Studio criminologico sul ruolo della donna nella mafia tra Lombroso, teorie sociologiche della devianza e vittimizzazione

Studio criminologico sul ruolo della donna nella mafia tra Lombroso, teorie sociologiche della devianza e vittimizzazione

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il ruolo culturale della donna nella mafia – 3. Il ruolo criminale della donna nella mafia – 4. Vittimizzazione delle donne di mafia – 5. Conclusioni

 

1. Introduzione

“Le donne di mafia non sono protagoniste della violenza in prima persona, generalmente non uccidono, eppure oggi tutti gli addetti ai lavori, magistrati,poliziotti,studiosi, concordano che il ruolo dalle molteplici sfaccettature sia di grande rilevanza” (Renate Siebert)

Gli studi dedicati al ruolo della donna nella mafia accompagnati da esempi di storie vere ci rivela come la condizione delle donne all’interno del sistema mafioso oscilli tra complicità, responsabilità e vittimizzazione intesa come subordinazione e sfruttamento. Il ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso è ancora poco studiato e conosciuto ed è sempre stato piuttosto ambiguo. Infatti la donna anche se formalmente esclusa tuttavia partecipa sostanzialmente alla vita dell’ organizzazione in quanto la figura femminile è centrale nella funzionalità del sistema socio-culturale e criminale mafioso. Sebbene ufficialmente le donne continuino a non far parte dell’organizzazione, a non poter essere formalmente affiliate e a non partecipare ai riti di iniziazione, sono state sempre presenti nelle dinamiche di potere delle organizzazioni mafiose e in molti casi si sono sostituite agli uomini incarnando i medesimi disvalori.

Per anni l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori ovvero poliziotti, magistrati, studiosi si erano assestati sul vecchio stereotipo, proposto dagli stessi mafiosi, della donna silente, defilata, che aveva soltanto un ruolo passivo di madre e moglie e sostanzialmente all’oscuro degli affari e degli atti criminali perpetrati dai propri congiunti, padre, marito, figli. Infatti il binomio donna-crimine era difficilmente accettato in quanto violava le aspettative sociali: dunque la donna di mafia ha goduto per molto tempo di una sorta di impunità connaturata in quanto la donna era considerata per natura conforme alle regole e l’importanza che la società ha attribuito al ruolo di madre ha contribuito a rappresentare le donne come lontane da un comportamento criminale di tipo mafioso. Le donne hanno usufruito della insospettabilità ed invisibilità, per operare, semplicemente, approfittando di una società che non voleva ammettere che le donne fossero capaci di un comportamento criminale. Inoltre i primi studi sulla criminalità femminile, risalenti alla Scuola Positivista e in particolare all’opera di Cesare Lombroso (“La donna criminale”,1893), partendo dal presupposto che i comportamenti criminali poco si addicono al ruolo e alla condizione sociale della donna, convengono che la vera natura della donna, l’essere madre, sia antitetica rispetto al crimine e che il conservatorismo che la caratterizza la porti a essere più rispettosa della legge e meno congenitamente incline dell’uomo a commettere reati.

Tale immagine è andata pian piano dissolvendosi a partire dalla fine degli anni 80 quando nuovi studi sul fenomeno mafioso e le testimonianze dei collaboratori e soprattutto delle collaboratrici di giustizia hanno svelato una realtà nascosta facendo emergere ruoli femminili più attivi e pregnanti rispetto agli stereotipi dominanti e un’immagine della donna di mafia assai differente, articolata e fortemente contrastante con l’icona precedente. Infatti nel corso degli anni le donne hanno assunto ruoli sempre più importanti all’interno delle organizzazioni criminali, tanto che alcune hanno ricoperto addirittura ruoli di primo piano, sono divenute vere e proprie boss.

L’aumento della partecipazione delle donne, favorito dall’espansione del traffico di stupefacenti e dalle crescente esigenza di riciclare denaro sporco, e la constatazione che le attività di alcune cosche mafiose proseguivano nonostante la detenzione del capo, hanno fatto si che la donna perdesse la caratteristica di “deviante segreta” (Becker: deviante segreto è chi infrange le regole sociali ma non viene etichettato come deviante perchè non viene scoperto) e gli addetti ai lavori superassero i tradizionali luoghi comuni e prendessero coscienza di una realtà nascosta che ha avvantaggiato le associazioni mafiose dal momento che le donne hanno potuto agire quasi indisturbate e quindi essere proficuamente utilizzate in vari settori. Infatti tale invisibilità ha garantito alla mafia una sostanziale impunità per le attività delittuose commesse dalle donne, attività che, di norma sono state ritenute non socialmente pericolose e non rilevanti ai fini della configurazione della fattispecie associativa. Significativa è la sentenza del 1983 con la quale il Tribunale di Palermo, pur attestando l’autenticità del legame tra Cosa nostra e le famiglie degli imputati, prosciolse l’ imputata di sesso femminile (Francesca Citarda, moglie del boss Giovanni Bontate e figlia del boss Matteo Citarda), specificando che le donna non poteva essere colpevole perchè, in quanto moglie di un mafioso, non aveva raggiunto un livello di emancipazione sufficiente per essere in grado di commettere il reato per cui era stata sottoposta a giudizio cioè non poteva aver rivestito un ruolo attivo negli affari della mafia perchè carente delle elementari cognizioni tecnico-finanziarie e per la naturale estraneità al difficile mondo degli affari. Per i giudici di Palermo la donna di mafia ancora non aveva un ruolo decisionale di autodeterminazione nell’ambito del sistema mafioso e quindi non procedettero al sequestro dei beni del marito.

