Silenzio della P.A. e atti amministrativi generali

Silenzio della P.A. e atti amministrativi generali

Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 novembre 2020, n. 7316

Il silenzio inadempimento: nozione, differenze e presupposti. Il silenzio inadempimento o cd. silenzio rifiuto ravvisa il suo fondamento nell’art. 2 della L. 241/1990, che prevede l’obbligo di concludere il procedimento con provvedimento espresso nel termine di trenta giorni, salvo non sia previsto un termine diverso con procedure definite dall’art. 2 e con la fissazione dei termini massimi quali limite alla libera determinazione della P.A. Il dies a quo decorre dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento dell’istanza di parte. L’articolo 2 bis della L. 241/1990 disciplina, invece, le conseguenze del ritardo con cui la P.A. adotta il provvedimento finale.

L’istituto ha origine giurisprudenziale, in quanto elaborato per risolvere il problema dell’assenza di un provvedimento da impugnare nei casi di mera inerzia serbata dalla P.A.: si considerava il silenzio quale atto negativo tacito suscettibile di diretta impugnazione davanti al giudice amministrativo, così consentendo al privato di agire per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.

Successivamente, la giurisprudenza ha preso atto del carattere meramente comportamentale del silenzio inadempimento che, infatti, deve essere tenuto distinto rispetto ad ulteriori fattispecie di silenzio che il nostro ordinamento contempla, primo fra tutti il silenzio significativo.

In tale ultima ipotesi, l’inerzia della P.A. acquista valenza provvedimentale, di accoglimento o di rigetto, per espressa disposizione normativa. Nel primo caso, il silenzio è detto “assenso” e costituisce regola generale alle condizioni di cui all’art. 20 L. 241/1990; il silenzio “diniego”, invece, presuppone una previsione specifica di legge che colleghi all’inerzia della PA il significato di rigetto dell’istanza (ad es. art. 53, co 10 d. lgs. 165/2001).

Il silenzio può anche essere devolutivo, quando comporta l’attribuzione della competenza ad altra autorità amministrativa (art. 17, co 1 L. 241/1990) o facoltativo, quando è richiesto all’amministrazione un mero parere, così delineando un silenzio a carattere procedimentale. Vi sono, poi, altre ipotesi normative di silenzio previste da leggi di settore.

Il silenzio inadempimento, come anticipato, si ha in tutti quei casi in cui, nonostante la richiesta di provvedimento, la P.A. ometta di provvedere e la legge non contenga nessuna indicazione circa il valore da attribuire a tale inerzia. È necessario, dunque, che sussista un obbligo di provvedere in capo alla P.A., come accade in presenza di una norma attributiva al privato del potere di presentare un’istanza; in tal caso, alla posizione giuridica differenziata del singolo corrisponde l’obbligo in capo all’amministrazione di emanare il provvedimento. Del resto, tale assunto è suffragato dai principi generali di doverosità, di ragionevolezza e buona fede che ispirano l’azione amministrativa.

Giova considerare che la giurisprudenza ha circoscritto nel tempo le ipotesi in cui è possibile individuare un obbligo di provvedere in capo alla P.A., escludendolo nei casi in cui si richieda l’emanazione di un atto in autotutela, per il riesame di un provvedimento non impugnato nei termini; altrimenti opinando, infatti, si determinerebbe la violazione del termine decadenziale, previsto in virtù di esigenze di certezza. Parimenti, non sussiste un obbligo a provvedere quando l’istante chiede l’estensione a suo favore del giudicato formatosi in relazione ad altro ricorrente, nonché quando sia richiesto l’esercizio di un’attività meramente materiale e non di gestione dell’interesse pubblico. Lo stesso dicasi per gli atti unilaterali aventi natura negoziale, in quanto privi del carattere di provvedimento amministrativo (ad es. gli atti che la P.A. adotta in veste di datore di lavoro). Di conseguenza, in tutti questi casi è preclusa l’azione per far valere l’inerzia della P.A.

