Stop al collare anti-abbaio: è reato di abbandono di animali

Stop al collare anti-abbaio: è reato di abbandono di animali

Quante volte il nostro cane abbaia ininterrottamente senza che si riesca a capirne il motivo? Può farlo per solitudine, per stress, per noia o semplicemente per attirare la nostra attenzione. Come spesso accade i loro ululati continui possono infastidire il vicinato meno tollerante e comprensivo, obbligando i rispettivi proprietari a cercare dei mezzi per dirimere le lamentele e le discordie, prima che possano sfociare in qualcosa di molto più serio.

Sono le persone meno informate e poco argute a decidere di avvalersi del collare anti-abbaio, uno strumento palliativo che all’apparenza può risolvere il disagio, ma allo stesso tempo risulta essere pericoloso per la salute e il benessere dei cani. Vi sono diversi tipi di collari anti-abbaio: ad ultrasuoni, alla citronella o lavanda e, per finire, quello elettrico.

Ed è proprio quest’ultimo a passare al vaglio dei giudici di Piazza Cavour. Con la recente sentenza n. 3290 del 24 Gennaio 2018, la Sezione Terza della Corte di Cassazione Penale ha messo sotto accusa l’uso del collare anti-abbaio che produce scosse o altri impulsi elettrici al cane tramite comando a distanza, in genere diffuso durante l’addestramento degli animali.

Nella vicenda in esame, il Tribunale di Verona aveva condannato l’imputato alla pena di € 800,00- di ammenda  per il reato, così derubricata fattispecie di cui all’art. 544 ter c.p. di maltrattamento di animali, in art. 727, comma 2 c.p. di abbandono di animali, per aver detenuto i propri cani con collari anti-abbaio elettrici e in condizioni incompatibili con la loro natura, a causa del disturbo che recavano ai vicini. D’altro canto lo stesso si difendeva da ogni addebito e proponeva personalmente ricorso per cassazione, al fine di chiedere l’annullamento della sentenza. Egli asseverava che i suoi cani, seppure rinchiusi in un recinto in prossimità di un capannone, provvisti di collari anti-abbaio, godevano di buona salute ed erano privi di qualsiasi tipo di lesione od evidente sofferenza.

Gli Ermellini, di tutta risposta, spiegano che “ai fini dell’integrazione degli elementi costitutivi, del reato di cui all’art. 727 c.p., concernente l’abbandono degli animali, non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale, né che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere in soli patimenti”. Nella specie il c.d. collare anti-abbaio, integra l’elemento oggettivo del reato sopra citato, in quanto concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sull’integrità psico-fisica dell’animale.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso dell’uomo, sancisce dunque che costituiscono maltrattamenti, idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che procurano dolore ed afflizione. In buona sostanza con il termine “abbandono” si intende non solo la condotta di distacco volontario dall’animale, ma anche qualsiasi trascuratezza, disinteresse o mancanza di attenzione, inclusi comportamenti colposi improntati ad indifferenza od inerzia. Detto in altre parole, “la separazione forzata” non consiste unicamente nella volontà di liberarsi dell’animale, ma anche nell’intenzione di non prendersene più cura, pur conoscendo l’incapacità della bestiola di provvedere autonomamente a se stessa.

Vale la pena ricordare, in questa sede, che già l’introduzione della L. 189/2004 ha segnato un passo avanti. Con tale normativa cambia il presupposto giuridico della tutela degli animali, in principio disciplinato dal solo art. 727 c.p., risultando ora leso anche il sentimento verso gli animali, e non più la sola morale umana. Appare oramai noto che con l’inserimento del Titolo IX-bis del libro II del c.p., ossia degli artt. 544 bis e ss. c.p., il maltrattamento degli animali, da semplice contravvenzione diviene un delitto, con conseguente inasprimento delle pene.

Una pronuncia ammirevole e degna di esempio quella della Corte di Cassazione Penale, la quale potrebbe esortare a riflettere e a smuovere gli animi più insensibili, ponendo finalmente fine alle continue perfidie e malvagità, alle quali vengono sottoposti molti poveri animali. Pertanto si auspica che in futuro, una giustizia sempre più severa in materia, possa diventare un buon deterrente per fermare violenze gratuite e maltrattamenti contro queste innocenti creature.


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Daniela Mancini

Laureata in Giurisprudenza presso l'Università dell'Insubria di Como. Esperienza quinquennale presso studi legali attivi in diritto civile e penale.

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