Solo nell’ultimo ventennio le donne hanno acquisito una indubbia visibilità, rivelando un universo fluido e diversificato. Infatti le donne che troviamo nel raggio di influenza della mafia sono estremamente diverse tra di loro e la loro partecipazione alle attività criminali varia a seconda della provenienza familiare, delle condizioni ambientali e dell’indole personale. In particolare l’universo femminile mafioso comprende:

A) donne nate e cresciute nelle famiglie mafiose: esse, mogli, figlie e sorelle dei boss, agiscono da trait d’union fra gli uomini latitanti o in carcere e i membri dell’organizzazione che possono muoversi alla luce del sole. Sono perfettamente a conoscenza degli atti violenti perpetrati dai loro uomini e svolgono un ruolo fondamentale che va dal sostegno psicologico e materiale alla temporanea delega del potere attraverso attività di prestanome, gestioni patrimoniali e finanziarie, estorsioni e mediazioni;

B) un esercito di donne che vivono ai margini della società, in codizioni economiche disagiate che vengono utilizzate dalla mafia soprattutto nel settore del narcotraffico. Infatti le donne coinvolte nel traffico di stupefacenti sono estranee alle logiche dei gruppi criminali per i quali lavorano e di fronte all’opportunità di racimolare qualche spicciolo accettano le “proposte lavorative” della criminalità organizzata.

All’interno delle organizzazioni mafiose le donne hanno, da sempre, sia esercitato compiti tradizionali nella sfera privata quali l’educazione dei figli e l’incitamento alla vendetta; sia svolto anche dei ruoli importanti nell’ambito criminale soprattutto in funzioni di supporto e di sostituzione agli uomini al fine di garantire il buon andamento dei principali traffici illeciti in cui la famiglia è inserita. In entrambi i casi le donne hanno contribuito a rafforzare la struttura socioculturale del sistema mafioso, garantendone la sopravvivenza nonostante le condanne penali a carico degli uomini. In pratica la donna riveste all’interno dell’ organizzazione mafiosa due ruoli fondamentali: il ruolo culturale e il ruolo criminale.

Dopo questa introduzione passerò, nei prossimi capitoli, ad esaminare l’effettivo ruolo che le donne ricoprono nella mafia e le varie teorie criminologiche ad esso riferibili, partendo dal loro ruolo tradizionale, ai loro compiti di gregarie, supplenti e vere e proprie sostitute del boss, fino al loro sfruttamento da parte dei maschi del clan.

2. Il ruolo culturale della donna nella mafia

“Molte disgrazie, molte tragedie del Sud sono venute dalle donne, soprattutto quando diventano madri. Quanti delitti d’onore sono stati provocati, istigati o incoraggiati dalle donne! Dalle donne madri, dalle donne suocere.” (Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora)

Quello culturale è il ruolo tradizionale nel quale la donna è responsabile del processo educativo e della trasmissione della cultura e del codice mafioso. Le donne hanno rivestito e rivestono tuttora un ruolo fondamentale nella socializzazione dei figli all’odio e alla vendetta e nella trasmissione di un certo modo di porsi. Infatti soprattutto la madre ha un ruolo centrale nel processo educativo dei figli e nella creazione della cd”psiche mafiosa”: la madre è educatrice, a lei spetta il compito di inculcare cioè radicare in maniera irreversibile nei figli l’ideologia mafiosa ovvero le consuetudini e i disvalori di cui si nutre la criminalità mafiosa quali omertà, vendetta, disprezzo dell’ autorità pubblica, indicati come “giusti” in contrasto con i principi diffusi nella società civile. La mafia si configura come una vera e propria subcultura criminale cioè come sottogruppo avente un’ esistenza e un ruolo storico in seno alla società e dotato di un autonomo patrimonio culturale (valori, idee, concetti, miti), di un proprio linguaggio e di una propria legislazione interna appresi e condivisi dai suoi membri e antiteci rispetto ai valori della cultura dominante. Infatti la mafia è un’ organizzazione criminale con una propria ideologia culturale, un sistema di valori alternativo e prevalente rispetto a quello proposto dalla società civile.