Questione problematica. Ciò posto, è bene considerare che la giurisprudenza prevalente esclude il ricorso al rito avverso il silenzio anche nel caso in cui manchi uno specifico destinatario dell’azione amministrativa; ciò accade con gli atti normativi e gli atti a contenuto generale che, per la loro genericità e astrattezza, hanno quali destinatari l’intera collettività. Senonché, ci si è chiesti se siano individuabili alcuni casi in cui la suddetta preclusione non operi. Sul punto è intervenuta la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 novembre 2020, n. 7316. Prima di illustrare le considerazioni svolte dai giudici in tale pronuncia, giova soffermarsi, sia pur brevemente, sulla natura di tali atti.

Atti amministrativi generali e atti normativi: ammissibilità dell’azione avverso il silenzio. Mediante l’adozione di atti amministrativi a contenuto generale, la PA provvede alla cura e alla tutela concreta dell’interesse pubblico, rivolgendosi ad una platea di destinatari indeterminati, ma determinabili. Questi atti sono soggetti al regime del provvedimento, ma spesso, proprio per il loro contenuto generale, non sono autonomamente impugnabili, in quanto non ledono immediatamente l’interesse dei privati. Essi, quindi, devono essere impugnati unitamente agli atti applicativi a valle.

Gli atti normativi, come i regolamenti, hanno invece la funzione di innovare l’ordinamento giuridico, introducendovi regole generali e astratte. Questi ultimi, dunque, sono soggetti alla disciplina legislativa del procedimento, sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo e disapplicabili dal giudice ordinario, ma ai loro procedimenti non si applicano le norme sulla partecipazione degli interessati né possono essere derogati da atti puntuali; la loro violazione dà luogo a illegittimità per violazione di legge.

L’elemento discretivo tra i due tipi di atti, dunque, non risiede nella generalità, ma nell’astrattezza e innovatività, ossia nella capacità propria dell’atto normativo di disciplinare tutte le fattispecie che in futuro presenteranno le condizioni richieste dalla norma, nonché di innovare l’ordinamento, in quanto efficace fino all’intervento di una successiva norma modificativa o abrogativa.

Di dubbia collocazione nel sistema delle fonti sono gli atti di pianificazione e programmazione, emanati a monte delle decisioni amministrative, che individuano obiettivi, modalità, mezzi e tempi dell’attività amministrativa; pur rientrando nella categoria degli atti generali, è difficile individuare il loro regime giuridico, in quanto possono includere sia previsioni generali che prescrizioni puntuali. In tale sede, basti evidenziare che la giurisprudenza, intervenuta in relazione al piano regolatore generale, ne ha evidenziato la natura ibrida, in parte normativa, in parte amministrativa generale, con i conseguenti risvolti pratici in sede di tutela giurisdizionale.

Tanto premesso, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono interrogate circa la coercibilità o meno del silenzio della P.A. nell’emanazione di atti generali o di pianificazione.

Un primo indirizzo ermeneutico ritiene che sia impossibile individuare un destinatario specifico di tali atti, per cui non residuerebbe alcuno spazio per la tutela partecipativa e in senso lato procedimentale, come previsto dall’articolo 13 della L. n. 241/1990. Si tratta, peraltro, di atti inidonei a creare da sé soli lesioni dirette a destinatari specifici.

Trattandosi di scelte pianificatorie a contenuto discrezionale, dunque, non sarebbe possibile applicare il rito speciale del silenzio-inadempimento ex art. 117 c.p.a. che, viceversa, presuppone un obbligo di provvedere in capo alla P.A.

Secondo un diverso orientamento, tra l’altro fatto proprio dalla Corte Costituzionale (sent. n. 355/2002; n. 176/2004), la disciplina sul termine a provvedere sarebbe applicabile anche agli atti generali, allorquando sia possibile individuare dei destinatari specifici, così seguendo un approccio casistico che tiene conto delle peculiarità del singolo atto in questione. Tale soluzione, dunque, presuppone l’adesione alla tesi della natura mista degli atti generali o di pianificazione.

