Stampa e diffamazione: cenni deontologici e penali

Stampa e diffamazione: cenni deontologici e penali

Sommario: 1. Nozione di “stampa” – 2. Il bilanciamento del giornalista – 3. Scriminanti – 4. Più fattispecie di reato.

1. Nozione di “stampa”

Con lo svilupparsi di nuovi mezzi comunicativi, quali il web o i social networks, si è esteso il novero di casi riconducibili alla nozione di “stampa” e dunque assoggettabili alla relativa disciplina normativa.

La definizione “storica” data dall’art. 1 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, recante Disposizioni sulla Stampa (“Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione“) è stata superata dalle considerazioni seguenti: l’ampiezza della nozione data dall’ art. 21 della Costituzione, secondo cui “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e l’analisi degli elementi essenziali di un mezzo di informazione assimilabile ad un giornale.

Su questo profilo si è pronunciata la Cassazione Penale a Sezioni Unite, con la sentenza n. 31022 del 17-07-2015, che individua la componente ontologica (struttura) e quella teleologica (scopi della pubblicazione): “La struttura … è costituita dalla “testata“, che è l’elemento che lo identifica, e dalla periodicità regolare delle pubblicazioni (quotidiano, settimanale, mensile); la finalità si concretizza nella raccolta, nel commento e nell’analisi critica di notizie legate all’attualità (cronaca, economia, costume, politica) e dirette al pubblico, perché ne abbia conoscenza e ne assuma consapevolezza nella libera formazione della propria opinione“.

2. Il bilanciamento del giornalista

L’attività giornalistica trova nella norma costituzionale citata una fondamentale copertura. Tuttavia, all’affermazione di un diritto corrisponde “la reazione uguale e contraria” della riduzione della sfera giuridica di un altro e la libertà di manifestazione del pensiero non vi deroga. Dunque anche il giornalista è chiamato, nello svolgimento della propria professione, a concretizzare quello che può definirsi come un principio generale dell’ordinamento: il bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, accompagnando al godimento dei propri diritti il rispetto di determinati doveri.

Questo è chiaramente esplicitato nella legge del 13 febbraio 1963 n. 69, l’Ordinamento della Professione di Giornalista. L’art. 2, rubricato “Diritti e Doveri“, recita: “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori“.

Tali limitazioni sono riconducibili al diritto alla riservatezza (tutela della personalità, segreto professionale), all’onore o alla buona reputazione altrui (verità sostanziale, lealtà e buona fede) ed infine (ma non per importanza, anzi) all’obiettivo, più collettivo e generale, di permettere che la stampa svolga effettivamente la propria funzione permettendo ai singoli di costruirsi una consapevole opinione sui fatti inerenti la società (collaborazione tra colleghi, fiducia tra stampa e cittadini) in un’ottica collaborativa tra professionisti e privati. La tutela di un metodo: la conoscenza oggettiva, non distorta né strumentalizzata, è l’unica in grado di stimolare la formazione e la circolazione delle idee nonché, di conseguenza, il progresso sociale.

3. Scriminanti

Al di là di ipotesi “di settore” (quale ad esempio l’opinione espressa dal membro del Parlamento nell’esercizio delle proprie funzioni), le cause di giustificazione più rilevanti nella disciplina del giornalismo sono essenzialmente tre: oltre alla già citata verità dei fatti, si richiedono l’interesse pubblico apprezzabile e la continenza del linguaggio utilizzato, come statuito in maniera ormai affermata in sede di giurisdizione civile.

La giurisprudenza penale di legittimità ha assunto ulteriori criteri: ad esempio la sez. V, con la sentenza del 20/07/2016 n. 41099 ha stabilito, richiamando un precedente, che “in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini dell’operatività dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, non determinano il superamento della verità del fatto modeste e marginali inesattezze che concernano semplici modalità del fatto senza modificarne la struttura essenziale“: viene dunque introdotto il concetto di rilevanza nella falsità di quanto enunciato, bilanciato tuttavia dalla rigidità della responsabilità (penale) dell’autore in caso di mancato accertamento di quanto diffuso: il professionista che decida di pubblicare una notizia nonostante non abbia potuto verificarne il fondamento per impossibilità o eccessiva difficoltà nel reperimento delle fonti non è scriminato, assumendo su di sé il rischio di integrare una condotta illecita diffamatoria (vedasi la sentenza n. 44243 del 16/01/2013, sez. V).

Inoltre, un caso particolare è quello del cosiddetto “diffusore mediatico“: è una fattispecie che si configura nel momento in cui un soggetto si limita a riportare le opinioni riferite da un terzo e potenzialmente diffamatorie (un esempio è quello dell’intervistatore). La pronuncia della Cassazione Civile, sez. III, 11/09/2014, n. 19152 ne ha ricostruito in modo completo la disciplina, richiamando la giurisprudenza formatasi sul tema:

  • il professionista non è esonerato dal “verificare se, al momento in cui ne da contezza ai lettori, i fatti riferiti dal terzo e ripresi dal giornalista appaiano plausibilmente veri. Non è, in altri termini, esonerato dal dovere di rispettare la cd. verità putativa dei fatti. Tale dovere di verifica è tanto più doveroso, quanto maggiore è la gravità dei fatti riferiti“, a meno che “sussista un interesse dell’opinione pubblica a conoscere, prima ancora dei fatti narrati, la circostanza che un terzo li abbia riferiti“. Questa eccezione è da valutarsi in concreto, caso per caso, dal giudice chiamato a pronunciarsi;

  • “egli è sempre tenuto a rendere ben chiaro al lettore che sta riferendo opinioni o dichiarazioni di terzi, e non verità oggettive. Chi riferisce opinioni altrui deve quindi astenersi dal ricorrere ad accostamenti suggestivi o capziosi, tali da indurre in errore il lettore e fargli percepire come veritieri i fatti dichiarati da terzi. In quest’ultima ipotesi, infatti, il giornalista dismetterebbe la veste di terzo osservatore dei fatti, per divenire un diffamatore dissimulato”.

E’ importante sottolineare che il “diffusore mediatico”, entro questi limiti, può comunque riportare un’opinione altrui anche se diffamatoria.

4. Più fattispecie di reato

Venendo alla disciplina più strettamente penalistica, la diffamazione è una condotta definita dal primo comma dell’art. 595 c.p.: trattasi dell’offesa all’altrui reputazione attraverso la comunicazione con più persone. Il terzo comma della medesima norma prevede l’ipotesi dell’offesa verificatasi “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità“, circostanza aggravante (innalzamento della soglia massima di reclusione e della soglia minima prevista per la multa).

Mentre questo primo delitto è applicabile all’autore materiale della pubblicazione considerata, l’art. 57 c.p. si riferisce alla figura del direttore responsabile (o del suo vice) ed integra un’ipotesi di culpa in vigilando applicabile unicamente ai titolari di una posizione di garanzia (reato proprio: Cassazione Penale, sez. V, 02/05/2016 n. 42309).


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Lara Gallarati

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