La mafia non è soltanto un sistema criminale ma coinvolge anche la psicologia di chi vi è coinvolto e sin dall’infanzia il sentire mafioso ha origine nella famiglia la quale si configura come luogo privilegiato di formazione dell’identità e della coscienza, come ambiente privilegiato per la trasmissione dei valori su cui si basa l’agire mafioso. Ai figli si insegna l’agire criminale sotto forma di apprendimento durante la fase della socializzazione primaria cioè quella che si realizza all’interno del gruppo familiare. Il bambino apprende, assimila il modello culturale mafioso attraverso l’ osservazione e la partecipazione per poi arrivare ad interiorizzarlo, si identifica con chi si prende cura di lui all’inizio della sua vita e gli mostra un modello di valori e principi su cui costruirà i propri punti di riferimento. Si tratta di un tipo di apprendimento cultural-criminale che ricorda quanto sostenuto da Sutherland nella Teoria delle associazioni differenziali: l’agire criminale, al pari del comportamento sociale, si impara, si apprende e quindi l’individuo sviluppa una condotta conforme oppure deviante a seconda dei modelli sociali favorevoli o contrari alla legalità con i quali viene a contatto. Il luogo ideale per l’apprendimento è costituito da un’attività intima e privata quale è la famiglia o il gruppo amicale. Nel caso degli esponenti mafiosi il comportamento criminale è un comportamento appreso percepito come vero e proprio valore trasmesso all’interno della famiglia; il mestiere di criminale si impara in casa. Inoltre la madre ha il potere di influenzare le scelte del figlio, è un elemento cruciale affinchè il figlio assimili il modello paterno.

Un modello di donna che ha cresciuto i figli secondo i valori dell’ideologia mafiosa è quello di Ninetta Bagarella: donna di lignaggio mafioso è sorella di Leoluca Bagarella e moglie di Totò Riina (capo dei capi di Cosa Nostra fino ai primi anni 90) condivide la latitanza con il marito e nel mentre si occupa dell’educazione dei figli; le imputazioni per associazione di stampo mafioso a cui entrambi i figli sono stati sottoposti e l’ergastolo per omicidio cui è stato condannato il maggiore testimoniano il risultato di questo progetto educativo.

Inoltre la donna è titolare anche della cd “pedagogia della vendetta” (termine coniato da Renate Siebert) cioè di quel modello educativo incentrato sul mito del sangue e dell’onore con il quale sono cresciute dalle madri intere generazioni di mafiosi. Le donne hanno il compito di incitare continuamente i figli a vendicare l’onore del padre ucciso, a riparare il torto subito, non lasciando impuniti i suoi assassini. La vendetta, strettamente legata al concetto di onore, è un principio chiaro insegnato all’interno dell’organizzazione mafiosa e l’ invocazione femminile alla vendetta è accompagnata da un codice linguistico simbolico che si rifà al sangue: “sangue lava sangue”; “l’offesa va lavata con il sangue”. L’ideologia dell’onore può essere interpretata come una specie di “tecnica di neutralizzazione”del comportamento criminale (teoria di Sykes e Matza): le motivazioni onorifiche offrono all’affiliato una sorta di giustificazione morale alle proprie azioni efferate.

E’ proprio il complesso di valori della subcultura mafiosa di appartenenza, trasfusi in modo martellante sin dall’infanzia, che spiega come il giovane possa neutralizzare i valori della società civile, favorevoli alla giustizia e al rispetto delle leggi, attraverso il richiamo ad una lealtà più alta, quella della propria comunità e della propria famiglia mafiosa.

La funzione di incitamento alla vendetta va intesa non come parte di un ruolo fisiologicamente tipico della donna, ma come una funzione culturale tradizionalmente attribuitale nella divisione sessuale dei compiti all’interno di una determinata comunità: infatti studi della criminologia di stampo femminista (tra cui la criminologa Sonia Ambroset) hanno decostruito i preconcetti della criminologia classica in base ai quali la donna è stata storicamente considerata, per natura, più incline ad istigare il delitto piuttosto che a compierlo.

