Spoil system e le forme di tutela per la dirigenza

Spoil system e le forme di tutela per la dirigenza

Nelle pagine che seguiranno si procederà preliminarmente alla illustrazione dei rapporti tra organi di indirizzo politico ed organi amministrativi. Al centro di questi rapporti è indubbiamente l’incarico dirigenziale ed in particolare la sua durata, la possibilità di revocarlo anticipatamente o di farlo decadere automaticamente in occasione del mutamento della compagine di governo. Un particolare sguardo sarà poi riservato ad i meccanismi di tutela che possono essere accordate ai dirigenti illegittimamente rimossi dall’incarico, tali da intaccare la protezione dell’interesse pubblico.

La tensione tra imparzialità e fiduciarietà che connota ontologicamente l’istituto dell’incarico dirigenziale, unitamente alla difficoltà di coniugare i profili di imparzialità e neutralità dell’apparato amministrativo con gli organi deliberativi di origine elettorale, ha indotto, negli anni, la giurisprudenza ad interrogarsi in merito al rapporto tra politica ed amministrazione, di cui la figura del dirigente costituisce il fulcro. All’interno del modello di distinzione tra politica e amministrazione, tra gli strumenti volti ad incrementare il carattere fiduciario della nomina dei dirigenti e della loro dipendenza dal vertice politico vi è lo spoil system, ossia il meccanismo di sostituzione automatica o semi-automatica degli organi dirigenziali di vertice dell’amministrazione in occasione del subentro di un nuovo esecutivo, al fine di permettere alla compagine legislativa di mantenere il legame fiduciario con coloro i quali devono tradurre in atti amministrativi le scelte compiute dagli organi politici [1]. L’istituto in esame è stato oggetto di specifica previsione legislativa con la “Legge Frattini”, l. n. 145/2002, che ha previsto la possibilità di confermare, modificare o revocare le nomine entro sei mesi dal voto di fiducia al Governo, per poi ricevere analoga specificazione nell’articolo 19, comma 8, del Testo Unico n. 165 del 2001, il quale prevedeva che “gli incarichi di direzione degli uffici dirigenziali di cui al comma 3 possono essere confermati, revocati, modificati o rinnovati entro novanta giorni dal voto sulla fiducia del Governo. Decorso tale termine, gli incarichi per i quali non si sia provveduto si intendono confermati fino alla loro naturale scadenza” [2]. Il descritto sistema è stato tuttavia oggetto di numerose critiche, nonché numerosi interventi della Corte Costituzionale, tra cui, in particolare, si ricordano le sentenze n. 103 e 104 del 2007. Di fatto, se, in una prima fase, il Giudice delle Leggi ha cercato di circoscrivere i contorni della fiduciarietà e di individuare con maggiore precisione le figure dirigenziali nominate e revocate intuitu personae, circostanza compatibile con il dettato costituzionale, secondariamente la stessa Consulta ha ridimensionato tale impostazione, affermando la compatibilità tra tale principio e quello di imparzialità organizzativa e buon andamento della Pubblica Amministrazione, nei limiti in cui sussistano idonee garanzie a presidio della temporaneità. Nello specifico, con la sentenza n. 103 del 23 marzo 2007, la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità del c.d. spoils system dei dirigenti pubblici previsto dall’art. 3, comma 7, della L. n. 145 del 2002, fissando anche gli esatti termini di un corretto rapporto tra politica ed amministrazione, secondo le linee indicate dalla normativa sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego. Nel caso in esame, i remittenti censuravano l’art. 3, comma 7, della L. n. 145 del 2002 (recante “Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato”) che per la prima volta introduceva nel nostro ordinamento, ad eccezione che per i dirigenti “semplici’, un meccanismo di cessazione dagli incarichi dirigenziali “automatico”, ossia non legato, funzionalmente, ad alcuna valutazione negativa sui risultati dell’attività svolta dai dirigenti, lamentando un contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione. La Consulta, dopo avere puntualmente ricostruito l’evoluzione storica del lavoro dirigenziale pubblico degli ultimi decenni, ha ritenuto suddetta previsione legislativa costituzionalmente illegittima, in quanto violerebbe il principio di continuità amministrativa, strettamente connesso con quello del buon andamento[3]. In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità, il rapporto di lavoro, seppure privatizzato, deve essere assistito da specifiche garanzie che assicurino “la tendenziale continuità dell’azione amministrativa, di talchè l’interruzione automatica dell’incarico dirigenziale, prima della sua naturale scadenza, deve essere in ogni caso assistita dai principi sul c.d. “giusto procedimento” di cui alla legge n. 241/1990, in primis, dall’obbligo di motivazione. In tal senso, la Consulta ha dunque ritenuto necessario che sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa e per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista: soltanto all’esito di tale procedimento potrà essere disposta la cessazione dell’incarico, purché esso sia adottata con atto motivato, suscettibile di controllo giurisdizionale[4]. Sulla stessa scia tracciata dalla Corte nella sentenza n. 103 del 2007, si pone un’altra pronuncia d’incostituzionalità, immediatamente successiva, ossia la sentenza n. 104 del 2007[5]. Con la suindicata sentenza, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che i meccanismi di decadenza automatica, “ove riferiti a figure dirigenziali non apicali, ovvero a titolari di uffici amministrativi per la cui scelta l’ordinamento non attribuisce, in ragione delle loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al criterio della personale adesione del nominato agli orientamenti politici del titolare dell’organo che nomina, si pongono in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la continuità dell’azione amministrativa, introducono in quest’ultima un elemento di parzialità, sottraggono al soggetto dichiarato decaduto dall’incarico le garanzie del giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente dall’accertamento oggettivo dei risultati conseguiti“[6].