L’intervento del Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 novembre 2020, n. 7316. Di tale dibattito ha dato atto la recente sentenza del Consiglio di Stato n. 7316/2020, la quale ha affermato che la non esperibilità del ricorso avverso il silenzio rispetto alla mancata adozione di atti normativi o amministrativi generali è causa non già del solo carattere regolamentare o generale di questi, ma del fatto che essi si rivolgano a una pluralità indifferenziata di soggetti destinatari.

Più nel dettaglio, i giudici sono intervenuti nella controversia sorta a seguito del ricorso ex art. 117 c.p.a. promosso dal privato, che lamentava la mancata approvazione, da parte di RFI S.p.a., del Piano di interventi per contenere l’inquinamento acustico derivante dall’infrastruttura ferroviaria antistante la propria abitazione.

In disparte le osservazioni prospettate dalle diverse parti del processo, la società eccepiva l’inammissibilità del ricorso sulla base di due argomentazioni: da un lato, in ragione dell’elevata discrezionalità riconosciuta alla P.A. nell’adozione del provvedimento di competenza (in quanto il Piano degli interventi di contenimento e abbattimento del rumore non sarebbe adottato ad impulso di parte, ma d’ufficio); dall’altro, a causa dell’impossibilità di individuare specifici destinatari di tali atti, titolari di  una posizione di interesse legittimo.

Il silenzio inadempimento, infatti, presuppone vi sia un obbligo giuridico dell’amministrazione destinataria della richiesta, di provvedere mediante avvio di un procedimento amministrativo volto all’adozione di un atto tipizzato.

Il Consiglio di Stato richiama i due diversi orientamenti, uno contrario ad ammettere il rito speciale rispetto all’adozione di atti amministrativi generali e l’altro, di segno opposto, che riconosce tale possibilità al ricorrere di talune condizioni.

Nel primo senso si è pronunciata la giurisprudenza prevalente (ad es. Cons. di Stato n. 7090/2018; n. 6096/2017), facendo leva sull’impossibilità di individuare specifici “destinatari” degli atti generali. Pertanto, la preclusione non dipende dal mero carattere regolamentare o generale dell’atto, ma dalla difficoltà ad individuare i requisiti della legittimazione e dell’interesse a ricorrere in capo a chi si attivi per l’adozione di tali provvedimenti.

Per questo motivo, altra parte della giurisprudenza (da ultimo Cons. giust. amm., n. 905/2020; Cons. Stato n. 273/2015) ha individuato interessi legittimi differenziati e qualificati nell’ipotesi di procedimenti officiosi aventi ad oggetto attività di natura generale programmatoria e pianificatoria dovuta nell’an, ma discrezionale nel quomodo e nel quid; in mancanza di una puntuale previsione normativa, dunque, l’amministrazione non può sospendere o interrompere sine die il relativo procedimento di approvazione. I principi di cui all’art. 2, co 2 della L. 241/1990, infatti, valgono anche rispetto agli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione.

La sentenza in commento accoglie quest’ultima soluzione, evidenziando che il dovere di concludere il procedimento entro il termine prescinde dal fatto che esso consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio: “in entrambi i casi, l’inosservanza del termine per la definizione del procedimento, pur non comportando la decadenza dal potere, connota in termini di illegittimità il comportamento della pubblica amministrazione, con conseguente possibilità per i soggetti interessati di ricorrere in giudizio avverso il silenzio-rifiuto ritualmente formatosi, al fine di tutelare le proprie posizioni giuridiche soggettive attraverso l’utilizzo di tutti i rimedi apprestati dall’ordinamento.”

Peraltro, “non rileva neppure l’ampiezza della discrezionalità, a meno che questa riguardi anche l’“an” del provvedere”, dato che, al pari di quanto accade per gli atti normativi, è da escludersi la sussistenza di un obbligo di provvedere, in considerazione delle valutazioni lato sensu politiche riservate all’Amministrazione che rendono l’inerzia insindacabile da parte del g.a. (ex art. 7, co. 1, ultimo periodo, c.p.a.).