3. Il ruolo criminale della donna nella mafia

“Quando la mafia è davvero nei guai chiama a raccolta le sue donne” (sostituto procuratore Antonio Laudati). Anche se formalmente escluse dall’onorata società, in quanto non affiliate, le donne hanno assunto nel corso del tempo, accanto al ruolo tradizionale ricoperto nella sfera privata, un ruolo criminale. Infatti negli anni è emerso e si è affermato sempre di più un ruolo significativo delle donne non solo come trasmettitrici della cultura mafiosa in seno alla famiglia ma anche nella gestione delle attività delle cosche. Negli ultimi anni sono sempre di più le donne coinvolte in affari illeciti e l’intervento femminile nella sfera criminale da sporadico è diventato più sistematico. Le donne nel corso degli ultimi decenni hanno assunto il ruolo di gregarie e supplenti dei boss e talvolta sono giunte ad incarnare il ruolo di vero e proprio leader. Inoltre i numerosi casi di cronaca hanno smentito le convinzioni circa il ruolo esclusivamente pedagogico della donna all’interno della criminalità organizzata e l’immagine della moglie, della madre e della sorella del mafioso che per anni ci è stata tramandata come quella di una donna silenziosa, che non sa ciò che accade intorno a lei. Il coinvolgimento femminile nella sfera criminale conferma le capacità della mafia di adattarsi alle sfide economiche, giudiziarie e sociali: infatti il ruolo criminale delle donne è stato influenzato sia dalle esigenze di adattamento ai nuovi mercati illeciti sia dalla reazione alle attività di contrasto delle autorità pubbliche, che hanno portato a dei mutamenti interni al sistema mafioso. Per capire i cambiamenti interni alla mafia è utile rifarsi alla distinzione tra power syndicate (esso indica la struttura famiglia, con le rigide affiliazioni) e enterprise syndicate (esso rappresenta la molto più mobile rete degli affari cioè la dimensione economico-finanziaria) proposta dal criminologo Alan Block. Tale distinzione tra power e enterprise syndicate è fondamentale per inquadrare la posizione della donna la quale può prendere parte alla dimensione economico-finanziaria ma non le è concesso essere ammessa al power syndicate. Tuttavia tale schema proposto da Block è riduttivo perchè consente di spiegare la condizione di coloro che non possono essere ufficialmente membri del sodalizio criminale ma vengono assoldati per il solo fatto di soddisfare le nuove esigenze dell’organizzazione, come accade proprio nel caso delle donne; al contrario non permette di analizzare quei casi prevalenti di donne che sono già presenti nella struttura culturale della mafia e che, nonostante la loro ordinaria esclusione, possono prendere parte al power syndicate nei momenti di crisi del consorzio criminale.

A partire dagli anni 70 l’allargamento delle attività criminali in termini qualitativi, quantitativi e geografici, in particolare l’espansione del traffico internazionale di stupefacenti e la crescente necessità di riciclare i profitti illeciti hanno costretto i consorzi mafiosi a incrementare il personale impiegando in tali affari anche soggetti non affiliabili, secondo il codice mafioso, all’ “onorata società”, tra cui proprio le donne. Tale coinvolgimento si è consolidato nei periodi più critici per i consorzi mafiosi conseguenti alle guerre tra clan o alla repressione statale. A seguito della detenzione e della latitanza di numerosi esponenti anche di spicco dell’organizzazione mafiosa, come risulta dai fatti di cronaca nonchè da numerose sentenze, la donna ha assunto la direzione della cosca forte anche del fatto che alcune di esse si sono inserite nel tessuto sociale, nelle professioni e quindi possono aiutare la mafia con le loro attività parallele. Infatti quando i mariti si trovano in carcere sono le mogli, spesso aiutate dai parenti, ad assumere il controllo degli affari di famiglia. Dunque la mancata affiliazione non ha precluso alle donne un’effettiva partecipazione alle attività dell’organizzazione.

In particolare oggi le donne di mafia sono parte attiva nello svolgimento della criminalità mafiosa, la loro partecipazione è reale ed effettiva e sono tre i settori chiave in cui esse si inseriscono: traffico di droga, settore economico-finanziario e attività di gestione del potere.

Traffico di droga: l’espansione dei traffici ha posto la necessità di trovare manodopera fidata. Nel settore del narcotraffico le donne vengono assoldate, agiscono, come corrieri e spacciatrici. Infatti trasportare la droga è un mestiere particolartmente adatto alle donne sia perchè possono nascondere facilmente le confezioni di stupefacenti simulando una gravidanza o arrotondando fianchi e seno sia perchè più sicure in quanto insospettabili (proprio l’insospettabilità è preminente nell’assoldare figure femminili) e meno controllate dalla polizia (è altamente improbabile che vengano sottoposte a perquisizioni in aeroporto). Le donne coinvolte nel narcotraffico sono estranee alle logiche dei gruppi criminali per i quali lavorano: infatti si tratta di donne del poplo, soprattutto casalinghe madri di famiglia incensurate che vivono ai margini della società, hanno un numero elevato di figli da mantenere e faticano ad arrivare a fine mese. Queste donne accettano di entrare in traffici illeciti sia per provvedere alla propria famiglia sia per soddisfare il desiderio di raggiungere le mete consumistiche proposte dalla società.