Nella prospettiva del diritto del lavoro, acclarato, sul piano sostanziale, che un dirigente pubblico sia stato illegittimamente rimosso dall’ufficio affidatogli, bisogna domandarsi quali siano le tutele esigibili. Preliminarmente occorre interrogarsi sull’ammissibilità dell’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente pubblico rimosso dall’incarico o, addirittura, licenziato. Al riguardo, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 351 del 2008, ha osservato che a differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere dell’amministrazione di esonerare un dirigente dall’incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi[7]. In tale contesto, il giudice delle leggi ha dichiarato l’incostituzionalità di una disciplina regionale che aveva previsto il solo risarcimento per equivalente del danno subito da dirigenti ingiustamente revocati. Nell’ottica della Corte, “le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi”. Problema irrisolto sarà invece la coercibilità dell’ordine di reintegra, atteso che l’art. 612 del codice di procedura prevede, in tema di esecuzione forzata degli obblighi di fare, che il giudice possa determinare le “modalità dell’esecuzione “, formula, come noto, vaga, poiché incapace di dirimere i casi in cui l’esecuzione può essere imposta, se necessario, con il ricorso ad un commissario ad acta, dai casi in cui essa incontri un limite ontologico nell’infungibilità della prestazione[8]. In tale contesto, appare utile soffermarsi, più brevemente, sul problema del risarcimento del danno da spoils system, delle voci riconoscibili e della sua quantificazione. Questione più dibattuta riguarda la configurabilità dell’eventuale demansionamento patito a causa dell’attribuzione di un ruolo inferiore conferito al dirigente. Sul punto, l’orientamento giurisprudenziale risulta altalenante. Da un lato, la Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 266 del 2019, ha ritenuto che – nei termini chiariti dalla Cassazione 8717/2017 ed a cui si può rimandare per identità di ratio – nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, qualora la privazione delle mansioni maggiormente caratterizzanti un incarico dirigenziale sia avvenuta a seguito di un provvedimento di riorganizzazione aziendale, viene a determinarsi una revoca implicita dell’incarico dirigenziale, sicché costituiscono profili rilevanti, ai fini del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, le ragioni dell’illegittimità del provvedimento, le caratteristiche, la durata e la gravità dell’attuato demansionamento, la frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione e le eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore di lavoro e comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, da cui consegue che detta retrocessione ad incarico dirigenziale di livello inferiore, seppure con invarianza economica, ma con peggiorativa variazione funzionale per l’inferiore livello, configura, in effetti, demansionamento. Dall’altro, la Cassazione civile, con la sentenza del 2019, n.34465, ha precisato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perchè rispetto alla cessazione anticipata dell’incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l’attribuzione dell’incarico non conferito, ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti. La Corte prosegue affermando che “non vigendo la regola dell’equivalenza delle mansioni, non può sostenersi che la mancata assegnazione di un incarico equivalente a quello in precedenza ricoperto costituisca automaticamente fonte di danno risarcibile, visto che, in tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio non determina un demansionamento (da ultimo Cass. n. 8674 del 2018)[9]; può, però, verificarsi che l’attribuzione di un incarico di studio, in ipotesi legittima, venga poi realizzata con modalità tali da configurare un inadempimento contrattuale per la compromissione della professionalità del lavoratore, anche nella forma della perdita di chance, ovvero per la lesione della sua dignità professionale (v. Cass. n. 26469 del 2017, in motivazione; più in generale v. Cass. n. 12678 del 2016), eventi forieri, questi sì, di danno risarcibile, che però deve essere allegato e provato dal danneggiato secondo i noti principi che presiedono all’accertamento ed alla liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, senza alcun automatismo che faccia ritenere sussistente un danno in re ipsa (Cass. n. 137/2019)”. Se dunque, il dirigente non può contestare l’affidamento in sé e per sé di un incarico deteriore rispetto a quelli in precedenza svolti, atteso che a quest’ultimo è riconosciuto esclusivamente un interesse legittimo di diritto privato, tutelabile ai sensi dell’art. 2907, c.c., viceversa, nulla impedisce, in caso di rimozione illegittima o di rassegnazione arbitraria, che il dirigente faccia valere le oggettive differenze di contenuto tra gli incarichi per fondare la pretesa risarcitoria del danno alla professionalità[10].

