Stato unico di figlio e riflessi successori: come cambia la posizione dei figli adottivi?

Stato unico di figlio e riflessi successori: come cambia la posizione dei figli adottivi?

Lo scenario convulso che ha dato la stura all’intervento della rivoluzionaria Legge 10 dicembre 2012, n. 219, scaturisce da una spasmodica mutazione del costume sociale, sfociata in una concezione proteiforme di famiglia, che ha reso improcrastinabile lo stravolgimento di un impianto codicistico troppo imperniato su dogmi anacronistici. Attraverso il crisma della legge, è stato possibile offrire un sostrato protettivo ad istanze di tutela fino a quel momento trascurate dal Legislatore, e recepite nelle more a livello pretorio, talvolta col rischio di sconfinamento del potere che, come una spada di Damocle, minacciava l’attività della giurisprudenza. Invero, la proliferazione di diversi modelli familiari, quali le convivenze di fatto, le c.d famiglie ricomposte o allargate, hanno innescato roboanti allarmi di disparità di trattamento, specialmente sul piano successorio, tra incolpevoli figli, rei di essere nati in contesti familiari frastagliati come un arcipelago, ed altri figli, nati in costanza di matrimonio sotto l’usbergo della famiglia legittima.

Va sommariamente delineato il quadro ante riforma, nonchè le linee evolutive del concetto di famiglia dal 1942 ad oggi, onde ricostruire le linee ispiratrici della riforma e rilevarne i corollari in materia di successioni. La struttura piramidale della famiglia nucleare, di stampo patriarcale, caratterizzata dalla contrapposizione tra figli legittimi e illegittimi, era giustificata dall’intento del legislatore di riconoscere pieni diritti e tutele unicamente alla prole nata all’interno del matrimonio. Sicchè, la trasmissione del patrimonio del de cuius si realizzava in base ai vincoli di sangue esistenti all’interno di una famiglia fondata sul matrimonio: la successione ab intestato operava pertanto in linea retta, iure sanguinis, con esclusione di diritti sull’eredità al coniuge, cui spettava il mero usufrutto uxorio, e riservando ai figli legittimi una quota pari al doppio di quella riconosciuta ai figli illegittimi, per i quali non era intervenuta la legittimazione ex art. 280, cod. civ.

Con l’avvento della Carta Fondamentale, questo stato di cose era destinato a essere soppiantato da una disciplina conforme a una Costituzione pluralisticamente garantista: nonostante gli interventi ablatori della Corte costituzionale, la medesima disciplina, figlia del legislatore fascista, perdurò per quasi vent’anni, tanto ciò vero che la prima, vera, riforma del diritto di famiglia è datata 1975. Con quest’ultima, si diede avvio a un processo di tendenziale parificazione in ambito successorio, tanto che il coniuge entrò a pieno titolo nel novero dei legittimari, e venne espunta l’espressione figlio “illegittimo” per far spazio alla distinzione tra figli legittimi e naturali. In realtà, importanti differenziazioni erano sopravvissute: una delle più lampanti barriere frapposte ai diritti successori dei figli naturali riconosciuti, era costituita dalla bilateralità del rapporto tra questi e il genitore che avesse effettuato il riconoscimento: in altri termini, il riconoscimento del figlio naturale non consentiva a quest’ultimo di essere inserito nella rete parentale del genitore, con ovvie limitazioni successorie rappresentate, peraltro, dalla facoltà di commutazione riconosciuta ai figli legittimi dall’art. 537, co.3, c.c. Ai figli adulterini, veniva riconosciuto un assegno vitalizio, a differenza dei figli incestuosi che, salvo alcune ipotesi indicate all’art. 251, c.c., nemmeno potevano essere riconosciuti da genitori tra i quali insistesse un vincolo di parentela, salvo l’obbligo di prestare gli alimenti ai sensi dell’art. 433, cod. civ. Per questi ultimi, l’intervenuta riconoscibilità può tuttavia creare dei cortocircuiti nelle relazioni parentali, con evidenti profili di promiscuità, ove si consideri come, ad esempio, il padre possa al contempo essere nonno del proprio figlio.