Emblematica è la storia di un gruppo di casalinghe residenti a Torretta (paesino vicino Palermo) che nei primi anni 80 venivano sfruttate dalla mafia per trasportare ingenti quantità di droga da Palermo a New York (con indosso panciere riempite di eroina e ben profumate per non essere individuate dai cani antidroga, si imbarcavano all’aeroporto di Punta Raisi per New York dove consegnavano la merce ad altri affiliati dell’organizzazione. Dopo alcuni giorni ritornavano a Palermo con i dollari appiccicati sul corpo con il nastro adesivo). Le storie di vita delle donne di Torretta mettono bene in luce le condizioni di elevata marginalizzazione che connotano le criminali donne le quali sono spesso indotte al reato da situazioni di degrado e di miseria. Infatti di fronte all’opportunità di racimolare qualche spicciolo (infatti svolgono compiti comunque poco remunerativi anche se altamente rischiosi) accettano le “proposte lavorative” della criminalità organizzata che approfitta proprio di persone che versano in difficili condizioni economiche. Tuttavia a suscitare le condotte illegali non sono solo le necessità economiche di base, ma anche la mancanza di mezzi sufficienti per raggiungere le mete consumistiche proposte dalla società. Dunque il loro agire va letto attraverso la combinazione di due teorie sociologiche della devianza: la teoria della marginalizzazione e la teoria dell’anomia di Merton. Il sociologo struttural-funzionalista Merton mutua il concetto di anomia da Durkheim ma attribuisce ad esso un diverso significato: infatti utilizza il concetto di anomia per spiegare l’origine del delitto, intentendo il delitto come risposta a una società che ha le caratteristiche anomiche cioè la sua cultura propone delle mete senza che vengano forniti a tutti i mezzi per conseguirle. Infatti guadagnare soldi trasportando droga permetteva loro di colmare il gap prodotto da un’esperienza sociale condizionata da una situazione di anomia nel senso inteso da Merton. Questo risulta evidente sia dal modo in cui spendevano il denaro illecitamente guadagnato: lo spendevano per comprare prodotti superflui e consumistici; sia anche dalle osservazioni di una delle donne coinvolte la quale per giustificare la propria condotta sostiene di avere avuto bisogno di quei soldi per pagare le bollette e al contempo ammette di averli usati anche per abbellire la propria abitazione, una casa popolare (“ho fatto quello che ho fatto per il grande bisogno. La casa quando ce l’hanno data era bruttissima: porte, finestre, bagno, cucina, tutto era scarso come in tutte le case popolari; io l’ho trasformata perchè ho sempre sognato una casa bella come quella dei signori”). Dunque il denaro illecito risolveva talune strette necessità e contemporaneamente alleviava parte delle proprie frustrazioni. Infatti in contesti caratterizzati da un elevato livello di anomia cioè in cui vi è una forte disgregazione socio-economica la mafia trova facilmente lavoratori da assoldare perchè gli individui che vivono in condizioni di disagio vedono il mondo criminale come un’alternativa alla miseria economica, un’alternativa che oltre a fornire loro delle prospettive di vita, risulta allettante e garantisce anche un certo status sociale a cui altrimenti essi non potrebbero arrivare.

Nel settore del narcotraffico le donne vengono coinvolte anche nell’ organizzazione di traffici di droga: è il caso di Angela Russo, detta “Nonna Eroina”, arrestata nel 1982 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Non ha avuto solo un semplice ruolo di corriera della droga ma è stata proprio lei a reggere anche le fila dell’ingente narcotraffico fatto dalla sua famiglia: infatti era lei che coordinava l’attività dei figli e delle nuore coinvolti nel traffico di droga, smistava le ordinazioni e a volte trasportava lei stessa la droga non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti. Nonna Eroina, nata e cresciuta in una famiglia mafiosa, può considerarsi una donna boss anche perchè aderisce totalmente e con convinzione al mondo mafioso: infatti sia al momento dell’arresto sia poi durante il processo e nei confronti del figlio pentito si comporta da perfetta mafiosa, presenta gli atteggiamenti tipici dei boss, mostrandosi forte e determinata, negando con convinzione l’esistenza della mafia e disprezzando la legge statale; ripudiando pubblicamente uno dei figli (Salvatore) quando decide di collaborare con la giustizia chiamandolo “infame” e “vigliacco” anche davanti ai giudici.

Altri esempi di donne che si sono comportate come vere e proprie boss sono rappresentati da: Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, la quale in un’intervista affermò “la mafia non esiste è tutto un’invenzione dei giornali per vendere più copie”; e Serafina Buscetta, sorella di Tommaso (Masino), la quale rinnegò il fratello per la sua scelta di collaborare con la giustizia affermando in un’intervista “Non dite ancora che è mio fratello. Mi ha rovinato la vita”.

Settore economico-finanziario: l’esigenza di riciclare sempre più denaro sporco ha generato un lavoro criminale non necessariamente violento e compatibile con i tratti relazionali e culturali femminili. E’ il settore in cui si riscontra il maggior coinvolgimento femminile perchè questo ambito è particolarmente adatto alle donne sia perchè non richiede l’utilizzo delle violenza fisica che in generale, e nella mafia in particolare, è associata al sesso maschile sia perchè le donne anche grazie alla loro preparazione e ai loro studi molto spesso risultano più competenti e affidabili degli uomini. In tale settore le donne vengono utilizzate come la faccia pulita dell’organizzazione: infatti sono numerose le donne che favoriscono le attività delittuose dei congiunti, risultando prestanome, proprietarie di quote o addirittura intestatarie di società e imprese per lo più usate per il riciclaggio del denaro sporco, proprietarie di immobili acquistati con denaro illecito, proprietarie di esercizi commerciali, al posto dei mafiosi che non possono comparire.