Sulla revoca degli incarichi dirigenziali ha contribuito anche il successivo intervento della spending review. Nello specifico, sull’art. 19 cit., come modificato dal menzionato D.Lgs. n. 150/2009, ha poi inciso sia la L. 30 luglio 2010, n. 122, di conversione, con modificazioni, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, recante le misure di contenimento della spesa pubblica anche del personale, sia la Legge 30 ottobre 2013, n. 125, sia, infine, la Legge 7 agosto 2015, n. 124, recante la delega parlamentare per una riforma del pubblico impiego, compresa la dirigenza, su cui si è però abbattuta la decisione della Consulta. Tra le misure di rilievo di cui al D.L. n. 78/2010 convertito dalla Legge n. 122/2010, è opportuno segnalare quella riportata dall’art. 9, comma 32, a mente del quale, per un verso, gli Enti che “alla scadenza di un incarico di livello dirigenziale, anche in dipendenza di processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una valutazione negativa, confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore”, non trovando applicazione, pertanto, le diverse disposizioni contrattuali e normative più favorevoli. In tal senso, la spending review ha finito con l’abolire le garanzie temporali del congruo preavviso, quelle sostanziali della motivazione e quelle procedurali del contraddittorio e della prospettazione delle possibili alternative di collocazione. Un’ulteriore modifica all’art. 19 è stata apportata dalla Legge n. 125, che, novellando il comma 5-bis, dispone quanto segue: “ferma restando la dotazione effettiva di ciascuna amministrazione, gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, anche a dirigenti non appartenenti ai ruoli di cui all’articolo 23, purché dipendenti delle Amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ovvero di organi costituzionali, previo collocamento fuori ruolo, aspettativa non retribuita, comando o analogo provvedimento secondo i rispettivi ordinamenti”. La disposizione in oggetto amplia lo spettro di scelta e la mobilità del personale dirigenziale, enfatizzando un punto, già chiarito dal Giudice di legittimità, ossia quello secondo cui il concorso per dirigente non costituisce il diritto all’assegnazione ad un determinato ruolo, assicurando, al contempo, l’invarianza della spesa per il personale[11].

In tal senso, rileva evidenziare che, con ordinanza n. 47708 del 22 aprile 2013, la sezione lavoro del Tribunale di Roma ha posto un significativo freno all’applicazione del decreto sulla spending review (DL n. 35/2012, conv. in L. n. 135/2012), nella parte in cui consente alle pubbliche amministrazioni di ridurre la spesa per il costo del lavoro, procedendo ad una revisione delle dotazioni organiche che può comportare anche la risoluzione dei rapporti di lavoro in eccedenza. Il Giudice del Lavoro capitolino infatti, ha affermato che le esigenze di contenimento della spesa pubblica consacrate nella legge da sole non rappresentano una sufficiente giustificazione per il licenziamento anticipato di un dirigente assunto a tempo determinato. Nella fattispecie, veniva accolto il ricorso presentato da una dirigente a tempo determinato della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il quale lamentava la revoca anticipata dell’incarico per effetto dell’applicazione delle norme sulla spending review e, a seguito dell’accoglimento, otteneva l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro fino alla scadenza pattuita. Il Giudice concludeva che la revoca anticipata dell’incarico dirigenziale, anche se a tempo determinato, rappresenterebbe non solo una lesione del diritto alla permanenza in servizio ma, alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di spoil system, sarebbe anche in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost.