L’ampiezza del potere discrezionale comporta unicamente la limitazione dei poteri del giudice con riguardo alla portata conformativa della pronuncia sul silenzio ex art. 30, comma 3, del c.p.a. (secondo cui “Il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”). L’azione disciplinata dall’art. 117 del c.p.a., infatti, ha natura strumentale e il giudice non può pronunciarsi sul merito della pretesa azionata, salvo che si tratti di attività vincolata o rispetto alla quale la P.A. abbia esaurito ogni discrezionalità.

Alla luce di tali considerazioni, i giudici risolvono il caso di specie evidenziando che il Piano di contenimento acustico disciplinato dall’art. 10, comma 5, del d.P.R. n. 447 del 1998, non è propriamente un atto di pianificazione espressione di potere di governo, quanto un programma di interventi specifici da eseguire. Ne deriva una posizione di interesse legittimo, in capo al ricorrente, differenziata da quella degli altri potenziali destinatari dei benefici derivanti dalle opere di contenimento acustico e non individuabili ex ante (ad esempio, chi si trovi occasionalmente a frequentare la zona).

Azione avverso il silenzio-rifiuto ex artt. 31 e 117 c.p.a. A conclusione di tale disamina, è utile precisare che il legislatore consente al privato di agire innanzi al g.a. proponendo azione avverso il silenzio rifiuto (di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a.), consentendogli di ottenere l’accertamento dell’illegittimità della condotta omissiva serbata dalla P.A; la declaratoria dell’obbligo di provvedere e la nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inadempimento.

L’art. 31 c.p.a. disciplina sia l’azione avverso il silenzio sia quella di accertamento della nullità, occupandosi della dimensione “statica” dell’istituto; l’art. 117 c.p.a., invece, si occupa dei profili processuali connotanti il rito sul silenzio.

Più nel dettaglio, il comma 1 dell’art. 31 c.p.a. riconosce la legittimazione ad agire a “chi vi ha interesse”, sicché è necessario che il ricorrente sia titolare di una posizione sostanziale qualificata e differenziata; ciò si comprende alla luce dell’esistenza di un dovere di procedere in capo all’amministrazione, a fronte del quale sorge l’aspettativa del privato a conoscere il contenuto e le ragioni del provvedimento.

Il comma 2, inoltre, prevede l’esperibilità dell’azione fino a quando perdura l’inadempimento e comunque entro un anno dalla scadenza dei termini in cui la PA deve concludere il procedimento. La ratio di tale previsione è da ravvisarsi nell’esigenza di evitare che la P.A. sia esposta sine die al rischio di un’azione giurisdizionale. Scaduto l’anno di azionabilità del rimedio, il privato potrà, se ancora ne sussistono i presupposti, riproporre l’istanza alla P.A. e, in caso di ripetuto contegno omissivo, riproporre una nuova azione avverso il silenzio.

Il comma 3 delimita i poteri cognitori del giudice adito con il rito ex art. 117 cpa consentendogli di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa “quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”, così segnando il passaggio del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto. Tuttavia, è preclusa al giudice la possibilità di valutare la fondatezza dell’istanza in presenza di attività discrezionale “pura” e nei casi in cui è necessario acquisire gli elementi istruttori demandati ad un procedimento che non si è mai svolto o si è svolto in modo incompleto, senza sfociare nell’emanazione del provvedimento.

L’art. 117 c.p.a., rubricato “Ricorsi avverso il silenzio”, prevede un rito speciale e abbreviato e stabilisce che i ricorsi vengano decisi in camera di consiglio, con sentenza in forma semplificata.

I commi 3 e 4 della norma si occupano della fase di esecuzione del rito sul silenzio, prevedendo la nomina del commissario ad acta con la sentenza che definisce il giudizio, previa istanza. Si precisa, poi, che il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, comprese quelle relative agli atti del commissario.

Quanto al riparto di giurisdizione, infine, giova considerare che il silenzio non costituisce una materia autonoma, per cui al fine di individuare il plesso giurisdizionale innanzi al quale azionare la propria pretesa, occorre guardare al rapporto cui inerisce la richiesta rimasta inevasa. In altri termini, l’azione di cui all’art. 117 c.p.a. presuppone, senza fondarla, la giurisdizione del giudice amministrativo.


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