Un esempio di donna particolarmente attiva in tale settore è quello di Nunzia Graviano: detta la “picciridda”, la sorella dei boss (Giuseppe e Filippo Graviano) del mandamento di Brancaccio (condannati per l’omicidio di padre Pino Puglisi e ritenuti responsabili dell’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino), è stata caratterizzata da un certo spessore criminale e ha svolto efficacemente il ruolo di supplente durante la carcerazione dei fratelli reggendo le fila dei loro affari. Si è occupata soprattutto del settore finanziario, reinvestendo le ingenti risorse economiche della cosca, perchè ha tutte le potenzialità per occuparsi di investimenti in quanto è una donna sveglia, intelligente e acculturata: infatti la Graviano conosce le lingue straniere, sa usare il computer e legge il “Sole 24 ore” per tenersi aggiornata sulla Borsa e scegliere al meglio le azioni su cui investire i proventi illeciti.

La partecipazione delle donne nella sfera economico-finanziaria rimane nascosta, garantendo l’occultamento delle origini illegali dei beni accumulati dalla mafia, fino alla seconda metà degli anni 80 cioè fino a che non viene applicata la legge Rognoni-La Torre (approvata nel 1982): essa consente di emettere ordinanze di sequestro nei confronti di proprietà registrate sotto nomi “puliti”, ma sospettati di nascondere patrimoni mafiosi. Tale legge dunque estende ai familiari e ai prestanome dei mafiosi le indagini patrimoniali finalizzate alla confisca dei beni di cui non venga provata la legittima provenienza. Un esempio interessante al riguardo è quello di Francesca Citarda, moglie del boss Giovanni Bontate e figlia del boss Matteo Citarda entrambi appartenenti a famiglie mafiose storiche, la quale viene proposta per il soggiorno obbligato insieme al marito nel 1983 in applicazione della legge Rognoni-La Torre perchè il patrimonio dei due coniugi sarebbe in larga parte di origine illecita, costruito con il riciclaggio del denaro ricavato dal traffico di droga. Tuttavia il Tribunale di Palermo, pur attestando l’autenticità del legame tra Cosa Nostra e le famiglie degli imputati, respinge la richiesta di soggiorno obbligato solo per la donna sostenendo che non poteva essere colpevole perchè, in quanto moglie di un mafioso, non aveva raggiunto un livello di emancipazione sufficiente per essere in grado di commettere il reato per cui era stata sottoposta a giudizio cioè la donna non poteva aver rivestito un ruolo attivo negli affari della mafia per la naturale estraneità al difficile mondo degli affari. Infatti per lungo tempo i giudici hanno ritenuto le donne di mafia estranee alle imprese e agli affari di famiglia e la concezione mafiosa della donna incompatibile con la possibilità che essa assuma un ruolo attivo, rilevante penalmente o anche solo ai fini dell’applicabilità di una misura di prevenzione. Questo è uno dei casi più rappresentativi di trattamento preferenziale dei giudici nei confronti del genere femminile.

Attività di gestione del potere: le donne possono ricoprire anche ruoli più direttamente correlati alla gestione del potere mafioso e questo accade soprattutto quando la figura maschile è assente perchè è in carcere o perchè latitante. Nelle vesti di messaggere le donne trasportano, per conto dei membri del clan, le cd “ambasciate” (messaggi),dal carcere all’esterno oppure da un luogo di latitanza all’altro, attraverso le quali gli uomini possono supervisionare l’esercizio del potere temporaneamente delegato ad altri affiliati o, in certi casi, alle donne stesse. Le donne acquistano posizioni di comando quando il proprio uomo è assente (in carcere o latitante) ed il loro potere è meramente delegato, sostitutivo e temporaneo: infatti il potere delle donne scaturisce dallo stato detentivo o di latitanza del congiunto e dall’appartenenza familiare e gli uomini finchè sono in carcere concedono il potere a sorelle, mogli, figlie che lo esercitano fino a quando qualche uomo della famiglia riesce ad uscire dal carcere e a riprendere in mano la direzione del clan. Le donne boss sono accomunate dal fatto di essere temute e rispettate dai membri dell’organizzazione mafiosa sia per il loro cognome sia per la loro forte personalità.