Inoltre, per l’adozione, consistenti implicazioni successorie ha provocato la riscrittura dell’art. 74, c.c.: prima della riforma, non veniva riconosciuto alcun diritto di successione all’adottante nel caso in cui il figlio adottivo (minore o maggiore d’età) fosse premorto. L’art. 300, c.c., riconosceva semmai l’usufrutto legale sui beni eventualmente presenti nel patrimonio del figlio adottivo minore, il quale ultimo era considerato legittimario equiparato ai figli legittimi dall’art. 536, co. 2, c.c. Ciò, peraltro, in linea con la ratio di completa recisione del legame con la famiglia d’origine, per quanto riguarda l’adozione del minore, e con quella di trasmissione del patrimonio e del cognome in mancanza di altri successibili, che anima invece l’adozione del maggiore d’età di cui agli artt. 291 e ss, cod. civ.

Peraltro, un quadro così delineato, fino alla riforma del 2012, non creava problemi di sorta relativi alla posizione successoria dei figli adottati in casi particolari, di cui all’art. 44, legge 184/1983, ossia per quelle adozioni di minori ispirate non dall’esigenza di offrire all’adottato una nuova famiglia recidendo qualsivoglia legame con la famiglia biologica, ma da quella di garantire serenità a situazioni particolari, allorchè la famiglia d’origine non rappresenti più un contesto ottimale per la crescita e la salute psichica del figlio: tale stato di cose è venuto a mutare per le ripercussioni successorie derivanti dalla nuova concezione di parentela come risultante dalla riscrittura dell’art. 74, cod. civ., ad opera della novella del 2012.

Sennonchè, con l’unificazione dello status di figlio ex art. 315, cod. civ., si è ricoperto di una membrana protettiva la condizione giuridica dei figli in quanto semplicemente nati, onde riconoscere uguali diritti e responsabilizzare i genitori senza che rilevi la presenza o meno di un vincolo matrimoniale tra gli stessi, capovolgendo il rapporto ed operando pregnanti scelte lessicali che manifestano un rovesciamento della categoria giuridica in un’ottica tutta incentrata sulla protezione del figlio: invero, l’introduzione dell’art. 315bis c.c., rubricato “diritti e doveri del figlio”, rispetto all’art. 315 ante riforma, rubricato “doveri del figlio verso i genitori”, mostra come l’intenzione sia quella di offrire le più ampie tutele al figlio in quanto tale, invertendo la prospettiva di tutela e abbandonando la vetusta concezione di offrire piena tutela e dignità al figlio ove nato all’interno del matrimonio, scardinando quell’architrave posta a sostegno della famiglia nucleare. Tanto ciò vero che la precedente intestazione “Della potestà dei genitori” di cui al Titolo IX, Capo II, Libro I, cod. civ., è stata sostituita con “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”, spostando l’ago della bilancia dal genitore al figlio, segnando il crepuscolo della concezione patriarcale della famiglia, fondata su un rapporto di soggezione del figlio alla potestà genitoriale, per lasciare spazio a una responsabilità genitoriale che rappresenta un percorso che i genitori devono compiere di concerto, avendo come bussola le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni del figlio.

L’abolizione della distinzione tra figli legittimi e naturali, in favore dell’unicità dello stato di figlio, è una scelta di campo le cui refluenze si estendono, tra le altre, alla disciplina sulle azioni di stato, in cui oggi si riscontra un superamento del principio di corrispondenza tra verità biologica e verità legale e l’abbandono della originaria tendenza a privilegiare la conservazione dello status per occultare fatti che minavano l’integrità della famiglia e delle relazioni parentali: ed invero, sebbene non esente da critiche mosse da una parte della dottrina, tale disciplina è stata modificata in diversi suoi aspetti dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, agganciando ad esempio il decorso del termine per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità alla conoscenza di un fatto come l’impotentia generandi del marito, anzichè alla nascita tout court; peraltro, la presunzione di paternità è oggi operante non solo riguardo al figlio concepito durante il matrimonio, ma altresì al figlio nato durante il matrimonio; il concetto di parentela, poi, risulta stravolto dal nuovo testo dell’art. 74, cod. civ., da cui conseguono implicazioni successorie di non poco momento: ed invero, ogniqualvolta il legislatore ha ritenuto opportuno azionare la macchina parlamentare per plasmare il diritto di famiglia, affinché istanze sociali assurgessero a dignità di diritto positivo, ha dovuto di riflesso adeguare il diritto delle successioni per esigenze sistematiche ed inevitabili corollari che ne discendono. Basti pensare, per effetto della riscrittura dell’art. 74, c.c., al superamento del principio di relatività del riconoscimento, che precludeva l’inserimento del figlio naturale riconosciuto nella rete parentale del genitore che avesse effettuato il riconoscimento. Si consideri, altresì, a come dall’unicità dello stato di figlio derivi l’unicità dello stato di ascendente, con la conseguenza che quest’ultimo, per il combinato disposto di cui agli artt. 536 e 538 c.c., entri di diritto nel novero dei successibili ex lege al figlio premorto; sotto la scure della riforma della filiazione è logicamente caduto l’istituto della legittimazione ex art. 280 c.c., ormai privo di ragion d’essere, nonchè l’istituto della commutazione ex art. 537, co. III, c.c., ancorchè ritenuto dalla Corte costituzionale espressione di una ratio meritevole e non irragionevole; si è assistito, invece, all’estensione della possibilità di succedere per rappresentazione che, ex artt. 74 e 468 c.c., ora estesa in linea collaterale anche ai discendenti di fratelli e sorelle naturali del delato che non voglia o non possa accettare l’eredità; peraltro, va ora ammessa la consequenziale capacità di successione mortis causa reciproca tra fratelli e sorelle naturali.

