Stalking e mobbing: la labilità di un confine nel rapporto tra analogia e interpretazione estensiva

Stalking e mobbing: la labilità di un confine nel rapporto tra analogia e interpretazione estensiva

Ai fini della configurabilità del c.d. mobbing, ipotesi non espressamente disciplinata dal codice penale, il cui eventuale ristoro in sede civile è riconducibile, a seconda di quanto storicamente verificatosi, all’art. 2087 c.c.[1] o anche alla previsione ex art. 2103 c.c.[2] rilevano la molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato con intento vessatorio[3]; l’evento lesivo della salute o della personalità; il nesso eziologico tra la condotta del soggetto agente e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore-persona offesa; la prova dell’elemento soggettivo[4].

Tale fenomeno consiste infatti in una serie di comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione, finalizzato all’obiettivo di escludere la vittima dal gruppo[5].

Disciplinato ex art. 612 bis c.p. il c.d. stalking si configura invece – nell’ipotesi semplice – quando con condotte reiterate, il soggetto agente minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura; da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita[6].

A tale fattispecie di reato è stato ricondotto nel 2014 dal Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Taranto, Dott. M. Rosati, l’agire discriminatorio e vessatorio posto in essere dagli imputati ai danni di un loro dipendente[7].

Nella motivazione della sentenza si legge “quae singula non probant simul unita probant. Tutt’altre rilevanza (..) gli (..) episodi assumono (..) laddove si collochino all’interno della complessiva vicenda lavorativa”.

Appare pregevole la motivazione della menzionata sentenza poiché evidenzia l’unicità del contesto in cui sono posti in essere i comportamenti umilianti, dequalificanti, offensivi e prevaricatori, finalizzati all’emarginazione del lavoratore, inquadrandoli come persecutori piuttosto che ascriverli – come sovente verificatosi – all’ipotesi delittuosa di cui all’art. 572 c.p., il quale sanziona la condotta di chiunque maltratti una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

I limiti all’applicazione dell’ipotesi ex art. 572 c.p., concernenti e la natura del vincolo richiesto e la difficoltà di provare l’elemento soggettivo del reato, hanno contribuito ad ascrivere le condotte di mobbing al delitto sanzionato dall’art. 610 c.p.[8], seppur non sempre adeguato per analoghe considerazioni.

Il clima conflittuale conseguente a un progressivo demansionamento a fronte della progressione in carriera da parte di colleghi più giovani e talvolta meno competenti; all’ostruzionismo; a contestazioni immotivate e continue può avere e spesso ha, quale ulteriore conseguenza l’insorgere di un disturbo psichico causalmente correlato ai problemi, insorti e in corso, sul posto di lavoro. Trattasi di reazioni di natura ansioso-depressiva, disturbo dell’adattamento, disturbo post-traumatico da stress cronologicamente connessi a quanto occorso nell’ambiente lavorativo.

Nel caso di specie, la penale rilevanza assunta dalle condotte realizzate ha portato a sussumere le stesse nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., poiché trattandosi di un impianto produttivo di tipo industriale, annoverante più o meno centoventi dipendenti, mancava il rapporto parafamiliare tra datore e prestatore di lavoro, necessario affinchè si instaurasse una relazione fiduciaria atta a configurare il reato previsto e punito dall’art. 572 c.p.,

Viene di talchè in rilievo, uno dei temi maggiormente controversi il quale concerne la distinzione tra l’analogia e l’interpretazione estensiva.

L’analogia suole tradizionalmente essere definita come un procedimento mediante il quale il giudice in assenza di una norma che disciplini una determinata ipotesi concreta, integri la lacuna, ricorrendo a una norma che disciplini un caso simile – analogia legis – o ai principi generali dell’ordinamento – analogia juris; quanto appena esposto assumendo che, fra il caso non disciplinato e quello disciplinato, esista una similitudine che consenta l’integrazione.

Il divieto di analogia in materia penale si ricava dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile[9]; dagli artt. 1[10] e 199[11] c.p.; dall’art. 25 c. II Cost.[12].

A fronte di un orientamento minoritario che sostenendo l’identità della struttura logica dei procedimenti di analogia ed interpretazione estensiva, ritiene estremamente problematico delinearne un confine, l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale maggioritario prevalente, ritiene in ogni caso legittima l’interpretazione estensiva.

Nel caso in esame, il testo della disposizione ex art. 612 bis c.p. mancherebbe di esplicita delimitazione del fenomeno persecutorio; ricondurre ad essa l’ipotesi del mobbing sembrerebbe conseguentemente sposare le esigenze di tutela del bene giuridico e la reale voluntas legis.