In particolare nei momenti di crisi dell’organizzazione, dovuti all’assenza o alla collaborazione degli uomini del clan e al potenziamento dell’azione repressiva da parte delle Autorità competenti, la presenza femminile soprattutto nei ruoli di comando semplicemente si intensifica; infatti le donne sono presenti nella scena criminale anche nei momenti “di tranquillità”. La delega temporanea del potere costituisce un’intensificazione della presenza femminile soprattutto nelle posizioni di comando e non un semplice neoinserimento perchè le donne che da un giorno all’altro si rivelano così adatte all’attività criminale vera e propria sono già inserite in modo latente nel contesto criminale mafioso. Infatti le donne appena sono chiamate a ricoprire cariche elevate cioè si pongono alla guida del clan dimostrano immediatamente notevoli capacità di gestione delle attività grazie al know-how mafioso precedentemente acquisito perchè non è possibile improvvisare l’amministrazione di attività criminali che esige conoscenze e competenze specifiche. Le donne mostrano di avere una profonda conoscenza degli assetti mafiosi senza la quale non sarebbero in grado di sostituire il congiunto assente. Si tratta di un sapere costruito in passato, utile nelle situazioni di emergenza, segno che le donne sono in qualche modo coinvolte nel power syndicate già prima di comparire sulla scena criminale cioè fanno parte del gruppo mafioso già prima di rimpiazzre i loro congiunti. Infatti quasi tutte le mogli, le figlie e le sorelle degli uomini d’onore sono nate e cresiute in famiglie mafiose, hanno respirato aria di mafia fin dalla nascita e perciò conoscono benissimo il modo di fare e di pensare di un mafioso. Emblematico è il caso di Giusy Vitale la quale faceva parte del gruppo mafioso già prima di rimpiazzare i fratelli alla guida del sodalizio: infatti si permette addirittura di esprimere la propria opinione riguardo la scelta del nuovo capo mandamento, dopo aver visionato uno dei pizzini che i fratelli erano soliti consegnarle per comunicare tra di loro.

Giusy Vitale: è la prima donna condannata per associazione mafiosa (1998). Nota come “boss in gonnella”, ultima di quattro fratelli, è stata cresciuta per diventare una vera mafiosa. E’ l’unica donna nella storia di Cosa Nostra ad aver preso decisioni normalmente appannaggio degli uomini e dei boss, è l’unica ad aver veramente comandato: infatti quando i fratelli finiscono in carcere si ritrova ad essere la loro erede, prende il loro posto diventando capo mandamento di Partinico, e in questo ruolo fa eseguire sentenze di morte, omicidi, partecipa ai traffici di droga, ricicla il denaro sporco, ordina taglieggiamenti a commercianti e imprenditori, partecipa ai vertici mafiosi, si procura armi e ha contatti con importanti esponenti della cosca, da Bernardo Provenzano, a Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca.

Altro esempio significativo è Maria Filippa Messina: è la prima donna ad essere stata sottoposta al 41 bis cioè al cd carcere duro (nel 1996). E’ la moglie del boss Nino Cinturino e fu arrestata nel 1995 per aver sostituito completamente il capomafia assente dal 1992. La sua storia mette bene in luce la presa di potere come concessione scaturita dallo stato detentivo del marito e avente carattere delegato e sostitutivo: infatti quando il marito viene arrestato insieme a numerosi affiliati del suo clan si apre per Maria Filippa l’opportunità di dimostrare le proprie doti criminali, dapprima fungendo come anello di congiunzione tra il carcere e il mondo esterno, e successivamente sostituendosi al marito alla testa del consorzio criminale, una volta che questi fu sottoposto alla detenzione speciale. Infatti dal momento dell’arresto del marito diventa lei la guida del clan mostrando un particolare spessore criminale: è il vero polmone dell’organizzazione, tiene a raccolta gli uomini di maggior prestigio del clan e organizza con essi le sorti dell’ organizzazione criminale di cui è a capo. Non si limita a riscuotere tangenti per conto del marito in galera ma assume il comando militare della cosca e progetta massacri contro le bande rivali, incitando i membri del sodalizio a fare fuori i nemici. Infatti viene accusata di aver assoldato un killer per vendicare l’omicidio di un associato del clan e al momento dell’arresto era in procinto di ultimare l’organizzazione di una strage per eliminare esponenti del clan rivale e ristabilire il dominio della cosca dei Cinturino.

4. Vittimizzazione delle donne di mafia

Le vittime della mafia non sono solo quelle persone che vengono uccise ma anche quelle donne, sia estranee sia interne alla famiglia mafiosa, che vengono sfruttate dalle associazioni mafiose per soddisfare gli interessi dell’organizzazione stessa e quelle donne nate e cresciute in famiglie mafiose che, nonostante arrivino a ricoprire ruoli di comando, continuano comunque ad essere sottoposte ai maschi della famiglia (padri, mariti, fratelli) anche per quanto riguarda la sfera prettamente privata, la loro vita personale.

Infatti la condizione della donna nella mafia presenta anche aspetti di vittimizzazione cioè A) di sfruttamento perchè sia il diretto coinvolgimento negli affari criminali (come corrieri della droga, spacciatrici) sia l’attribuzione del potere di comando (cioè la donna si pone alla guida del clan, si configura come lady boss) rispondono alla logica secondo cui l’uomo utilizza le donne nel mercato criminale quando gli servono perchè sono indispensabili alle attività illecite maschili in quanto l’adempimento dei loro incarichi è unicamente funzionale agli interessi dell’organizzazione. Le donne fanno il loro ingresso in momenti di espansione delle attività criminali (cioè quando il mercato criminale richiede manodopera: esempio l’aumento della partecipazione delle donne è favorito dall’espansione del traffico internazionale di stupefacenti) e nei periodi di emergenza cioè nei periodi di conflitto tra fazioni rivali e di potenziamento dell’azione repressiva da parte delle Autorità competenti: infatti in tali situazioni le donne divengono pedine utili per accrescere le attività criminali, nei momenti di espansione, o per sopravvivere in tempi difficili. Significative sono al riguardo le storie delle donne di Torretta e di alcune lady boss quali Nunzia Graviano e Maria Filippa Messina.