Riassunte sommariamente le maggiori ripercussioni successorie derivanti dalla recente riforma della filiazione va, a questo punto, saggiata la delicata problematica afferente la posizione successoria dei figli adottivi.

Per quanto concerne l’adozione del minore d’età, istituto in cui si attua una completa recisione del legame tra questi e la famiglia d’origine, deve rammentarsi come, anche prima della riforma del 2012, l’art. 27 L. cit., equiparasse quest’ultimo al figlio legittimo, riconoscendone lo stato e i pieni diritti successori che ne conseguono: se non altro, per effetto della riforma, il legislatore ha espunto la parola “legittimo”, così che lo stesso va oggi semplicemente considerato quale figlio degli adottanti (semmai, nato in costanza di matrimonio).

Più eccentrica è la posizione successoria dei figli adottivi maggiorenni, disciplina, questa, dal sapore opportunistico e regolata dal Codice civile: stante una mera ratio di garantire all’adottante un successore cui devolvere le sostanze onde evitare che s’aprissero le porte di una successione iure imperii in favore dello Stato, per questo tipo di adozioni non veniva e non viene riconosciuto alcun legame di parentela tra adottante e adottato, espressamente escluso dall’art. 74, c.c., negandosi qualsivoglia diritto dell’adottato sulle successioni dei parenti dell’adottante (art. 567, c.c.) e ogni diritto di successione all’adottante nel caso in cui l’adottato maggiore d’età gli fosse premorto (art. 304, c.c.).

La disciplina senz’altro più problematica, e che ha creato un ampio dibattito in dottrina, è quella relativa alla disciplina degli adottati in casi particolari, elencati all’art. 44, legge 184/83. Si tratta di ipotesi peculiari non accomunate dall’esigenza di garantire al minore l’approdo in un nuovo contesto familiare fino a quel momento mancante, né di offrire nuova linfa alla dimensione paideutico-affettiva della vita dell’adottato offrendogli un nuovo orizzonte in cui proiettare un nuovo percorso esistenziale recidendo ogni rapporto con l’ambiente familiare originario: questa obnubilazione del passato familiare non si rinviene. Ciò che, invece, muove il legislatore a predisporre un istituto puntellato su esigenze concrete dell’adottato, è quella di garantire tutela a situazioni prive di un valido sostrato di serenità: in tali casi, invero, l’adottato non recide alcun legame con la rete parentale nella quale è collocato, ma il legislatore ha inteso garantire un ambiente familiare idoneo a colui al quale ciò non viene garantito dal proprio contesto parentale, concependo un istituto sviluppato sulla falsariga dell’adozione dei soggetti maggiori d’età di cui agli artt. 291 e ss., c.c.