L’interprete, essendo evidente che il legislatore minus dixit quam voluit, al fine di fare rispettare la ratio legis, applicherebbe correttamente la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe[13], affermando “se dunque detta norma è idonea ad offrire copertura penale a qualsiasi fenomeno persecutorio, se ne può dedurre che per suo tramite, magari inconsapevolmente e con un atto di serendipità, il legislatore abbia finito per tipizzare – anche – il c.d. “mobbing”, e così risolvere la vexata quaestio della rilevanza penale di tale forma di prevaricazione”.

Le apparenti similitudini fra le condotte rivelano divergenze tuttavia sostanziali. Se lo stalking consiste in gravi persecuzioni che investono le relazioni interpersonali della vittima, il mobbing è la degenerazione di un rapporto di lavoro che si consuma solo all’interno dell’ambiente lavorativo. Da tale assunto discende la distinzione con il c.d. stalking occupazionale, in cui la fase di persecuzione e conflittualità ha origine nell’ambiente di lavoro ma viene perpetrata al di fuori di esso e attiene alla sfera privata della vittima[14].

Se il dolo generico è elemento soggettivo atto a configurare l’ipotesi di atti persecutori, specifiche potrebbero definirsi la volontà e la rappresentazione del c.d. mobber; e ancora a fronte della plurioffensività del delitto ex art. 612 bis c.p. la tutela del mobbing si rinviene nella dignità sul luogo di lavoro.

L’ascrivibilità del mobbing a quanto punito dall’art. 612 bis c.p. è dunque riconducibile secondo recente giurisprudenza di legittimità al compimento di atti intrinsecamente molesti per chiunque e non soltanto per le condizioni della vittima, perché volti a ridicolizzarla, ad infastidirla, a prospettarne l’immagine in un momento di difficoltà e imbarazzo, a suscitare sentimenti di vergogna e ad esporla alla derisione collettiva nell’ambito della comunità dei soggetti frequentatori del luogo di lavoro; condotte che attengono alla sfera privata e relazionale della persona offesa.

Sulla scorta di tale assunto con sentenza n. 18717/2018, è stata ricondotta un’ipotesi di mobbing, dalla Suprema Corte, a quanto sanzionato nell’ambito del delitto degli atti persecutori. La Corte di Cassazione ha evidenziato che si ravvisi il vincolo causale tra i comportamenti persecutori e l’imposta modifica delle abitudini di vita della vittima qualora al forte disagio patito sul luogo di lavoro a causa delle azioni subite, consegua un grave stato ansioso, a causa del quale la vittima si assenti dall’attività, motivo del suo licenziamento con grave pregiudizio concernente l’impossibilità di maturare l’anzianità pensionistica.


[1] L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

[2] Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo.

[3] Cfr. Cass. Civ., sez. Lav., n. 23671/2014.

[4] Cfr. Cass. Civ., sez. Lav., n. 4174/2015.

[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 359/2003.

[6] Cfr. http://www.salvisjuribus.it/movente-e-dolo-condotte-persecutorie-anche-se-casuali/

[7] Cfr. https://www.penalecontemporaneo.it/upload/1466176761Mobbing-stalking%20Taranto.pdf

[8] Chiunque, con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339.

[9] Le leggi penali e quelle che  fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati.

[10] Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.

[11] Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.

[12] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

[13] Cfr. Cass. 8 gennaio 1980, Riva “L’interpretazione estensiva è consentita anche in materia di leggi penali: essa mira, infatti, a fare esattamente coincidere la norma con il pensiero e la volontà del legislatore, essendo doveroso per l’interprete, al fine di far rispettare la ratio legis, applicare la norma più ampiamente di quanto la dizione letterale comporterebbe, allorché sia palese che il legislatore minus dixit quam voluit”.

[14] Cfr. Cass. sentenza n. 35588/2017.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Veronica Ribbeni

Nel curriculum vitae et studiorum figurano, tra le altre esperienze formative e professionali, l'abilitazione e il pregresso esercizio della professione forense per numerosi anni, il Percorso Formativo Multidisciplinare per Avvocati per il conseguimento di uno specifico profilo professionale nelle materie attinenti a tutte le forma di violenza contro le donne organizzato dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana, al fine di promuovere l’attuazione del Protocollo di Intesa siglato con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri; il superamento dell'esame finale con lode del Master di I livello in scienze investigative, forensi, sociologiche e criminologiche presso l’Università degli Studi di Palermo - dipartimento di discipline processualpenalistiche. Autrice del manuale "Atti persecutori: ipotesi di reato" Mjm Editore Srl e dell'e-book "Difendersi in Internet" http://www.difesaconsumatori.com/ component/dms/view_document/3-difendersi-in-internet?Itemid=113

Articoli inerenti