B) di subordinazione al potere di controllo degli uomini della famiglia anche sul piano delle scelte che riguardano la sfera personale. Per esempio persino una donna, apparentemente emancipata come Nunzia Graviano, trattata dai fratelli al pari di un membro della cosca, si ritova a dover rinunciare alla propria individualità per sottostare alle regole maschili della famiglia. La sua libertà personale è limitata dalla volontà dei fratelli che, non gradendo la storia d’amore di Nunzia (aveva intrapreso una relazione con un medico siriano),tra l’uomo amato e la famiglia d’origine, la costringono a scegliere quest’ultima.

5. Conclusioni

In base a quanto espresso nelle pagine precedenti possiamo arrivare alla conclusione che: 1) anche nella mafia come in ogni famiglia e in ogni società la figura femminile riveste e rivestirà sempre un ruolo fondamentale e indispensabile perchè le donne costituiscono l’architrave su cui poggiano le organizzazioni mafiose: esse hanno la funzione di procreare, mettere al mondo i figli e di educarli e formarli come figli d’onore garantendo così il futuro dell’organizzazione; di intervenire nelle situazioni di difficoltà dell’organizzazione assicurando la prosecuzione del comando, del potere dell’uomo in carcere o latitante e garantendo così la sopravvivenza dell’organizzazione. Alla mafia la donna serve: serve, in primo luogo, anzi è indispensabile nell’essere madre, poiché in tale veste è la principale, se non l’unica responsabile, della trasmissione ai figli del codice disvaloriale mafioso concorrendo a formare perfetti futuri Riina o Provenzano e perfette future Palazzolo o Bagarella; serve perché tra detenuti, latitanti e pentiti la donna rimane la persona più affidabile cui impartire importanti compiti che si traducono nella commissione di svariati illeciti; ed ancora serve ed è necessaria se grazie ad una certa miopia del mondo giuridico e degli altri addetti ai lavori, che ha creduto alla sua marginalità, ha goduto di maggiori sconti di pena se non addirittura dell’impunità, garantendole, per più di 20 anni, un indisturbato sviluppo.

2) nonostante nel tempo il coinvolgimento femminile nella sfera criminale da sporadico sia diventato più sistematico e sia aumentato il numero di casi di supplenza e di donne capo è sbagliato pensare che le organizzazioni mafiose abbiano avviato una politica di pari opportunità per le donne perchè le storie delle donne di mafia rivelano che la condizione femminile nella mafia è mutata tanto quanto è rimasta intatta in quanto la mafia continua a conservare il suo carattere maschilista e a ricorrere alle donne per i suoi affari criminali solo in caso di necessità. Infatti il mondo mafioso continua ad essere caratterizzato nei confronti delle donne da: relazioni di genere di tipo patriarcale, dipendenza economica, controllo degli uomoni sulla loro vita, assunzione di lavori poco remunerativi e altamente rischiosi, concessione del potere meramente temporanea; tutti elementi che testimoniano sia come l’inclusione della donna si configuri quale sfruttamento femminile strumentale alle attività criminali dell’organizzazione stessa sia come la mafia non riconosca il valore della libertà femminile intesa come presa di coscienza della propria autonomia individuale.Infatti l’inserimento sempre più organico e stabile, non è emancipazione, ma una gentile “concessione” dell’Onorata Società rispondente solo all’egoistica necessità di preservare se stessa. La mafia ha consentito l’accesso alle attività criminali ad una nuova generazione di donne, più istruite e libere di muoversi rispetto al passato ma allo stesso tempo, però, ha negato loro la completa indipendenza fisica, psicologica ed emotiva. Le donne sembrano aver raggiunto un’eguaglianza sul piano criminale ma non nella sfera individuale dove appaiono ancora legate a vincoli tradizionali propri di un sistema di genere patriarcale. Non vi è mai una rottura della dipendenza psicologica ed economica dai propri mariti o compagni, se non nei casi di collaborazione con la giustizia. La mafia nega alla donna qualsiasi forma di parità e di libertà d’espressione della propria individualità. Sicuramente la loro condizione proprio perché caratterizzata in parte da elementi di subordinazione e dipendenza dall’uomo, è una condizione di inferiorità e quindi si può parlare di vittimismo.

3) il comune atteggiamento paternalistico e maschilista, che ha caratterizzato la società, gli addetti ai lavori e la “criminalità di genere”, ha celato il volto femminile della mafia permettendo alla stessa di operare in sordina.


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