Sennonchè, la riscrittura dell’art. 74, c.c., introducendo una nuova e allargata concezione di parentela per dilatarne le maglie e appianare le asperità di un terreno denso di irragionevoli avvallamenti di tutele, ha rappresentato il motivo scatenante un ampio dibattito dottrinale vertente sui riflessi successori per i soggetti adottati in casi particolari, dovuto a un silenzio del legislatore sul punto: ed invero, è stato sostenuto come il collocamento dell’adottato presso due reti parentali, ossia quella naturale perdurante, e quella degli adottanti, sortirebbe l’effetto di creare un intricato concorso tra diverse categorie di successibili ex lege. Secondo una parte della dottrina, tuttavia, il rischio di creare un groviglio inestricabile in fase di vocazione ereditaria non sussisterebbe, posto che la inconfigurabilità di un vincolo di parentela che l’art. 74 c.c. prevede espressamente per le adozioni dei maggiori d’età, deve potersi applicare analogicamente alla disciplina delle adozioni in casi particolari, che sarebbe pertanto costruita alla stregua della prima. In ordine a tale ultimo profilo, è stato tuttavia rilevato che, per effetto dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al Codice civile, tale estensione analogica non potrebbe operare per via della natura eccezionale della disciplina delle adozioni dei maggiori d’età, che quindi non si applica al di là delle ipotesi in essa considerata. Tentando di giustificare con piglio retrospettivo tale orientamento, può affermarsi che l’art. 74, c.c., laddove inibisce il sorgere di un vincolo di parentela nelle adozioni dei maggiori d’età, altro non fa che restringere il libero esercizio di diritti — rievocando il tenore letterale dell’art. 4 delle preleggi al Codice civile del 1865 — atteso che, se il principio generale è quello di garantire i diritti successori dell’adottato prevedendone l’inserimento nella rete parentale dell’adottante, è certamente eccezionale la previsione ostativa alla configurazione di un tale legame per l’adottato maggiorenne. Sicchè, tali elementi di opinabilità riscontrati nella tesi che tentava di scongiurare il collocamento presso due reti parentali dell’adottato in casi particolari, attraverso un’interpretazione analogica della preclusione ex art. 74 c.c., finisce per riespandere le criticità sistemiche insite nei risvolti successori della disciplina di cui agli artt. 44 ss., L. 183/84.

Pertanto, accanto a tale tesi, è stato di converso osservato in dottrina come l’obiezione che guarda con occhi pavidi alle ripercussioni successorie di cui si è dato conto, in realtà non coglie nel segno: ciò in quanto, il paventato  collocamento presso due reti parentali dell’adottato ex art. 44, l. cit., non si concretizza ove si consideri che, sebbene non avvenga la completa recisione con la famiglia d’origine (o in caso di adottato orfano, del legame con gli altri parenti), si tratta di un istituto in cui la predisposizione di un nuovo ambiente familiare è previsto per esigenze diametralmente opposte a quelle di continuità patrimoniale. In altri termini, l’adottato in casi particolari, è nel nuovo contesto familiare che realizza concretamente le proprie esigenze e in cui sedimenta le basi per un idoneo processo di maturazione personale che nel nucleo familiare biologico non trovava terreno fertile. Sicchè, è nel nuovo ambiente che il soggetto riceve le attenzioni e le premure di cui abbisogna, prerogativa di una famiglia nella più classica accezione del termine, e nella quale pertanto si compie la circolarità del rapporto genitore-figlio: ne consegue che è nella nuova famiglia che l’adottato ai sensi dell’art. 44, l. 183/84, trova il proprio habitat domestico, ed è con questa che si instaura il vincolo di parentela, dovendosi ritenere che il rapporto con la famiglia d’origine si conservi nella misura in cui possa essere ancora significativo per l’adottato.

Una tale lettura interpretativa si pone come un filo d’Arianna per ricondurre a sistema il meccanismo delle successioni mortis causa con la legislazione speciale sulle adozioni in casi particolari, senza metterne a dura prova gli ingranaggi tentando di incastrarne le componenti mediante azzardate acrobazie esegetiche.

Un simile stato di cose mostra come il terreno del diritto di famiglia si rifletta dirompente su altri settori dell’ordinamento, talvolta imponendo non come di consueto una rilettura del diritto privato con la lente della Costituzione, ma, come autorevolmente rilevato, una rivisitazione di quest’ultima alla luce della più recente legislazione: a tale riguardo, si pensi a come l’unificazione dello status di figlio abbia scosso la struttura degli artt. 29 e 30 Cost., dal cui combinato disposto di evince come il Costituente, malgrado il riconoscimento di ogni tutela ai figli nati fuori dal matrimonio, abbia ciononostante  incardinato i diritti della famiglia sui binari del matrimonio.


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Marco Petrigni

Laureato in Giurisprudenza, con tesi in Diritto Costituzionale su "La tutela della concorrenza e il riparto di competenze legislative", relatore Prof.ssa Antonella Sciortino. Nel 2016 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Palermo e il Diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma, con dissertazione in Diritto Civile su "Il danno da nascita indesiderata: legittimazione attiva per il risarcimento del danno - nota di commento a Cass. S.S. U.U., sent. n. 25767/2015".

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