura di un uso personale allora la coltivazione sarà ritenuta lecita e la condotta sarà punibile quale illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 75 T.U. stupefacenti.


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Alessandra Albanese

Laureata in giurisprudenza con la passione per la legge, le piace approfondire continuamente gli aspetti giuridici nei vari settori del diritto e condividere quanto appreso assieme agli altri.

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