Le questioni sopra esposte evidenziano la difficoltà di valutare la legittimità della scelta legislativa in tema di alta dirigenza, nonché l’individuazione delle forme di tutela più rapide ed efficaci, nell’ottica di garantire il miglior contemperamento degli interessi pubblici coinvolti.

 

 

 

 

 


[1] F. Caringella, “Manuale di diritto amministrativo”, Dike, 2020, p. 575.
[2] Si rammenta anche la previsione ex art. 14, comma 2, del D.lgs. n. 165, secondo cui all’atto del giuramento del Ministro, tutte le assegnazioni di personale, ivi compresi gli incarichi anche di livello dirigenziale e le consulenze e i contratti, anche a termine, conferiti nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, “decadono automaticamente ove non confermati entro trenta giorni dal giuramento del nuovo Ministro”.
[3] P. Sciortino, “Spoils system “una tantum”: i rapporti tra politica ed amministrazione secondo la consulta – il commento”, Il lavoro nella giurisprudenza, 8 / 2007, p. 769.
[4] G.P.Lioniti, “La dirigenza pubblica: criteri di identificazione e specialità della disciplina”, Università degli Studi di Palermo, 2016, pp. 116 e ss.
[5] Pronuncia con cui la Corte Costituzionale espunge dall’ordinamento le leggi della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9 (Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2005) e 11 novembre 2004, n.1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio) dichiarando “l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’articolo 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 2005, n. 9, e dell’articolo 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 2004, n. 1, nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina e che tale decadenza opera a decorrere dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata.
[6] Sulla stessa linea, sentenze n. 34 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007 della Corte Costituzionale.
[7] Corte Costituzionale, sentenza n. 351 del 2008.
[8] C. Benedetto, “Spoil system: quale tutela per i dirigenti rimossi?”, Giornale di diritto amministrativo, 6/2009, p. 626.
[9] Dello stesso avviso, Tribunale Roma sez. lav., 05/12/2018, n.9525: “il Giudice del Lavoro investito della nuova domanda circa la valutazione di un presunto demansionamento ritiene tuttavia di dover scindere le situazioni e che nessuna consequenzialità ne possa discendere. Sostiene, infatti, il giudice di prime cure che nell’ambito del pubblico impiego privatizzato il dirigente che aspiri ad un ruolo apicale si trovi nella medesima situazione di un lavoratore che partecipi ad una procedura di selezione concorsuale adottata dal datore di lavoro privato, escludendosi l’obbligo nei confronti alla P.A del ricorso della procedura concorsuale. Il datore di lavoro pubblico, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, è infatti tenuto nella scelta relativa al conferimento di incarichi di natura apicale al rispetto dei generali principi di correttezza e buona fede. Ne consegue che in tale ambito, anche ai sensi dell’art 19, d.lgs. n. 165 del 2001, a quest’ultimo è riconosciuta un’ampia potestà discrezionale, nei limiti comunque indicati, a cui consegue in capo a coloro che aspirano all’incarico esclusivamente un interesse legittimo di diritto privato, tutelabile ai sensi dell’art. 2907, c.c., come confermato da precedenti pronunce di legittimità. Il quadro descritto porta con se, allora, l’insussistenza di qualsivoglia demansionamento in caso di successiva attribuzione di un incarico di livello inferiore al dirigente prima in posizione apicale, non essendo rinvenibile alcun automatismo nel rinnovo dell’incarico”.
[10] Cassazione civile sez. lav., 07/01/2019, (ud. 10/10/2018, dep. 07/01/2019), n.137.
[11] P. Cosmai, “In attesa dell’ennesima riforma i giudici di legittimità e delle leggi salvano la dirigenza pubblica”, Azienditalia – il personale, 3 / 2017, p. 139.

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Matilde Olmi

Laureata in Giurisprudenza con votazione 110/110 con lode, presso l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Iscritta al secondo anno della Scuola di Specializzazione in Studi sull'Amministrazione Pubblica di Bologna. Tirocinante ex art. 73 presso la Sezione Gip-Gup del Tribunale di Bologna. Praticante avvocato. Specializzata in diritto penale, amministrativo, civile e lavoro.

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